martedì 15 settembre 2009

Il globo, la mappa, le metafore (ii / vii)

Franco Farinelli



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Il globo, la mappa, le metafore

Si potrebbe continuare, ma è proprio qui che si pone la grande questione, perché qui Leibniz - uno dei pochi pensatori ad aver pensato davvero in termini globali e di cui è urgente riscoprire la logica - è costretto a ridurre, a far coincidere la metafora con la proiezione; o meglio, con quella mossa che noi chiamiamo, con un termine moderno, proiezione. Per Leibniz, la pittura è ingannevole e lo è in maniera duplice.

A questo proposito fa due esempi. Innanzitutto la pittura inganna perché è impossibile percepire alcunché. Noi infatti non percepiamo, bensì giudichiamo: il mondo ci appare come una tabula incisa che ci portiamo dentro, un palinsesto interiore; noi non vediamo semplicemente, ma, ogni volta che vediamo, giudichiamo. Inoltre le immagini ingannano perché o ci fanno scambiare la causa per l'effetto - come un cane che scodinzola di fronte allo specchio e crede di vedere un altro cane -, oppure l'effetto per la causa - come se si attribuissero a un corpo le proprietà, l'influenza, l'effetto che invece è sviluppato da una figura piana. Quando parla di 'corpo', Leibniz, fa riferimento ad un globo e quando usa 'figura piana', si riferisce ad un cerchio disegnato sulla carta e riempito di colore a significare il globo. Leibniz precisa che si tratta di una metafora o metonimia e, poco più oltre, afferma ancora che si tratta di privilegiare la proiezione come forma di conoscenza, perché una cosa ne esprime un'altra soltanto quando ciò che si può dire di una cosa corrisponde in maniera sistematica e regolare a ciò che si può dire dell'altra. In altri termini, la fenomenologia della monade ha nella proiezione il discorso elettivo, e, visto che l'espressione letteraria è qualcosa che evidentemente non corrisponde in maniera sistematica, regolare e costante a questo tipo di analogia, è chiaro che, da questo punto di vista, è possibile ritenerla non dico inutile, ma assolutamente secondaria.

Dov'è il punto? Per Leibniz, come spiegava in una lettera del 1712 a des Bosses, sono sostanzialmente due maniere in cui le cose si danno: una per Dio e una per gli uomini.

Gli uomini sono in qualche maniera costretti a ciò che Leibniz chiama "scenografia", vale a dire a vedere le cose in assonometria, come più tecnicamente diremmo oggi. Se per esempio guardiamo le torri di Bologna mentre camminiamo, ci accorgiamo assonometricamente che sono molto più alte di noi e che girando intorno all'immagine il punto di vista cambia. Questa, dice Leibniz, è la forma di conoscenza che riservata agli umani. Ma ne esiste un'altra, che Leibniz chiama "icnografia", vale a dire la conoscenza geometrica, in cui il punto di vista, tecnicamente una proiezione cilindrica, è all'infinito, è statico, e in cui l'universo non è altro che una serie di serie di rette parallele: questa è la conoscenza divina.

Analizziamo il problema prendendo come esempio un corpo particolare, soltanto un po' meno complicato del globo, ovvero una ricostruzione della Torre di Babele. Proviamo a ridurre questo corpo, che vediamo come una scenografia, ad una icnografia. Non ci riusciamo. Sapete perché? Perché la Torre di Babele, anche se sembra strano, diventa, se ridotta a icnografia, il labirinto. L'origine del labirinto è il collasso al suolo di una struttura verticale. Ciò che nella struttura della Torre di Babele sono i diversi livelli, nell'icnografia diventano i lati: si perde una dimensione, e quello che vediamo - e qui risiede il problema - non è il labirinto, è l'immagine del labirinto. Per definizione, il labirinto non ha un centro, sicché nessuno lo può rappresentare, lo si può soltanto pensare. Se lo si rappresenta, necessariamente si fornisce il labirinto di un centro, cioè lo si muta nel suo esatto contrario.







Ricostruzione della Ziqqurat di Nabonido
 

Il labirinto è forse la sola figura, o sicuramente una delle prime figure, che, nella misura in cui la conoscenza occidentale riduce la conoscenza stessa a rappresentazione, sfugge alla regola. Non si può rappresentare il labirinto.

E questo è il problema di Leibniz, che non c'è corresponsione, non c'è precisa corrispondenza tra il corpo e l'icnografia, almeno in questo caso; vi è qualcosa che sfugge, qualcosa che non è possibile tradurre. In altre parole: rappresentare qualcosa su una tavola significa fornirla di proprietà spaziali. Nella quasi totalità dei casi si adopera "spazio" come metafora, mentre lo spazio è una cosa molto precisa, è un intervallo metrico, lineare, standard fra due punti. Non esiste un altro spazio, propriamente parlando. Ora, il labirinto non è lo spazio. Perché il labirinto diventi davvero spazio è necessario che vi sia un centro, esattamente prodotto, individuato.

