venerdì 22 gennaio 2010

Tra parentesi

' in edicola la raccolta di artcoli saggi e recensioni '



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 vol 1 Finalmente! Sapevamo che Adelphi aveva acquistato i diritti e che era in corso di traduzione da parte di Nicola Maria (che ha gia' tradotto per la Sellerio Chiamate telefoniche, I detective selvaggi, Puttane assassinee Il gaucho insostenibile )e aspettavamo con ansia la pubblicazione. Nel frattempo ci siamo letti, malgrado la nostra modesta conoscenza dello spagnolo, gli articoli e le recensioni e i saggi disponibili in rete, primo fra tutti Il discorso di Caracas (pag ). E abbiamo perfino osato tradurre la famosa ultima intervista allo scrittore fatta da Maristan per la rivista messicana Playboy.
Ora Tra parentesi è finalmente in libreria e ne siamo molto felici.

venerdì 8 gennaio 2010

Roberto Bolaño, scrittore fuori posto

  Rossana Campo -

LIBERAZIONE – 22/01/2005

Roberto Bolaño, scrittore fuori posto


Roberto Bolaño è uno scrittore cileno, coltissimo e piuttosto borgesiano per certi versi, eppure l'ho capito subito. Credo che anche lui faccia parte dell'Accolita. L'Accolita degli Scrittori Fuori Posto, degli scrittori che non hanno belle case, automobili e donne delle pulizie (alcuni di loro forse è capitato pure che l'avessero, come un accidente che gli è piombato addosso, ma per nostra fortuna di lettori era come se vivessero sempre in un monolocale sfigato, in un hotel putrido).

Per fare parte del'Accolita credo sia necessario sentire e manifestare nei propri romanzi, nei racconti e nelle poesie qualcosa che in modo sbrigativo potremmo definire empatia, senso di fratellanza e amore per tutti gli sbandati, per tutti quelli che si lanciano in imprese impossibili e che hanno il cervello e il cuore persi in certi mondi paralleli. Per chi non ce la fa e deve scappare e lasciare quello che ha, per chi non sa continuare a vivere e fare le cose di tutti i giorni come se niente fosse, e non ha una bella cera, e nemmeno una bella macchina magari neanche una casa dove vivere. E' una specie di corrente o forse di legame sottile che avverti subito in uno scrittore, apri la prima pagina, cominci a leggere e ti dici sì, è uno di loro, è uno di noi. Fa parte della Confraternita dei Devoti ai Perdenti.

“L'amore è così, l'argot è così, le strade sono così, i sonetti sono così, il cielo delle cinque della mattina è così. L'amicizia invece, non è così. Nell'amicizia non si è mai soli.” I protagonisti dei suoi libri sono spesso soli: poeti senza patria che si muovono nel mondo degli esuli, in Sud America, Spagna o Francia con le loro vite tutte piene di libri e sogni e cose lette e scritte che li accompagnano nel loro passaggio terrestre, perché la letteratura è anche fuga e capacità di sopravvivenza e resistenza. Era uno di loro Roberto Bolaño? Jorge Herralde, il suo editore spagnolo, ha detto che Bolaño era un poeta e un cane romantico, rabbioso e bastonato (Los perros romanticos è il titolo di un suo libro di poesie). 
 
Era nato a Santiago del Cile nel 1953. A quindici anni, nel 1968 si trasferisce a Città del Messico con i genitori dove per cinque anni vive libero e scapigliato frequentando artisti ribelli sognatori e fuggitivi. Esseri lontani e pieni di antipatia per i letterati ufficiali. Simpatizza col Mir (il Movimento della sinistra rivoluzionaria), scrive poesie. Nel 1973 un breve ritorno in patria giusto per piombare in quell'11 settembre, nella sanguinosa caduta di Allende, e nell'ascesa di Pinochet. E per partecipare alle manifestazioni che esplodono per strada, per essere arrestato (cavandosela per fortuna con pochi giorni di carcere). A questo punto, quando torture e sparizioni diventano la quotidianità del Cile, l'unica via possibile è la fuga. Passaggio a Città del Messico e arrivo in Spagna, Barcellona.
“In qualche misura tutto quello che ho scritto è una lettera d'amore e un saluto alla mia generazione, a quelli che hanno scelto la militanza e la lotta e che hanno dato quel poco che avevano, e quel molto che avevano, la giovinezza, a una causa che per noi era la più generosa del mondo (...) l'intera America Latina è seminata con le ossa di questi giovani dimenticati”. 
 
