venerdì 24 luglio 2009

Massimo Rizzante: L’Italia, vivaio di gerarchetti per chiunque cammini a quattro zampe

Intervista a Massimo Rizzante, a cura di  Luigi Nacci - ottobre 2007  

Absolute Ville   - - - -

L’Italia, vivaio di gerarchetti per chiunque cammini a quattro zampe
Luigi Nacci (LN): Massimo Rizzante, poeta, saggista, traduttore, insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Letterature Comparate presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Ha studiato all’Università di Urbino, poi in Belgio, in Olanda, in Austria, in Francia. Una formazione umanistica ricca ed europea. Le chiedo, alla luce di una così ampia capacità di sguardo: ci sono a suo modo di vedere delle differenze tra la poesia italiana contemporanea e quella degli altri paesi europei? Se sì, quali?

Massimo Rizzante (MR): Ho studiato a Urbino nel corso degli anni Ottanta. Per un certo periodo frequentavo un palazzo, Palazzo Benedetti, dove vivevano alcune amiche. Sulla parete di una stanza c’era disegnato – non sono mai riuscito a sapere da chi – un drago. Ho trascorso molte notti in quella stanza. Si può dire che una parte di me, la mia parte poetica vi abbia residenza fissa. Lì è iniziata la mia personale lotta con il drago che, a differenza del santo della tradizione cristiana, non conduce a nessuna liberazione dal male. Non posso sconfiggere il drago. Primo, perché il male sta nel volersi liberare dal male. Secondo, perché così facendo dovrei accettare un’altra sconfitta, quella della creazione poetica. Poi, agli inizi degli anni Novanta, sono uscito dalla stanza del drago (una parte di me, soltanto una parte...). Sono andato a Roma, a Leuven, nelle Fiandre, un breve soggiorno a Nimega in Olanda, un altro a Klagenfurt (da adolescente Vienna – prima di Roma, prima di Milano – è stata la grande città che ho visitato e dove sono ritornato spesso fino ai vent’anni). Poi di nuovo nella piccola patria veneziana (sono e resterò sempre un “provinciale cosmopolita”). Infine a Parigi, dove sono rimasto alcuni anni. A Parigi ho fatto molti incontri importanti. Il più importante di tutti è stato quello con Milan Kundera. Tra il 1992 e il 1997 – anno in cui Kundera chiuse i battenti del “Seminario sul romanzo europeo” – ero l’unico italiano che una volta alla settimana andava e veniva dalla piccola aula del sesto piano dell’Ecole des Hautes Etudes di Boulevard Raspail. Lì, in modo spesso semiclandestino a causa del timor panico che Kundera aveva degli «agelasti», si riuniva un ristretto gruppo di lettori di romanzi. Sì, ciò che legava quelle persone (vorrei ricordare almeno, fra coloro che frequentavo di più, Lakis Proguidis, Marek Bienczyk, François Ricard, Guy Scarpetta, Benoît Dutertre, etc.), oltre la loro non appartenenza alla genia degli «agelasti» – categoria di persone a cui con il cordone ombelicale hanno tagliato per sempre il senso del comico – era la passione per la bellezza prosaica del mondo, una bellezza che solo il romanzo, secondo quanto ci convincevamo sempre più, può scoprire ed esplorare. Paradosso fondamentale: sulla soglia della stanza del drago c’è un maturo usciere maligno, pieno di lusinghe, tentazioni, tesori di esperienza, ricordi osceni, imprevedibili banalità. In altre parole il custode della stanza del drago è un uomo prosaico. Nel mio breve cammino di poeta ho incontrato quasi esclusivamente grandi romanzieri non italiani. Questo la dice lunga sul nocciolo prosaico della mia poesia, sul fatto che io non mi ritengo un puro facitore di versi (una parte di me, solo una parte...), sul mio contrastato rapporto con l’Italia (“vivaio di gerarchetti e pater nostri/paradiso terrestre per chiunque cammini a quattro zampe”, come recita un mio verso tratto da una poesia della seconda raccolta, Nessuno, Manni, Lecce, 2007). Sono un poeta che legge soprattutto romanzi e scrive saggi. Non so, perciò, se sono in grado di rispondere alla sua domanda davvero impegnativa