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Il globo, la mappa, le metafore (iii / vii)

Franco Farinelli


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Il globo, la mappa, le metafore


                          Pieter Bruegel, La Torre di Babele, 1563. Kunsthistorisches Museum, Vienna

Da piccoli non ci hanno insegnato nulla. O meglio, ci hanno insegnato a fare le cose senza avere più nessuna memoria del loro significato. Nessuno ci ha mai spiegato che ogno volta che squadriamo un foglio produciamo lo spazio, e torniamo perciò come Ulisse ad accecare Polifemo. Prima tracciamo due diagonali, da un capo all'altro opposto in maniera che esse risultino incrociate. Il punto di incontro, il centro, è l'occhio del ciclope, la metà superiore della prima diagonale è il tronco d'ulivo, quella inferiore della seconda il corpo steso a terra del gigante. La metà superiore di quest'ultima e quella inferiore della prima, ambedue nella stessa metà del foglio, sono ottenute per simmetria bilaterale, la stessa che Ulisse evoca aprendo le braccia e comandando ai suoi di tagliare il tronco d'ulivo secondo la loro lunghezza. quindi prendiamo il compasso, arnese che per Giordano Bruno era uno strordinario simbolo ermetico. Il segreto, di cui nemmeno più Bruno era a conoscenza, consiste nel fatto che il compasso è proprio le braccia di Ulisse, esso è il tronco d'ulivo nella sua duplice funzione di punta acuminata (lo stilo) e di strumento grafico (la punta indurita alla fiamma e perciò carbonizzata). Il primo viene codnficcato nel centro, cioè nell'occhio, mentre il secondo serve nel contempo a tracciare un cerchio, il cui perimetro incrocia in quattro punti le quattro simmetriche semidiagonali. Basterà infine unire tra loro talli punti con linee rette perché il foglio risulti squadrato, e sorga lo spazio.

Squadrando il foglio, quindi, si trasforma una superficie irregolare e che non ubbidisce alla geometria di Euclide in qualcosa di assolutamente continuo, omogeneo e isotropico, in cui le parti sono voltate nella stessa direzione. La modernità è la riduzione del mondo o, se volete, del globo, a spazio. Ci sarebbero storie straordinarie da raccontare, ne valga soltanto una.

Se si apre Il Milione di Marco Polo, ci si accorge che lo spazio non c'è. E non ci sono nemmeno le distanze, non c'è nemmeno una metrica. Ne Il Milione le cose durano. Marco Polo racconta che dopo la foresta c'è il deserto, il deserto dura cinque giorni; dopo il deserto c'è un lago, il lago dura un giorno e mezzo. Marco Polo, inoltre, non ha nessuna fretta di tornare indietro, resta lontano per diciassette anni e poi torna indietro, ma solo per combinazione, perché deve portare delle lettere del Gran Khan al Papa, altrimenti non tornerebbe. Non c'è spazio nel Medioevo, sebbene tutti, anche Paul Zumthor, ad esempio, siano convinti del contrario. Certo c'è una metrica nel Medioevo - non in Marco Polo - ma non la metrica standard lineare cui siamo assuefatti. E poiché il termine spazio deriva dal greco stadion, l'unità di misura delle distanze, bisogna sapere che ogni volta che adoperiamo il termine in riferimento alla realtà medievale stiamo usando una metafora.

La modernità invece è un'altra cosa, questa:







Paolo Del Pozzo Toscanelli, carta dell'Oceano
 

Questa ricostruzione del Wagner della fine dell'Ottocento è quanto ci resta della carta dell'Oceano di Paolo Del Pozzo Toscanelli, che sicuramente Colombo aveva con sé.

In Colombo c'è lo spazio, e per rendersene conto basta leggere ciò che resta del suo diario di bordo. Come sapete, non abbiamo più questo diario, l'ultima persona che lo ebbe tra le mani è stato Bartolomeo De Las Casas, padre gesuita, che ne ha fatto sostanzialmente quello che ne ha voluto, e noi conosciamo solamente la sua trascrizione. Nonostante ciò, è evidente che per Colombo il mondo è uno spazio. A dispetto delle amputazioni fatte nel testo, sappiamo che Colombo scrive 'oggi abbiamo percorso ventiquattro miglia'. Si esprime così, senza aggiungere altro, cioè misura lo spazio, non racconta come Marco Polo la durata del mondo.

Todorov e altri hanno spiegato che Colombo non capisce assolutamente nulla di dov'è, di quello che sta accadendo e di ciò che ha intorno, nemmeno gli interessa. Il suo problema è tornare indietro, e, a differenza di Marco Polo, Colombo vuole fare in fretta, è ossessionato dalla velocità.

Nella ricostruzione della carta di Toscanelli vi sono meridiani e paralleli e poiché parallelo significa, alla lettera, "equivalente", para-allélon [l'un l'altro], in essa tutte le cose vengono ordinate in modo che siano esattamente l'una equivalente all'altra. Che sia questa la modernità mi pare che, almeno in questa sede, non ci sia bisogno di insistere. Anche se magari va precisato come alcuni abbiano voluto intendere questa come post-modernità - un nome per tutti, Baudrillard, il quale ha tentato di spiegare la post-modernità come il fatto che il simulacro preceda il territorio. A mio parere, questa precessione del simulacro, della carta, dell'immagine rispetto alla cosa, è qualcosa che inaugura la modernità. Inoltre, personalmente credo che tale precessione si inauguri con Anassimandro, e contraddistingua dunque la cultura occidentale fin dall'origine, ma non so se avremo il tempo di parlarne adeguatamente.