In Spagna però non è come in Messico, né come in Cile, Roberto Bolaño non trova i suoi poeti sballati e sognatori, vive un conflitto fra il tentativo di legarsi e l'insofferenza verso la comunità dei sudamericani esuli. Poi ci sono i bisogni legati alla sopravvivenza e così lavora come cameriere, vigilante notturno, spazzino, portuale. Ecco una delle molte cose bizzarre di quest'uomo, che si sentiva soprattutto poeta, e invece esordisce a quarant'anni nella prosa, e in dieci anni, dal '93 al 2003 scrive dieci libri, tutti quanti geniali, bizzarri, importanti. I detective selvaggi, Chiamate Telefoniche, Notturno cileno, La letteratura nazista in America, Stella distante... Diventa in fretta uno degli scrittori in lingua spagnola più letti, più influenti, riconosciuto come maestro indiscusso da scrittori quasi coetanei. Poi, di colpo, a soli cinquant'anni, nel 2003, ci ha lasciati qui soli. E' morto mentre aspettava un trapianto di fegato in un ospedale di Barcellona. 
 
In Italia mi sembra che Bolaño non ha raggiunto ancora molti lettori, così vi invito a scoprirlo, potete iniziare per esempio dai racconti usciti da poco, Le puttane assassine (tutta l'opera di Bolaño è edita da Sellerio), una serie di incontri frantumati che possono toccare a un fuggiasco della vita. Poi se vi va di tuffarvi senza rete in un Grande Romanzo Scarmigliato, in un labirinto pieno di storie e trame e avventure picaresche e surreali, se volete conoscere (fra gli altri) due giovani poeti cileni di un'improbabile avanguardia pura e dura detta "realvisceralismo", dediti a sbandate alcoliche e sessuali e a volte molto sentimentali, allora lanciatevi nelle 840 pagine dei Detective selvaggi
 
Li riconoscerete subito? Dipende, di certo è che tutti i sognatori un po' accidiosi si fiutano fra di loro. E quando si sono riconosciuti sono fratelli e sorelle per sempre

LIBERAZIONE – 22/01/2005


© Rossana Campo

venerdì 1 gennaio 2010

il fattore Pauls

  Diego Trelles Paz

testi da tradurre


El factor Pauls


Más que escritor o literato se diría que Alan Pauls (Buenos Aires, 1959) es un hombre de letras cuya pluma arriesgada no teme aventurarse en cuanto género lo intrigue. Además de ejercer la crítica cinematográfica, escrita y televisiva, ha escrito guiones, entre otros, para Eduardo Calcagno, Carlos Sorín, Fito Páez y su hermano Christian Pauls (Gastón Pauls, actor de Nueve Reinas, es también pariente suyo). Es traductor, ensayista ( Manuel Puig, La traición de Rita Hayworth, 1986; El factor Borges, 2000 ) y cultiva, con igual virtuosidad, la novela (El pudor del pornógrafo, 1984; El coloquio, 1990; Wasabi, 1994; El pasado, 2003, “Premio Herralde de novela”) y el cuento ( luego de leer “El caso Berciani” , en un artículo que más parecía la misiva de un escritor-detective intrigado por otro, Roberto Bolaño lo calificó como “uno de los mejores escritores latinoamericanos vivos” ). Alterando un poco la frase de Onetti, se podría decir que el señor Pauls no sabe escribir mal y tiene una cultura cinéfila impresionante. Precisamente, es sobre su literatura y el destape del nuevo cine argentino que hablamos en la siguiente entrevista.