sulle eventuali differenze tra la poesia italiana e quella di altri paesi. Posso dirle questo: oltre che una storia, c’è una geografia nei miei versi. Voglio dire che la mia poesia ambirebbe a coniugare il «senso storico» – riuscire a descrivere un orizzonte dove tutto il passato è presente – all’«investigazione dei luoghi», una sorta di scoperta poetica dei luoghi (che è spesso, naturalmente, scoperta di voci poetiche). Imitazioni, omaggi, traduzioni, commenti hanno proprio questa funzione: estinguere quel ridicolo monarca chiamato “io”, estinguere quella specie di monarchia chiamata “letteratura nazionale”. Resto eliotiano (sebbene di un Eliot illuminato e “tradotto” da Seferis, un poeta-chiave per me): «Il sentimento dell’arte è impersonale». E resto gombrowicziano: nel suo Diario, scritto tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso quasi interamente durante il suo esilio in Argentina, affermava che la cultura polacca doveva, per emanciparsi dalla sua «polacchità», abbandonare ogni culto nazionale. Jorge Luis Borges, non proprio un poeta e scrittore amato da Gombrowicz, nella stessa epoca pronunciava una conferenza – “Lo scrittore argentino e la tradizione” – nella quale si domandava: «Qual è la tradizione argentina? ... Credo che la nostra tradizione sia l’intera cultura occidentale». Queste parole furono pronunciate nel 1953. Non crede che più di cinquant’anni dopo, nel nostro mondo che si vuole così emancipato e multiculturale, hanno assunto ancor più significato? Sylvie Richterova, poetessa, scrittrice e saggista ceca, che mi onora della sua amicizia, alla fine della sua “Lettera a un poeta”, che fa da Prefazione al mio primo libro di poesie, Lettere d’amore e altre rovine (Biblioteca Cominiana, Padova, 1999), scrive: “Cultura: certo, ma hai letto anche Holan, Crnjanskij, Milosz. Hai frequentato scuole italiane, università francesi, muri parigini, paesi bassi, paesaggi belgi, finlandesi, sovietici, atlantici, serbi e bosniaci”. Ora, non tutti i viaggi dell’immaginazione poetica sono veri (ad esempio, non sono mai stato in Finlandia). Holan, Crnjanskij, Czeslaw Milosz sono alcuni nomi di poeti del XX secolo che ho cercato di «imitare» (senza «imitazione» non c’é «variazione», e quindi neppure «originalità»: che cosa si può ereditare se non si imita?). Le potrei fare altri nomi. Mi limito a quell’area culturale che mi ostino a chiamare Europa centrale. Oltre a quelli citati, mi vengono in mente Herbert, il cui ethos e «senso storico» sento vicini (senza il «signor Cogito» non so se il giovane signor Telemaco, il personaggio principale della mia seconda raccolta, sarebbe così com’è). Sempre in ambito polacco, Rozewicz, testimone del XX secolo (Rozewicz è, a mio avviso, l’altra possibilità del «fare poesia dopo Auschwitz» rispetto a Celan, la possibilità per così dire «non metaforica», realistica, ordinaria) di cui fra qualche mese uscirà la prima antologia in lingua italiana a cura di Silvano De Fanti nella collana “Biblioteca di poesia” di Metauro (Pesaro). E poi la vena surrealista boema, da Jiri Kolar a Ivan Wernisch; e quella ironica, stupita, profonda, da Jan Skácel (uno dei miei preferiti. Ecco alcuni versi nella traduzione di Annalisa Cosentino: “Abbiamo voglia soprattutto di dormire/e meditiamo come rivolgerci alla morte/Senza di lei non ci sarebbe l’infanzia/la regione della cava libertà dei fili d’erba” ) a Petr Král (che mi regala da diversi anni la sua amicizia e che ha scritto la Postfazione al secondo libro). Ecco: quello che cerco e non trovo nella poesia italiana è una certa immaginazione che flirta con il grottesco, con i rampicanti della follia (in verità, c’è la poesia di Angelo Maria Ripellino che della follia russa e ceca si è nutrito, e che, non a caso, è guardato dai «poeti italiani» come fosse un giardino eccentrico – un orto botanico o una serra tropicale – curato da pochissimi intimi, a cui va tutta la mia stima).