Colombo, cui non interessa niente di quello che ha intorno, gioisce come un bambino quando gli pare di scorgere che la forma di alcune isole che ha di fronte agli occhi corrisponde vagamente alla forma, a quei segni che Paolo Dal Pozzo Toscanelli, il più grande cosmografo della modernità, ha tracciato sulla carta. La fiducia nel modello, nel simulacro, e nella legittimità della sua precessione rispetto alla realtà è assolutamente evidente, disarmante addirittura, se vista con gli occhi di oggi. Ebbene, questa è la fonte, l'origine, la matrice della certezza della rappresentazione. Questa è l'origine di quella certezza della rappresentazione che per Heidegger corrispondeva al sapere, alla scienza; e faceva della modernità l'epoca dell'immagine del mondo.

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Il globo, la mappa, le metafore (iv / vii)

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Il globo, la mappa, le metafore




Il globo di legno di padre Martin Behaim
 

Quasi sicuramente Colombo ha fatto in tempo, prima di partire, a vedere il globo di legno di padre Martin Behaim, che adesso è conservato nel museo di stato di Norimberga. Padre Behaim chiamava questo globo, "der Apfel", cioè "la mela", perché era perfettamente consapevole che questo globo fosse il frutto dell'albero della scienza del bene e del male, il modello proibito, proprio perché era un aveva forma sferica. Corrispondeva cioè, come più tardi per Leibniz, al modello della conoscenza divina.

Ma c'è stato un altro tipo modernità, evidentemente, che possiamo chiamare globale, ben diversa dall'ideale spaziale, cioè cartografico, che con Colmbo s'inaugura.

Il più bel racconto di viaggio che sia mai stato scritto, anche se assolutamente non lo sembra, è L'Elogio della Follia di Erasmo. Questo testo è stato pensato, e in parte scritto, all'inizio del Cinquecento, quando Erasmo, da Bologna, tornava al di là delle Alpi, e poi è stato redatto, guarda caso, a casa di Thomas Moore, l'autore di Utopia.

Perché è un formidabile racconto di viaggio L'Elogio della follia? Perché la follia è esattamente il globo. La prima cosa che dice è,
«io non ho nomi e guai a voi se mi confondete con quei volgari oratori che, quando cominciano, dicono chi sono e cominciano a disarticolarsi, a suddividersi in parti; io non ho nomi, io rifuggo da qualsiasi disarticolazione, non conosco nessun tipo di logica che non sia data dal contesto».
La follia, se fate caso, è esattamente questo, il rifiuto di ciò che si potrebbe chiamare lo spazio, vale a dire il rifiuto dell'esistenza di una razionalità che non dipenda dal contesto, dal hic et nunc, dalla situazione, di una razionalità che sia sovralocale, sovradeterminata rispetto al momento e alla situazione. Questa follia ha anche una serie di seguaci, per così dire, una serie di illustrazioni letterarie assolutamente fantastiche.

Per esempio, una dell'espressioni letterarie davvero straordinaria della follia è Moby Dick. Che Moby Dick sia il globo, sia la sfera è testimoniato da una serie innumerevole di precisazioni da parte di Melville. Tanto per cominciare, Moby Dick ha una forma piramidale, è bianco, la sua superficie non è continua, omogenea e isotropica, ma variegata. Non ho avuto tempo di controllare, ma giocherei qualcosa sul fatto che, tornando all'Elogio, quella "morìa", cioè quella follia, detta in greco, di cui poi Erasmo si servì come gioco verbale nei confronti di Thomas Moore, abbia qualcosa a che fare con ciò che i francesi chiamano "moiré" (a me piacerebbe molto che fosse così), quel tessuto variegato e screziato le cui parti non sono isotropiche, non sono tutte voltate nella stessa direzione come accade sulla tavola, sulla carta. Lo spazio è assolutamente euclideo, continuo, omogeneo e isotropico. Moby Dick, come la follia, come il globo, non lo è. La forma di Moby Dick cambia a volte, nel corso dell'opera di Melville, e non solo, ma si proietta anche su Achab. Achab rappresenta la carta. Melville dice a un certo punto che l'intento di Achab, nella sua caccia alla balena, era folle, ma i suoi mezzi erano assolutamente razionali.

In quest'opera vi è tra l'altro un capitolo chiamato appunto "La carta", non "The map", ma "The chart", che poi è servito a Borges per quella famosa immagine di cui tanto vanno fieri i cartografi e i geografi quando hanno bisogno di dimostrare la propria umanità, ossia l'immagine di quell'uomo che passa la vita a disegnare una carta, e alla fine si accorge che non ha disegnato la carta del mondo, come credeva, ma il proprio viso. Questa immagine è tolta da Melville, dal passo in cui Achab, chiuso nel suo studiolo mentre la lampada di peltro gli oscilla sul capo, sta calcolando sulle carte, e azzecca (è molto bravo in questo, i suoi criteri sono molto razionali, non così il suo progetto), il punto dove sta per riaffiorare Moby Dick. Ecco, Achab sta facendo questo gran lavoro cartografico, cioè sta razionalizzando, cercando di imprigionare la vita all'interno di una carta, la lampada di peltro oscilla sul suo capo e proietta sprazzi di luce misti ad ombre su questa fronte corrugata: disegna come se disegnasse una carta - dice meglio Melville:

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Golem   1 giugno 2002
© Franco Farinelli


Il globo, la mappa, le metafore (v / vii)

Franco Farinelli


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Il globo, la mappa, le metafore

«è come se una gigantesca matita gli si conficcasse sul cranio e descrivesse a sua volta una carta sul cranio di Achab».
Ed è esattamente l'accecamento di Polifemo.