Luego de leer Wasabi , nouvelle en la que abordas algunos de los tópicos que aparecerán luego en El pasado (la autodegradación corporal; el amor obsesivo, brutal, casi patológico y la manera en la que el tiempo lo corrompe; el artista convertido a criminal; la enfermedad; los dobles, etc.), no se puede evitar asociarla al cine de David Cronenberg. Hablando de El pasado dijiste en una entrevista que “tiene unos toques de autoexperimentador un poco cronenbergianos”, ¿qué tan influyente es el cine del canadiense (o de otro cineasta) en tu escritura?
A la hora de escribir, la presencia de Cronenberg —como la de cualquier “influencia”— es más espectral que efectiva. Son fantasmas que revolotean en el aire y cada tanto bajan a susurrarme cosas insidiosas al oído. De Cronenberg lo que estaba presente, sí, era una cierta vocación extrema: la idea de llevar un material, una historia, una experiencia, hasta sus últimas consecuencias, y después ver qué queda, qué es lo que ha sobrevivido y qué forma tiene. Creo que esa actitud presidía de algún modo mi encarnizamiento con la relación entre Rímini y Sofía.  

Tanto en Wasabi como en El pasado son las mujeres las que se muestran ambiguas con respecto al tema de la infidelidad (Tellas) o, directamente, confiesan haber sido infieles (Sofía). Has descrito a Sofía como “una muerta viva” que tiene “una gran teoría del amor que justifica esa especie de romance eterno que no puede terminar” y que ha fundado el club de las Mujeres que Aman Demasiado cuyo fin es hacerles recuerdos interminables a los hombres. Siendo el tema del “amor como una cosa monstruosa” algo que la novela aborda, ¿es el complejo personaje de Sofía la encarnación del mismo?
Sofía encarna ese amor monstruoso tanto como Rímini. Sólo que ella milita en la rememoración insomne (hay que recordarlo todo todo el tiempo) y él en las filas de la amnesia (para avanzar hay que olvidar). Es obvio que son tal para cual. Dicho esto, tengo la impresión de que no hay amor que no sea de algún modo una monstruosidad.

Los extraños nombres de tus personajes y de ciertos espacios en tus novelas nacen, por lo general, de referencias literarias o cinematográficas (Rímini es la ciudad en donde nació Fellini, Riltse remite al Elstir de la novela de Proust, el bar de Adela H. al filme de Truffaut, etc.) ¿Qué tan importante es para tu lector estar al tanto de estas referencias? ¿Las concibes como pequeños homenajes, guiños al lector ilustrado, juegos metatextuales?
El lector (espero) puede perfectamente prescindir de esos reconocimientos eruditos. Esos nombres no están ahí para sofisticar la novela con resonancias culturales sino más bien como vestigios de un pasado —la génesis del libro, el modo en que uno va encontrando o exhumando lo que escribe— del que me gusta no borrarlo todo. Son más bien ruinas, o monumentos, de la época en que la novela se buscaba a sí misma y para encontrarse saqueaba lo que más a mano tenía, que en este caso es la Cultura. Por lo demás, los nombres siempre son un problema a la hora de escribir. Siempre me parecen insípidos, o demasiado significativos, o muy “culturales”, o demasiado simbólicos, etc. No hay satisfacción con los nombres. Nunca. Por eso mi política es la de la resignación: encuentro uno que sobrevive dos o tres frases y —aunque no me satisfaga del todo— lo apoyo y lo sostengo hasta que, dos o tres capítulos más adelante, ya es demasiado tarde: es el nombre que tiene, y cambiárselo por otro sería ya una crueldad que no se merece.  Y ahí queda todo.