Juana Inés De La Cruz, poesie

  Juana Inés De La Cruz  



 Poichè la possiede nel suo pensiero, indica tutta l'inutilità della vista degli occhi

 Pur se mi accecò il guardarti,
che importa vedere o no,
se dell'anima i diletti
anche un cieco può vederli?

Quando l'amore tentò
di fare tue le mie spoglie,
Lysi, e la luce mi levò,
diede all'anima quegli occhi
che dal corpo mio sottrasse.
Diede a me, perchè potessi
con più attenzione adorarti,
occhi con cui contemplarti;
e così ebbi miglior vista,
pur se mi accecò il guardarti.
E prima questi occhi in me
erano intralci penosi:
non avendoti per sè
è chiaro che erano oziosi
non potendo veder te.
Accecarsi, a mio vedere,
fu una grande provvidenza
poichè non potevo averti:
a chi più luce non ha,
che importa vedere o no?
Ma è una gloria così rara
quella che ho nell'adorarti,
che, se pure mi uccidesse,
porrebbe fine la gioia
a quel che il dolor non seppe.
Ma che importa se la palma
mi sottraggono, violenti,
in questa amorosa calma,
non del mio corpo i tormenti,
ma dell'anima i diletti?
Così avrò nella violenta
condanna di non vederti,
a sollievo del tormento,
sempre il mio pensiero in te,
sempre te nel mio pensiero.
Qui nell'anima vedrò
il centro dei miei affetti
con gli occhi della mia fede:
chè piaceri immaginati,
anche un cieco può vederli.

Dono in cui l'affetto fa omaggio di semplicità
Lysi, alle tue belle mani
dono castagne spinose,
perchè dove abbondan rose
non posson mancare spine.
Se tendi alla loro asprezza
e con questo il gusto inganni,
perdona la rustichezza
di chi te le regalò;
perdona, ché questo riccio
solo può donar castagne.

© Juana Inés De La Cruz




Ricordo di Juana Inés De La Cruz. Intervista a Prudencia Molero.

Caterina Giardinelli - 23 aprile 1997

Dwpress   

Ricordo di Juana Inés De La Cruz. Intervista a Prudencia Molero.


Juana diventa talmente celebre per la sua sapienza, per la sua capacità di scrivere poesie, pezzi di teatro ecc., che viene ricevuta a corte e “allevata” tra principesse e marchese. E' è una persona speciale, una donna che conosce quattro lingue, nonché la matematica, la filosofia e la teologia. 

A Prudencia Molero, interprete negli anni `80 di Suor Juana, un testo “cucito addosso a lei” da Dacia Maraini, abbiamo chiesto di parlarci di questa bellissima figura di donna, che ben trecento anni or sono si oppose all'oscurantismo di Chiesa e governo con la luce della conoscenza. 

“Fra tutte le scrittrici latino - americane, Juana Inés De La Cruz, è la poetessa più importante, la più emblematica, ed in più, essendo vissuta nel 1600, si può dire che è una discepola della letteratura barocca spagnola che ha l'ultimo rigurgito, proprio con lei, in Messico. Spesso, e a torto, si è parlato di Suor Juana come di una mistica; io la definirei più una laica nel senso di sviluppo di pensiero. Si può definire una pre-illuminista, un'allegorica; infatti, da brava barocca usava molto l'allegoria. Nelle sue opere parla sempre di due amori: uno che la perseguita, e che lei non ama, e l'altro che l'abbandona. La Chiesa è l'amore che la perseguita, lo studio, invece, l'amore che lei perseguita e che l'abbandona. 

Un amore che fa di lei una specie di fenomeno da baraccone...
“Un fenomeno che suscitava l'interesse di sapienti, scienziati, filosofi e artisti. Pensa che a soli undici anni subisce una specie di esame pubblico da parte di questi personaggi che non riuscivano a capacitarsi della sua sapienza. Su quest'episodio si sofferma molto il testo scritto dalla Maraini. 