Borges prende spunto da qui, o forse anche da un episodio che Stravinskij narra nella sua autobiografia, quando racconta di essere stato fermato alla frontiera tra Italia e Svizzera. Perquisendo i bagagli, i gendarmi della frontiera trovano dei disegni fatti da Picasso, e scambiano uno di questi per una carta militare. Stravinskij rischiò la prigione.

Achab, come si diceva, è la carta, e lo si dice espressamente in molti punti. Per esempio quando deve rispondere all'accusa di blasfemia che Starbuck gli ha appena rivolto, risponde:
«Io devo fare a pezzi ciò che mi ha fatto a pezzi».
Achab è la carta, e un pezzo del mondo è stato fatto a pezzi; Melville lo chiama il Gran Khan del tavolato, o, se volete, il re della calamita piana. Detto per inciso, sarebbe molto interessante uno studio di quanto la cartografia incida sulla letteratura americana, sarebbe un luogo privilegiato di osservazione e di indagine. E del resto Melville aveva studiato per due anni (dal '37 al '39) la cartografia.

Torniamo a Moby Dick. Achab, giustificando ciò che a Starbuck sembra una blasfemia, dice non solo di essere stato fatto a pezzi, ma parla anche di un velario bianco, una sorta di sudario:
«Io sento che dietro a questo velario bianco preme qualcosa; a volte ho l'impressione che dietro non ci sia nulla, ma, altre volte, io sento che dietro vi è una ragione, ma questo sudario bianco è ragionevole. Io non posso colpire se non attraverso, sfondando questo sudario per cercar la ragione che è al di là. Per questo dò la caccia».
Potrei continuare a lungo ma mi interessa, a questo punto, passare a un'altra straordinaria rappresentazione dell'impossibilità di racchiudere la modernità all'interno dello spazio, dell'estensione euclidea. Pure essa trova una privilegiata modalità di espressione nella letteratura; voglio prendere in esame un romanzo che, a mio avviso, deve molto a Melville, molto più di quanto i critici hanno finora cercato di rilevare: Cuore di tenebra di Conrad.

Nei due testi, infatti, alcune espressioni sono identiche. Inoltre anche Kurtz, il protagonista, non l'io narrante, di Cuore di tenebra, è qualcuno la cui lucidità dell'azione strumentale fa a pugni con la follia dell'intento, esattamente come Achab. Poi anche Kurtz, come Achab, finisce per assomigliare all'oggetto, finisce per essere influenzato dalla cosa cui sta dando la caccia. C'è un passaggio in cui Conrad scrive:
«Quella terra selvaggia lo aveva sfiorato e il cranio di Kurtz era diventato una palla liscia di biliardo».
esattamente come d'avorio era la gamba di Achab. E si potrebbe continuare in questo gioco, la situazione è esattamente la stessa, se non che Conrad - che viene cronologicamente dopo Melville, siamo infatti proprio all'inizio del Novecento, la pubblicazione di Cuore di tenebra risale al 1902 - è molto più preciso, e molto più sottile.

In Cuore di tenebra la situazione è chiarissima: c'è uno spazio bianco, come bianca appare Moby Dick, da riempire. E tutto il senso del romanzo di Conrad è che allo sconosciuto, la macchia bianca sulla carta, non si oppone il conosciuto, ma si oppone il nero. Questa macchia bianca, infatti, si riempie di segni, laghi, città, segni cartografici fino a diventare una macchia nera perché, (ecco perché Leibniz non ha ogni ragione), conoscere non significa "poter dire". Allo sconosciuto si oppone non il conosciuto, ma l'indicibile. L'ultima frase che appunto Charlie Marlow, l'io narrante, alla fine riporta è: «Che orrore, che orrore».

Sarebbe veramente suggestivo continuare in questa direzione, ma vale la pena soffermarsi a rilevare che un dopo un anno, quando finalmente appare, si manifesta, Kurz è sdraiato, in posizione orizzontale. A questo punto è chiaro cos'è Kurtz - non solo è la mappa, ma il cuore della mappa; è la scala geografica, la scala metrica lineare, cioè è l'agente che produce lo spazio.

