lunedì 18 ottobre 2010

Ragazzi di vita horror tour 2010

     Franz Krauspenhaar -


come raccontare l'orrore senza scivolare, nel patetico, nella retorica o, peggio ancora nel moralismo? questo testo è una risposta possibile

Ragazzi di vita horror tour 2010


L’incarico che mi ha dato il direttore provoca in me un rimescolio profondo prima ancora d’affrontarlo. Sono arrivato al giornalismo tardi, ma con un curriculum di scrittore che ha convinto Mitrali a farmi assumere a La giovane sequoia, una rivista che, non solo nelle intenzioni, dovrebbe sostituire altri fogli che la crisi, la mancanza di lettori e l’appiattimento di buona parte dell’editoria di questo disgraziato paese ha fatto chiudere. Disgraziato paese, sì, non ancora nel terzo mondo, ma con i piedi dentro.
Mitrali vuole da me un’inchiesta tra coloro che vorrebbe chiamare i nuovi ragazzi di vita. Ama Pasolini, nel suo bene e nel suo male, Mitrali. Io solo nel suo bene, che poi a ben pensarci a volte confinava, o sconfinava, proprio col suo male. Per dimostrargli che so di cosa parla ho recitato l’inizio di Alla mia nazione davanti a lui.
Ora sento un leggero percuotere nel petto: non è il cuore, ma come uno sparo soffocato d’emozione fredda che quasi implode dentro di me, al centro proprio del mio petto nicotinico. È una rassegnazione che s’è scritta tanti anni fa e non è ancora finita. Quella nazione di Pasolini, dico tra me e me, in fondo non è cambiata, è sempre quella, amata e poi odiata come solo l’amore permette, con un urlo soffocato. Mitrali ha abbassato la testa, è un giornalista serio, uno che ci crede ancora. Io non più. Io non credo che ai miei libri, che pochi leggono, sopraffatti dalla corsa senza speranza dei “titoli”, di ciò che “tira”. Tira come tira l’uccello di un vecchio dopo l’impasticcazione blu. Un mondo di droga, di drogati, di combattenti contro la droga che si drogano.

Mi ha detto: “Chi sono i ragazzi di vita, oggi? Che fanno? Hanno ancora qualcosa in comune con i borgatari di Pasolini?


Probabilmente hanno il computer, si vestono con i giubbotti e le scarpe degli outlet, frequentano extracomunitari. Intorno a loro sempre palazzoni, sempre gelo, sempre disperazione. E alcuni di loro, in questi anni, sono transitati sulle colonne della cronaca nera per fatti pesanti. Vorrei che tu andassi a intervistarli. In carcere, o ai domiciliari, o dove si trovano. Fatti raccontare la loro storia, domanda, stabilisci un dialogo. Che ne pensi?”.
“Non so cosa pensare. Comunque sì”, è la mia laconica risposta.
“Bene. Eccoti i nomi, tutto… Casi estremi… Non è stato facile averli, questi sono gli unici che hanno accettato di parlare”.
“Come li hai avuti tutti ‘sti nomi?”.
Ha sorriso: “Le amicizie uno se le deve coltivare in tutti gli ambienti, tu m’insegni”.