A proposito del testo, perché non riproporre oggi La casa del linguaggio? La rilettura di questa figura mi sembra attualissima. La paura degli uomini nei confronti della donna, giocata soprattutto a livello di perdita del potere non è ancora una cosa d'altri tempi...
“Sarebbe molto bello, ma oggi, chi ha più il coraggio di rischiare con il teatro? La casa del linguaggio era un testo splendido, e venne replicato a lungo con successo al Teatro La Maddalena. Dacia Maraini non conosceva Suor Juana e le sue poesie barocche, e posso dire che per lei è stato un bellissimo incontro, pane per i suoi denti...Affiancò a Juana il personaggio di Rosario, la serva che le aveva regalato la madre perché l'accudisse in convento, e portò il discorso anche sul rapporto serva/padrona, sottolineando l'atteggiamento ambiguo di Rosario verso la sua padrona. Un atteggiamento fatto di affetto da un lato, e di rancore dall'altro”. 

Rosario è un personaggio reale?
“Rosario è esistita veramente, ne ho trovato tracce nelle mie lunghe ricerche su Suor Juana. Ricerche che continuo a fare, e che mi lasciano senza fiato. Per esempio, lo sai che già allora scriveva sull'amore a pagamento? In una sua poesia, parlando degli uomini, in pratica diceva: `chi pecca di più? Lei per la paga o lui che paga per peccare?' Insomma, per l'epoca aveva le idee ben chiare! Era veramente una figura rivoluzionaria e moderna, un mito come da noi può essere Dante. Non si può non definire un mito una donna che nel 1600 rifiuta un buon matrimonio perché ama i libri più di tutto, e che per questo entra in convento anche se non è molto religiosa”? 

Hai visto Yo la peor de todas di Maria Luisa Bemberg?
“L'ho visto a Madrid; esteticamente l'ho trovato molto bello, un film di una grande plasticità! Ma quello di Bemberg è un altro punto di vista. Lei ha evidenziato molto il personaggio della madre, indubbiamente un personaggio importantissimo nella vita di Juana, però non si è soffermata altrettanto sulla vita di una donna che ha scritto poesie d'amore per altre donne e ragionava sui diritti delle donne. Il ritratto che traccia Bemberg è quello di un'asessuata, io invece penso che c'era in lei una grande tensione amorosa, quella tensione che caratterizza la vita degli artisti/e”. 

Per Juana è molto importante la figura di Lisi, la viceregina, una donna che la protegge da chi inizia a redarguirla perché si occupa troppo poco di religione...
“Lisi è una donna straordinaria che lega subito con Juana, la va a trovare in cella, quella cella dove si dice fossero custoditi diecimila libri, e discute con lei di tutto. Testimone di quest'amicizia è il lungo rapporto epistolare che ci fu tra le due donne dopo che Lisi tornò in Spagna. Ed è ancora grazie a lei se oggi possiamo leggere le sue poesie e i suoi scritti, raccolti e pubblicati, dopo che la Chiesa intima a Juana di non scrivere più, di bruciare le sue carte e di firmare con il sangue il suo `pentimento'. Quel divieto la porterà alla morte, una morte quasi cercata quando decide di curare Rosario, ammalatasi di peste, e poi si dedica con tutta se stessa alla cura degli appestati. Infatti Juana muore di peste nel 1695”. 

Donne e Messico, ultimamente se ne parla quotidianamente. Suor Juana, anche se è di sangue spagnolo, Frida Kahlo, Tina Modotti, che non è nata, ma ha vissuto a lungo in Messico...Secondo te perché torna frequentemente questo binomio?
“Perché il Messico è un paese che ha una grande tradizione rivoluzionaria, ma è anche un paese di `macho'. Allora riproporre personaggi femminili eccezionali, una più grande dell'altra, forse è per risanare il peso della bilancia. Non ti pare!”.
(23 aprile 1997)