Soffermiamoci su questo confronto. Mentre la follia dice subito:«Io non ho bisogno di descrivermi, mi vedete immediatamente, sono qua», Kurtz, invece, in tutto Cuore di tenebra, si sente, è presente fin dall'inizio ma non appare mai e, quando appare, è steso su una barella portata da quattro indigeni; ha appena la forza di sollevare un braccio macilento. A Kurtz si oppone uno straordinario personaggio che è esattamente l'equivalente della follia. Anch'esso non ha nome, si sa soltanto che è russo - come Conrad, nato nella Polonia russa - e che è il primo ad accogliere il battello su cui arriva Charlie Marlow, l'io narrante, ed è vestito esattamente come la follia di Erasmo. Sembra, cioè, un pagliaccio, un Arlecchino, perché il suo vestito è tutto rattoppato, composto di ritagli multicolori. Fin da lontano dunque si scorge come se fosse appena uscito, dice Conrad, da una banda di pagliacci e quando deve spiegare perché è lì, questo ineffabile personaggio - Conrad lo chiama "favoloso" - dice:

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Golem   1 giugno 2002
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Il globo, la mappa, le metafore (vi / vii)

Franco Farinelli


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Il globo, la mappa, le metafore
«Non lo so nemmeno io; è che mi sono inoltrato all'interno del continente un po' alla volta, un po' alla volta senza un piano e, a questo punto, sono qua; so soltanto che non posso tornare indietro perché è troppo distante».
È evidente qui la follia, dove l'azione non obbedisce ad un piano, a un progetto, ed è evidente la polarità rispetto a Kurtz che, come si diceva, rappresenta la scala, quella scala lineare metrica che fa la sua prima apparizione nella grotta di Polifemo. Sono i compagni di Ulisse che, a distanza regolare l'uno dall'altro, sorreggono il palo e lo infiggono nell'occhio del ciclope. Questa è la prima tremante scala metrica lineare di cui si abbia notizia - cioè è lo spazio, esattamente lo spazio, come prima ho tentato rapidamente di illustrare.
Kurtz, che è anche l'emissario della luce, del progresso - così lo definisce Conrad - crea egli stesso la sua carta, mette cioè la sua scala in fondo alla carta. Infatti, verso la fine dei suoi giorni Kurtz scrive una relazione di diciassette pagine sulla redenzione dei selvaggi, e, con calligrafia tremante, appone infine la sua firma, la scala, il suo suggello. Che recita così: "sterminateli tutti quei bruti", cioè esattamente l'opposto, il contrario di ciò che nella relazione si era dichiarato.
Naturalmente la fine di Kurtz è tragica, non vi è altra possibilità, Kurtz deve morire, ma non muore solo lui. C'è un'altra possibilità che, ripeto, è contenuta qui dentro. Da un lato, infatti, abbiamo il globo, la follia, l'assenza di spazio, e dall'altro lo spazio. Ma lo spazio significa quello che abbiamo visto, essendo un intervallo metrico lineare standard, comporta la dissociazione tra gli scopi e i fini da un lato, e i mezzi dall'altro, e comporta la riduzione del mondo a una tavola.
Anassimandro forse è esistito o forse no (sull'enciclopedia vengono riportate le date di nascita verosimile e di morte verosimile di questo allievo di Talete, 610 e 547 a.C.), ma Michel Serres dice, nel suo volume sull'origine della geometria, che non è esistito, perché il nome che porta è troppo bello, significa infatti 'il re del recinto'. Anassimandro, comunque, passa per essere colui che, nella cultura occidentale, è stato il primo a osar, così si dice, rappresentare la terra abitata su una tavoletta, ed è stato anche lo stesso che per primo ha scritto in prosa. E, secondo me, da Anassimandro deriva con una certa evidenza la precessione dei simulacri di cui prima si diceva.
Ecco allora l'altra possibilità.
Prendiamo come modello il frontespizio del Leviatano di Hobbes, del 1651 circa. Per inciso, in quegli anni Cartesio dice che non era necessario aprire un libro per capire cosa c'era dentro, bastava guardare la copertina; ed era vero, perché ancora a metà del Seicento, il frontespizio era una sorta di sintesi immediata, più o meno folgorante, ma chiara, del contenuto stesso. Qui gioca un altro modello (che i semiologi, ma anche i non semiologi avranno immediatamente riconosciuto), il modello del segno linguistico secondo Saussure.






Frontespizio del Leviatano
 

Vi prego di notare che è esattamente questa la situazione che rappresenta la terza possibilità che il quadro di Vermeer, dal quale siamo partiti, offre. Credo si possa sostenere che questa linea centrale, questa barra centrale, la barra che accecava il pittore e distingueva, nella carta appesa al muro, il segno alfabetico sottostante, ossia la legenda, il metalinguaggio per la carta, dal linguaggio grafico, questa barra sia la rappresentazione cartografica. Ma vediamo come funziona.
'Leviatano' è uno degli appellativi che Melville attribuisce alla balena bianca. E però bisogna dire che in questo caso non è esattamente la stessa cosa. Questo non è il globo, ma è ciò che anche nella rappresentazione di Leibniz da cui siamo partiti sta esattamente tra il globo e la mappa.
Ritorniamo all'osservazione dalla quale tutto il discorso è partito; tutto quello che avete ascoltato fin qui è solo il tentativo di spiegare una cosa che, per quanto io abbia consultato la letteratura relativa, non sono mai riuscito a veder notata: nel dipinto di Vermeer la mano destra del pittore è esattamente un globo, ha una forma globulare che tanto più contrasta con la mano di Clio così finemente rappresentata. E impugna il pennello quasi fosse l'asse di rotazione di questa massa globulare. Non è pensabile che un pittore come Vermeer faccia questo senza un motivo. Allora, qui Vermeer sta dicendo, se vogliamo stare al linguaggio di Leibniz che abbiamo riferito prima, che il pittore è la divinità. Come diceva Vittorio Roda, il compito del geografo è di prendersi i propri rischi e di avventurarsi in campi che sono altrui. È costitutivo di questa forma di sapere e anche uno dei suoi pregi.