El deterioro corporal, la malformidades físicas y la proliferación de enfermedades (hongos, herpes, quistes, tuberculosis, soriasis) es algo que constantemente sufren tus personajes quienes, al mismo tiempo, aman con locura. ¿Dirías que esta relación delirante entre el amor y la enfermedad es un tema medular en tu obra?
Sí, y creo que cada vez más. (De hecho, tengo la impresión de que siempre quise ser médico, pero como no me daba el cuero —sólo la palabra sangre me da vértigo— me volví hipocondríaco.) Pero la pregunta es: ¿hay alguna diferencia entre el amor y la enfermedad? No para mí, en todo caso, que veo ambas experiencias como campos donde las cosas están en una especie de mutación permanente. La enfermedad, como el amor, lo cambian todo: el cuerpo, la percepción de las cosas, el estado del mundo. Para saber cómo es alguien, el médico frustrado que hay en mí preguntaría sólo dos cosas: cómo ama y qué enfermedades “hace”.  

En una entrevista declaraste que no te gustaba la “literatura profesional”   —esa literatura acabada que se moldea a través de los decálogos de un buen novelista— y que “lo interesante es no saber escribir”. Además que en tu evolución como narrador pensabas estar yendo “hacia no saber escribir más que hacia saber escribir”. Curiosamente, de las pocas objeciones que he encontrado a El pasado , me llamaron la atención aquellas que veían en tu prosa una “corrección exasperante”, un exceso de perfección y preciosismo. ¿Consideras justas esas críticas? ¿Podrías ampliar un poco el concepto de literatura profesional? 
Lo que yo llamo “literatura profesional” (que no tiene nada que ver con el dinero, ni con la situación socioeconómica de los escritores) es una literatura que se limita a ejecutar un programa estético apoyado en valores como la buena factura, el equilibrio de los componentes y la eficacia del resultado.  Es una literatura que sabe todo lo que va a decir antes de decirlo —y por eso es tan fácilmente traducible, no sólo a otras lenguas sino a otros lenguajes. No creo que El pasado entre en ese horizonte, y si la “corrección” (palabra que detesto) resulta “exasperante” (palabra que me intriga), entonces la objeción empieza a halagarme, porque no conozco correcciones que exasperen. Involucionar en la escritura, no saber escribir o escribir a tientas no implica escribir torpemente ni reducir las potencias del lenguaje a las estructuras básicas y bobas de un manual escolar de gramática. No creo que mi escritura sea preciosista; sí que es desmesurada. Pero jamás fetichizo las cuestiones de estilo en la literatura: el estilo sólo vale y pesa y dispara y funciona cuando entra en relación con otras dimensiones: la construcción, los materiales, el tiempo, etc. Y ahí creo que El pasado es todo lo contrario de un libro preciosista. Es más: los momentos más gozosos del libro son para mí aquellos en los que el estilo capitula ante la vulgaridad, la cursilería o la abyección. 
 
Leyendo El factor Borges me di con este párrafo (“el siglo XIX [...] deja de ser un material versificable y pasa a ser otra cosa, algo a la vez más perturbador y más reconfortante: una especie de infancia imposible , el mundo del que Borges, alguna vez, fue desterrado”) y no pude dejar de remitirme al Citizen Kane de Orson Welles del que el mismo Borges escribió: “el tema [...] es la investigación del alma secreta de un hombre, a través de las obras que ha construido, de las palabras que ha pronunciado, de los muchos destinos que ha roto” ¿Ves en la vida de Borges alguna relación con esta infancia imposible del personaje de Welles?
No lo había pensado, pero tal vez sí. Tal vez el inmenso depósito de estatuas y obras de arte y chucherías que Kane ha almacenado a lo largo de su vida sea un poco como la biblioteca de Borges, no la de él, la personal, que era más bien parca en volúmenes, sino esa biblioteca-mundo en la que parecía estar siempre atrincherado. En todo caso, la “infancia imposible”, tanto en Kane como en Borges, no sería otra cosa que una cierta… inocencia