San Basilio, 6.8.2010
La mattina dopo, alle 7.00, sono già alla barriera di Melegnano. Da Milano qualche rallentamento anche a quell’ora, ma poi ho potuto dare una bella potenza all’Alfa. Il viaggio va liscio, spesso supero i 200-220, come sempre infischiandomene della stradale. Sono al raccordo anulare di Roma nel primo pomeriggio e verso le quattro, dopo una sosta per mangiare, arrivo a San Basilio.
Renzo, il primo della lista di Mitrali, è vestito bene, giubbotto di pelle giallo, jeans puliti, scarpe di marca, o almeno così sembrano. Due anni fa è stato arrestato per sfruttamento della prostituzione. Lo trovo al bar più frequentato di san Basilio, la sua tana, mi offre una Moretti. Gli chiedo di raccontarmi com’è finito in galera. Ha avuto la libertà condizionale da pochi mesi. Non si sa come si guadagni da vivere. Già ne sono al corrente, di come è finito dentro. Accendo il microregistratore, anche se poi avrò la noia di dover sbobinare quest’assurda parlata romanesca.
“Perché m’hanno messo al gabbio? Costringevo mi sorella a vedè i film porno. Ma mica quelli fichi, tipo per dire cò quei pezzi de sorca de Roberta Missoni, o de Elena Grimaldi, co’ ’ste zinne enormi, no no, macchè. Era robba fatta ne’ tinelli, tipo quelli de casa nostra, con la cicciona der piano de sotto che rutta co’ le carze a rete e robba così. Mi sorella frignava che c’aveva pure dieci anni e voleva vederse Candy Candy. Sti cazzi, dicevo io, te vedi er pornazzone e zitta o te meno de brutto. Frignava sottovoce, allora, e visto che se dava na carmata, alla fine, sa com’è, le prennevo la testa e me facevo fà ‘n pompino, ché se la guardi bene mi sorella sembra ‘na versione tascabbile de quella gran sorcona de Natalie Caldonazzo… porca zozza, tempo sei-sette anni e me faceva guadagnà minimo ducento euri ar giorno. E invece anvedi com’è annata!”.
“Ma che fai? Ridi?”, gli chiedo serio. Ha la faccia tutta soddisfatta, i capelli lunghi tirati all’indietro. Mi guarda per qualche secondo con sospetto.
“E che devo fa’? Quer che è fatto è fatto. Dottò, lei nun po’ capì, me scusi. Le bambine qua nun so le ragazzine che conosce lei. So’ diverse. O’ sò che c’ho fatto der male a mì sorella, ma sempre meno de tanta gente che conosco e nun se fa problemi de sderenà pure li amici. Eppoi, la piccoletta nun c’ha i cosi, i traumi. Pure a pissicologa po’ confemmallo. Semo fratelli… capito?… La cosa brutta, che me vergogno quant’è vero iddio, è solo er fatto de la prostituzione. ‘A cosa che ho detto mo’. De aspettà qualche anno e falla batte er marciapiede… quello che ho pensato de falle fare è no’ schifo. Ma so’ solo pensieri”.
“Farla battere no, andarci a letto sì. Una bambina! Tua sorella!”.
Renzo strizza gli occhi come per vedermi meglio: “Certo, è ‘na schifezza, lo so. Ma io nun so’ n’ipocrita. Poi scusi, po’ capità. N’ho sentite de storie, che ‘e mie so’ gnente. Padri che s’ingroppavano la fija all’ora der riposino. E questo pe’ anni. Io me so fatto fa’ solo ‘na pelle, ‘na cosa così. E vabbè, so’ pentito, vabbene?”.
“Hai detto che te le facevi fare… è stato più di una volta…”
“Embé? Sì, ma guardi dottore qui nun è come da voi, qui non stiamo a li quartieri arti. Da noi se vive de ‘ste cose, senza troppe storie. Mi sorella è pulita, ha capito? Pulita”.
Lo guardo fisso negli occhi. Non provo né rabbia, né disgusto. Non provo nulla. Spengo il microregistratore.
“Scusi dottore, c’ha ‘na paglia?”, mi chiede quando sono già in piedi.
“Non fumo. Arrivederci”.
Appena uscito ne accendo una. Aspiro una profonda boccata. Il cielo è limpido.

Magliana, 6.8.2010
Sono le nove di sera. Non ho mangiato nulla, non ho fame. Ho fatto un lungo giro. Fumando e fumando di nuovo, entrando in un paio di bar e bevendo due o tre whisky. Ora mi tocca un uomo più grande, Pino. Sui cinquanta. Mi riceve a casa, davanti al televisore. Sta guardando un canale di Sky, forse Gambero Rosso. Ma il volume è azzerato. La moglie è fora, dice, possiamo parlare con calma. Basta che non scriva il suo nome. Quando ha detto fora gli è saltato come un guizzo negli occhi…
“Sa, sarebbero cazzi un po’ per tutti”, mi dice guardandomi fisso. Mi sta avvertendo. Accende una sigaretta, me ne offre una. Poi si alza, va al frigo: “Na biretta?”
Accetto. Si mette a scherzare. Su Marcello Lippi che ai Mondiali del Sudafrica è stato “un cojone a nun portà Cassano, su Berlusconi che è uno “che lo butta ar culo a tutti e fa bene, che l’artri so’ solo più falsi”, su “Mussolini, li mortacci sua, ch’era n’ fregno de gnente, solo che stava accerchiato da infami e fregnoni”.
È uscito da pochi mesi. S’è fatto otto anni di galera, poi gli sconti, le solite trafile fondate su avvocati scaltri, giudici che sanno come chiudere un occhio, la buona condotta.
“Fu nove anni fa. Quando presimo quella cretina cò l’handicappe della cuggina de Sergio Cedroni er monnezzaro, al luna park, che faceva freddo da cani, la portammo dietro le ggiostre. E ce stava pure ‘sto rommeno. Er rommeno era robbusto e rideva, coi denti gialli che pareva un limone. Silvietto er velletrano, quello che somiglia come ‘na goccia d’ acqua a Ciccio Cordova ‘ne l’anni settanta, se lo ricorda Cordova?”. Annuisco, lo ricordo eccome, giocava nella Roma, rifinitore mai veramente esploso in una squadra giallorossa da centroclassifica.
“E allora pe’ nun sapere nè legge nè scrive sai che fa Sirvietto? Vede un gatto che passa, je mette er piede sur collo pe’ tenello fermo, poi tira fori er seramanico e glie fà ‘no sgaro tanto così sulla pancia, li mortacci sua… Inzomma. Co’ sto sgaro ce fà uscire tutte l’animelle e er sangue, ecco. Poi pure er core. Ma er gatto ancora sembra vivo, miagola da matto. Lui che fa? Afferra er core de l’animale e nun lo ficca in bocca alla rincojonita che strilla? Poi se sbottona li carzoni e le piscia pure addosso, ’sto zozzo, ‘na gettata che sembrava doverebbe fà er giardiniere. E se nun lo fermo io je starebbe buttando addosso pure un cerino acceso e ‘na bottigliata de arcol pe’ abbrucialla viva, ’sto matto”.
Una pausa. Mi guarda.
“E poi?”
“Eppoi ce la semo fatta a turno e dopo tutti insieme. Pure er rommeno che sembrava voleva fa er duro e difenderla… Aòh, s’è adeguato de prescia…”. Ride nervosamente. Un minuto dopo è come se si stesse rattristando. “Nun è stato bbello da fa, lo so. È stata na zozzeria… La poraccia però pare che nun ha registrato gravi danni”. Mi fa il segno col dito sulla tempia.
Lo saluto, lo ringrazio pure.
“Quando esce l’articolo?”, mi fa sulla porta.
“Non so, le dirò, arrivederci”.
L’Alfa è a pochi metri. Parto sgommando. Anche Pasolini aveva l’Alfa, penso al suo ultimo giro in macchina, dal Pommidoro al Biondo Tevere con Pelosi, poi all’idroscalo di Ostia. Accendo la radio. “Passion” di Rod Stewart, una canzone del 1980. We need passion…. Sono distrutto, arrivo al motel dopo un’ora, ho sbagliato strada due volte. Un motel! Quei pezzenti della Sequoia!