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Golem   2 giugno 2002
© Franco Farinelli

Il globo, la mappa, le metafore (vii / vii)

Franco Farinelli


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Il globo, la mappa, le metafore







Jan Vermeer, L'atelier, part.


Bene, c'è il globo, c'è la mappa all'altro estremo, in mezzo c'è la decapitazione di Clio. Attraverso una linea retta.

Torniamo a Hobbes. Il Leviatano è lo stato nazionale territoriale centralizzato, come avrebbe detto Carl Schmitt, che secondo me aveva letto Cuore di tenebra, in particolare nel punto in cui Conrad riferisce che la madre di Kurtz era per metà inglese, il padre era per metà francese e tutta l'Europa aveva contribuito alla sua creazione In questo modo Conrad sta definendo esattamente quello che per Carl Schmitt è la razionalità giudaico-cristiana nell'ambito della cultura europea. Ora, il Leviatano è lo stato nazionale territoriale centralizzato e dunque l'inscrizione sulla faccia della terra di uno spazio metrico lineare standard che diventa territorio politico; il Leviatano fonda, costituisce storicamente la necessità di questa operazione. Ho accuratamente evitato fin qui di parlarne perché non mi sembrava il momento opportuno, ma prendiamo in considerazione il fatto che il Leviatano, lo spazio, si pone in netta antitesi e, dal punto di vista storico, distrugge ogni valore locale. Esattamente come una linguistica generale.

Non solo, ma Saussure fa l'operazione ancora più meditata, secondo me, perché se noi facciamo corrispondere al linguaggio il globo, alla lingua lo spazio, e alla parola il luogo, abbiamo esattamente lo stesso sistema.

Ora, si badi, Conrad risolve il problema non in Cuore di tenebra ma nel racconto successivo, Tifone, e lo risolve in termini semiologici, mettendo a confronto McWhirr, il comandante del Nan-Shan, l'imbarcazione che riesce miracolosamente a salvarsi dal tifone, con il giovane sottoufficiale Jukes, e vi prego di notare che Jukes è 'j' e 'k', cioè Joseph Konrad-Korzeniowsky. Proprio la stolidità un po' flemmatica di McWhirr riesce a condurre a salvamento l'imbarcazione, non Konrad, non il giovane sottufficiale. Il contrasto tra i due è esemplificato in maniera assolutamente chiara, come si vede ad esempio all'inizio del racconto, quando viene issata a poppa la bandiera che la nave deve battere. Questa bandiera è quella del Siam, campo rosso e elefante bianco. A questa vista, il giovane sottufficiale Jukes reagisce perché vorrebbe vedere l'Union Jack, la bandiera inglese, e affronta con veemenza il comandante, protestando che è uno scandalo. Perché? risponde McWhirr, Che scandalo c'è? Il sottufficiale evidentemente non riesce a spiegarsi tanta foga e allora tocca a McWhirr sottolineare che, anche per dimensioni, è una bandiera come le altre e soltanto bisogna avere la precauzione di non montarla al rovescio, perché in questo caso potrebbe essere scambiata per un segnale di soccorso.

Evidentemente abbiamo, nei confronti del segno rappresentato dalla bandiera, da un lato una reazione referenziale e dunque denotativa, quella del comandante McWhirr, dall'altro una reazione di tipo emotivo, e quindi connotativo, di fronte allo stesso segno. Ma la cosa interessante è proprio McWhirr che non reagisce, per cui un segno è davvero un segno che conduce in porto e a salvamento tutto l'equipaggio.

Qualche mese dopo, con il Corso di linguistica di Saussure, tutto ciò viene determinato. La determinazione di significante e significato in questo caso è evidente; è evidente come il segno linguistico, nelle sue caratteristiche primordiali, sia arbitrario da un lato e lineare dall'altro, come cioè venga scomposto e come tutto questo venga esattamente rappresentato, come terza possibilità, dalla decollazione di Clio, della musa dell'oralità e del logos.