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mercoledì 1 luglio 2009

la pista di ghiaccio: un trio da camera

Raul Schenardi -  Pulp libri, 2004 



 Un trio da camera
Se Amuleto e Notturno cileno erano assoli e I detective selvaggi un coro polifonico, La pista di ghiaccio - l'ultimo romanzo di Roberto Bolaño uscito in Italia -, con le sue tre voci narranti, è un trio da camera. Gaspar Heredia, poeta messicano, è guardiano notturno in un camping sulla Costa Brava ("Io non sono uno che chiede la carità"). Il suo occasionale datore di lavoro, conosciuto anni prima in Messico, Remo Morán, cileno, è un commerciante di bigiotteria con la vocazione dello scrittore ("Non sono, come si è detto ultimamente, l'uomo di paglia di un narcotrafficante colombiano"). Enric Rosquelles, infine, politico socialista responsabile dei servizi sociali, è un idealista felicemente approdato al sottogoverno e a un candido cinismo ("Io non mollo mai"). Attraverso i racconti dei tre veniamo a sapere dell'assassinio di un'ex cantante d'opera - la parola "omicidio" compare fin dalla prima pagina - che viveva come una barbona nel camping. La vicenda è raggelante come il luogo del delitto: una pista di ghiaccio di cui pochissimi conoscono l'esistenza, all'interno di un palazzo storico disabitato e isolato. I racconti si intrecciano illuminando i rapporti fra i tre personaggi principali e facendoci intravedere squarci della vicenda, spingendo la narrazione verso il climax, ma senza contraddirsi o sovrapporsi, perché in fondo ciascuno racconta (o tace) di sé.
La pista di ghiaccio è un poliziesco, o se si vuole un noir, alquanto anomalo: nessuno conduce serie indagini, a nessuno interessa stabilire "la verità" - salvo il lettore, forse -, poiché tutti vogliono proteggere qualcuno. Enric non si preoccupa di un'improbabile accusa di omicidio nei suoi confronti: il suo cruccio è lo scandalo per la scoperta della pista di pattinaggio che ha fatto costruire illegalmente per la bella Nuria, scandalo che segna anche la fine delle sue illusioni d'amore. Gaspar, innamorato di Caridad, una ragazza marginale che gira con un coltello, amica della vittima, vuole solo proteggerla dopo averla trovata sul luogo del delitto, indifferente al fatto che possa essere lei l'assassina. Remo, infine, amante segreto della bella Nuria, pur avendo ascoltato la spontanea confessione dell'assassino, si guarderà bene dal denunciarlo alla polizia.
Bolaño, acuto lettore di Borges, concordava probabilmente con il giudizio del Maestro sul genere poliziesco: è il più artificioso che ci sia, dato che i casi perlopiù vengono risolti solo grazie a una soffiata, e non alle indagini. Eppure, l'atmosfera rarefatta di suspense che sa creare anche in questo romanzo, con pochi cenni magistrali, dosando sapientemente preziosi indizi e piste fuorvianti per il lettore più attento, non ha niente da invidiare a quella dei migliori giallisti; nel frattempo, intesse le sue storie - autobiografiche, come sempre - di latinoamericani smarriti nel mondo ("Creature sciatte e ferite, risentite, disadattate, silenziose, malate, che era meglio non incontrare in una via deserta"), di gesti di solidarietà ruvidi e imbarazzati, di amori impossibili o precari.
La pista di ghiaccio, il primo romanzo pubblicato da Bolaño in Spagna (nel 1993), non è certo un "affettuoso omaggio" alla terra dove ha vissuto il suo lungo esilio. Lui, del resto, non si è mai sentito un esule, convinto che uno scrittore è di casa ovunque si parli la sua lingua. E dato che sulla sua non aveva peli, il quadro della Spagna socialista-affarista (tanto simile all'Italia craxiana) che emerge dal romanzo non deve aver gratificato i suoi ospiti. Sono posti che tutti conosciamo per esserci stati in vacanza d'estate, così accoglienti verso i turisti, così vivaci e tutto sommato tranquilli. Ci voleva Bolaño, uno straniero, per illuminare con un fascio di luce cruda il rovescio della medaglia, mettendo al centro della sua miniatura una pista di ghiaccio, luogo che assurge a metafora del gelo che pervade le relazioni umane, tanto nei bassifondi come ai vertici della società.

 Raul Schenardi