Has ejercido la crítica de cine y has sido guionista de algunos filmes, entre ellos de Vidas privadas del músico Fito Páez. La película no tuvo una buena recepción crítica y saliste a polemizar porque, en tus palabras, “se la había condenado de antemano”. La película llegó al Festival de La Católica en Lima y las opiniones fueron divididas: hubo quienes, como en Argentina, pensaron que Páez había sido en extremo pretencioso y hubo quienes dijeron que “no estaba mal”. Me gustaría saber, ahora, a la distancia, si la película se mantuvo fiel al guión que escribiste, si como crítico dirías que es una buena película. 
La película fue tan fiel al guión como lo son todas las películas. Es decir: siempre mucho y poco al mismo tiempo. Pero ése no es el problema. Todas las películas tienen los guiones que se merecen. A mí la película me pareció y me parece interesante , que siempre es una palabra más atractiva y compleja que “buena” o “mala”. Interesante quiere decir arriesgada, incierta, que intenta articular cosas inarticuladas, que no teme. Prefiero esa clase de primeras películas, por fallidas que resulten, antes que peliculitas prudentes y recatadas cuya única ambición sea aprobar con un 6 los exámenes de la crítica y el público. Dicho sea de paso, creo que habría que revisar los sobreentendidos que están en juego cuando se usa la palabra “pretencioso” para desacreditar una película o un libro o lo que sea. No conozco una sola obra de arte interesante que no incluya alguna clase de pretensión.

El cine argentino en los últimos años ha experimentado una evolución importante. Ha aparecido una generación de valiosos autores jóvenes (Lerman, Martel, Trapero, Caetano, Sorín, Alonso, etc.). Tú has hablado de lo importante que ha sido, como en la Nouvelle Vague , “la idea de que la crítica hace cine tanto como el cine” y te referías al paisaje del crítico anterior como “una pandilla de burócratas mediocres, absolutamente ignorantes, muchas veces coimeros [...]”, y a los filmes como “un puñado de películas indigentes, temerosas, sin ninguna brújula estética”. En el Perú, después de años de indescriptible mediocridad, están apareciendo jóvenes con carácter y talento (Josué Mendes, Alvaro Velarde) pero aún no se consolida una generación que rompa definitivamente con el pasado. Teniendo en cuenta la experiencia argentina, ¿cuál crees que fue el verdadero punto de quiebre?
Hubo una conspiración de factores: el largo desastre inapelable de todos los modelos “industriales” que estuvieron en boga en los últimos 30 años en el cine argentino y el agotamiento definitivo de su principal axioma político: “primero hagamos una industria; después preocupémonos por el arte”; un recambio generacional inevitable; la aparición y proliferación de escuelas de cine, que ofrecieron una alternativa para la formación de nuevos cineastas y reincorporaron, ahora como docentes o trasmisores de saber, a directores y especialistas de los años '60 que el dogma industrialista había excluido del cine; la aparición y proliferación de revistas de cine, que actualizaron la información y le devolvieron pasión y facciosidad a una práctica que estaba completamente momificada.

¿Te animarías, en el futuro, como Paul Auster, Fernando Arrabal o Alejandro Jodorowsky, a dirigir una película?
No. Ni loco. Edgardo Cozarinsky dijo alguna vez que para dirigir cine hay que ser un poco monje y un poco militar. No reúno ninguno de los requisitos que exigen esas dos condiciones.

Publicado en:
Revista Quehacer. DESCO. 2005 Nov-Dic; (151).
Pterodáctilo : Revista de Arte, Litertura y Lingüística, 2005 Fall; 3(4): 74-79.
Referencia electrónica:


http://www.diegotrellespaz.com/en3.htm  2005 (blog dell'intervistatore)
© Diego Trelles Paz