Disegno di Horace-Bénédict de Saussure, tratto da Voyage dans les Alpes




Mi interessa attirare la vostra attenzione su un ultimo disegno, perché non credo che Ferdinand de Saussure abbia visto la copertina del Leviatano, ma quasi sicuramente ha visto questo disegno, tratto da un volume di un suo antenato, Horace-Bénédict de Saussure, che fu il primo a salire sulle Alpi e ne fece una relazione, pubblicata nel 1779, con il titolo Voyages dans les Alpes. Nel Corso vi è un passo in cui questo disegno viene descritto esattamente nello stesso modo in cui Saussure parla della dialettica interna al linguaggio stesso, cioè quando deve spiegare che i fatti linguistici (attenzione: ecco perché corrispondono allo spazio) sono ordinabili, finiti, passibili di definizione e corrispondono a uno stato. A questo proposito porta un esempio: è come se uno che volesse disegnare il panorama delle Alpi, si spostasse di volta in volta su tutte le vette del Giura, come dire diacronicamente, e cercasse poi di rappresentare l'insieme. Questo signore si impegnerebbe in un'operazione inutile. Potrebbe infatti rappresentare solo i progressivi spostamenti del proprio punto di vista, mentre per avere un panorama delle Alpi bisogna fissarsi in un punto e di lì procedere. Il parallelismo serve alla dimostrazione della necessità di una concezione sincronica del fatto linguistico, e non diacronica, serve a vedere i fatti linguistici nei loro rapporti istantanei. Nel disegno di Horace-Bénédict noi possiamo scorgere i segni primordiali del segno linguistico, come l'arbitrarietà. Tutte le cime, infatti, a cominciare da quella che ha per segno "a" (il Monte Bianco), sono contrassegnate da una lettera. E qui Sausurre ha un'espressione bellissima, che io credo che in italiano debba tradursi in "menù forzato", la "cart forcée" in francese. Al centro di questo bianco sudario, per stare al linguaggio di Melville, abbiamo inoltre la riduzione della dimensione al tratto lineare. Horace-Bénédict, l'antenato, ha posto una scala, ha posto un segno lineare che non soltanto definisce la dimensione, ma anche un orientamento rispetto ai punti cardinali. Accanto ha segnato, non so se si può apprezzare, due puntini, che sono gli uomini. Anche nel segno linguistico del trattato compare una barra, benché scarnificata, per così dire, e ridotta alla struttura.

Perché ho detto tutto questo? Qual è il problema del globo o di Moby Dick? Moby Dick fa paura, è terribile, perché per Moby Dick questa barra non esiste, Moby Dick è un mostro, ed è il globo, perché fa a pezzi la barra, come Kurtz dirà a Charlie Marlow. Kurtz è un uomo che ha preso a calci la terra e l'ha ridotta in pezzi, lo stesso fa Moby Dick. Emerge dal mondo ctonio, se volete, dall'ambito del significato, e non distingue più tra significato e significante; per questo è pericoloso, per questo è inclassificabile, per questo uccide.

Oggi siamo esattamente nella stessa condizione; perché oggi esiste qualcosa che si chiama globalizzazione, per la quale siamo assolutamente sprovvisti di modelli, sappiamo che esiste e sospendiamo anche il giudizio sul fatto che sia giusta o ingiusta.

La conosciamo nei suoi effetti, ma non abbiamo le parole per dirlo, e qui Leibniz ha perfettamente torto. Abbiamo urgentemente bisogno di nuovi modelli per fare fronte a un mondo, questa sì è la post modernità che, contrariamente a quanto Baudrillard ha scritto, non è più riconducibile alla precessione del simulacro, ma alla fine, alla crisi di tutti i simulacri attraverso i quali la modernità si è costituita.

E i nuovi modelli da dove possono arrivare? Soltanto dalla letteratura.
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Golem   1 giugno 2002
© Franco Farinelli

mercoledì 2 settembre 2009

Evoluzione culturale: è più importante di quella biologica? - video iv / iv

  Luigi Luca Cavalli Sforza

festival della mente - 2009

Evoluzione culturale: è più importante di quella biologica?


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Il nostro patrimonio culturale (il prodotto della nostra mente) è soggetto ad evoluzione nel tempo e nello spazio, così come il nostro DNA. E’ utile studiare l’evoluzione culturale sulla base di un modello generale che vale anche per quella biologica, e che comprende le novità (le mutazioni genetiche, del DNA per la biologia, le innovazioni e le invenzioni per la cultura), la loro accettazione (selezione naturale e culturale) e altri fattori di natura demografica. Oltre alla natura di quel che cambia, è molto importante anche il meccanismo di trasmissione: per il DNA è da genitori a figli, mentre nella cultura è molto più vario ed efficiente: oggi possiamo trasmettere rapidamente qualunque informazione a tutto il mondo con la velocità della luce o quasi. L’evoluzione culturale è perciò divenuta sempre più importante nell’uomo, tende a dirigere l’evoluzione biologica, quei problemi che una volta dovevano essere risolti da mutazioni genetiche rare e casuali, diffondendosi poi con grande lentezza a tutta la popolazione, oggi sono risolti in modo molto più rapido con innovazioni mirate. Ma come tutte le innovazioni, genetiche o culturali,  anche quelle tecnologiche hanno costi oltre che benefici, e la parola finale sull’utilità di una innovazione spetta sempre alla selezione naturale.

festival della mente


Luigi Luca Cavalli Sforza
autorità internazionale nel campo della genetica. I suoi studi sull'evoluzione della specie umana sono stati determinanti alla ricostruzione dell'albero genealogico dell'umanità. Centrale è la coniugazione dei meccanismi genetici con i dati storici, culturali e linguistici. Ha insegnato a Stanford. Membro della Royal Society, US National Academy of Sciences, Académie Francaise, Accademia dei Lincei. Fra l’altro ha pubblicato: con Francesco Cavalli Sforza Chi siamo (Mondadori, 1994); Geni, Popoli e Lingue (Adelphi, 1996); La Scienza della felicità (Mondadori, 1997); con P. Menozzi, A. Piazza Storia e geografia dei geni umani (Adelphi, 2000); L’evoluzione della cultura (Codice, 2004); Il caso e la necessità. (Di Renzo E., 2007). Direttore scientifico dell’enciclopedia La cultura Italiana (Utet, 2009) di cui ha anche curato il primo volume Terra e popoli.

Evoluzione culturale: è più importante di quella biologica? - video iii / iv

  Luigi Luca Cavalli Sforza

festival della mente - 2009

Evoluzione culturale: è più importante di quella biologica?


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video 3



Il nostro patrimonio culturale (il prodotto della nostra mente) è soggetto ad evoluzione nel tempo e nello spazio, così come il nostro DNA. E’ utile studiare l’evoluzione culturale sulla base di un modello generale che vale anche per quella biologica, e che comprende le novità (le mutazioni genetiche, del DNA per la biologia, le innovazioni e le invenzioni per la cultura), la loro accettazione (selezione naturale e culturale) e altri fattori di natura demografica. Oltre alla natura di quel che cambia, è molto importante anche il meccanismo di trasmissione: per il DNA è da genitori a figli, mentre nella cultura è molto più vario ed efficiente: oggi possiamo trasmettere rapidamente qualunque informazione a tutto il mondo con la velocità della luce o quasi. L’evoluzione culturale è perciò divenuta sempre più importante nell’uomo, tende a dirigere l’evoluzione biologica, quei problemi che una volta dovevano essere risolti da mutazioni genetiche rare e casuali, diffondendosi poi con grande lentezza a tutta la popolazione, oggi sono risolti in modo molto più rapido con innovazioni mirate. Ma come tutte le innovazioni, genetiche o culturali,  anche quelle tecnologiche hanno costi oltre che benefici, e la parola finale sull’utilità di una innovazione spetta sempre alla selezione naturale.

festival della mente


Luigi Luca Cavalli Sforza
autorità internazionale nel campo della genetica. I suoi studi sull'evoluzione della specie umana sono stati determinanti alla ricostruzione dell'albero genealogico dell'umanità. Centrale è la coniugazione dei meccanismi genetici con i dati storici, culturali e linguistici. Ha insegnato a Stanford. Membro della Royal Society, US National Academy of Sciences, Académie Francaise, Accademia dei Lincei. Fra l’altro ha pubblicato: con Francesco Cavalli Sforza Chi siamo (Mondadori, 1994); Geni, Popoli e Lingue (Adelphi, 1996); La Scienza della felicità (Mondadori, 1997); con P. Menozzi, A. Piazza Storia e geografia dei geni umani (Adelphi, 2000); L’evoluzione della cultura (Codice, 2004); Il caso e la necessità. (Di Renzo E., 2007). Direttore scientifico dell’enciclopedia La cultura Italiana (Utet, 2009) di cui ha anche curato il primo volume Terra e popoli.

Evoluzione culturale: è più importante di quella biologica? - video ii / iv

  Luigi Luca Cavalli Sforza

festival della mente - 2009

Evoluzione culturale: è più importante di quella biologica?



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Il nostro patrimonio culturale (il prodotto della nostra mente) è soggetto ad evoluzione nel tempo e nello spazio, così come il nostro DNA. E’ utile studiare l’evoluzione culturale sulla base di un modello generale che vale anche per quella biologica, e che comprende le novità (le mutazioni genetiche, del DNA per la biologia, le innovazioni e le invenzioni per la cultura), la loro accettazione (selezione naturale e culturale) e altri fattori di natura demografica. Oltre alla natura di quel che cambia, è molto importante anche il meccanismo di trasmissione: per il DNA è da genitori a figli, mentre nella cultura è molto più vario ed efficiente: oggi possiamo trasmettere rapidamente qualunque informazione a tutto il mondo con la velocità della luce o quasi. L’evoluzione culturale è perciò divenuta sempre più importante nell’uomo, tende a dirigere l’evoluzione biologica, quei problemi che una volta dovevano essere risolti da mutazioni genetiche rare e casuali, diffondendosi poi con grande lentezza a tutta la popolazione, oggi sono risolti in modo molto più rapido con innovazioni mirate. Ma come tutte le innovazioni, genetiche o culturali,  anche quelle tecnologiche hanno costi oltre che benefici, e la parola finale sull’utilità di una innovazione spetta sempre alla selezione naturale.

festival della mente


Luigi Luca Cavalli Sforza
autorità internazionale nel campo della genetica. I suoi studi sull'evoluzione della specie umana sono stati determinanti alla ricostruzione dell'albero genealogico dell'umanità. Centrale è la coniugazione dei meccanismi genetici con i dati storici, culturali e linguistici. Ha insegnato a Stanford. Membro della Royal Society, US National Academy of Sciences, Académie Francaise, Accademia dei Lincei. Fra l’altro ha pubblicato: con Francesco Cavalli Sforza Chi siamo (Mondadori, 1994); Geni, Popoli e Lingue (Adelphi, 1996); La Scienza della felicità (Mondadori, 1997); con P. Menozzi, A. Piazza Storia e geografia dei geni umani (Adelphi, 2000); L’evoluzione della cultura (Codice, 2004); Il caso e la necessità. (Di Renzo E., 2007). Direttore scientifico dell’enciclopedia La cultura Italiana (Utet, 2009) di cui ha anche curato il primo volume Terra e popoli.