Pietralata, 7.8.2010
Sono le nove, ma sono sveglio dalle sette. Intontito, prendo un caffè al bar dietro al motel, accendo una sigaretta e riparto. Dovrei mangiare qualcosa. Mi fermo a un altro bar, mi faccio dare un paio di tramezzini e una bottiglietta di minerale gassata. Ingollo tutto in macchina, guardandomi attorno prima di ripartire. Mi perdo varie volte, nonostante il navigatore. È che sono nervoso, teso. Che camera da schifo quel motel, dormito malissimo. Finalmente sono a Pietralata. Telefono al numero che mi ha dato Mitrali, risponde Enzo: “So’ qua, ar campetto”.
Lo riconosco subito. Mitrali mi ha dato una sua foto. Avrà quarantacinque anni, un bell’uomo, atletico. Mi stringe la mano con un sorriso.
“Namo là, ce sta ‘a panchina”, dice.
“Quando si è regazzini a un certo punto uno se stufa de esse preso a maleparole lì giorni pari e pure quelli dispari dalla sorella più grande. E siccome che c’era ’sto guardiano sfasciacarozze de nome Franco Rombi, che c’aveva fatto ‘na malattia per mi sorella, che me stava a fà ‘na capoccia così da mesi co’ sta storia che se la voleva sderenà davanti e dadietro, che era tanto bona che era molto mejo pure de quella succhiacazzi de Pamela Prati, e allora je dico tutto, dove la stronza annava a farse chiavà, dove sculettava per via… eccetera”.
Smette di guardare per terra e si gira verso di me. Sorride.
“La stronza”, dico io.
“Sì, stronza forte. Comunque… Una sera che faceva ‘n freddo da strippà annamo io e lui lì, fori de Fiumicino. C’è ’sta Punto giallo ovo tra le fratte e drento ’sto zozzo d’impiegato comunale co’ moglie e figli a casa, co’ mi sorella mezza nuda affianco, che se stava a impugnà e a scote er fringuello arissanguato de ’sto zozzo fijo de ‘na mignotta, che possino ammazzallo. Entriamo de scatto, a lui je spacchiamo subbito ‘a faccia e i connotati, a lei la tengo ferma io sur prato e coso, tutto assatanato se la fà senza manco tojerse li carzoni, du colpi, ‘na sborata e via. Poi a lei le dico zitta o dico tutto a papà nostro, che lo sapesse minimo minimo l’ammazzasse…. Vabbè mi padre ner frattempo è morto, vabbè…”. Deglutisce, poi riprende. “Lei me sputa in faccia e io allora tanto pe’ gradì le tiro ‘na scarica de papagni che a ’sta sparapippe je viè ‘na faccia viola come ‘na melanzana bella pronta pe’ la parmigiana”.
Accendo una sigaretta, provo a offriglierne una, rifiuta dicendo che non fuma. Mi chiedo dove mi trovo, forse sto sognando, sento una fitta allo stomaco. Spengo il registratore, d’impulso, senza un motivo.
“Alla fine mi sorella c’ha denunciati, me so’ fatto du anni de gabbio, coso tre, vabbè so’ fatti vecchi ormai, ma è ‘a vita.”

Acilia, 7.8.2010
Verso le undici sono ad Acilia. Mi fermo a pochi metri da una chiesa. Renzo m’aspetta un po’ più avanti, in un bar. Caldo, umido. Sudo, ho sete.
Nel bar ordino una coca cola con ghiaccio e limone, Renzo lo stesso. È un ragazzone stempiato, le basette lunghe, una maglietta nera. Robusto, due occhi azzurri glaciali.
“Quella vorta che scopersi mi fratello che era frocio, lo vedetti che lo prenneva ar culo in camera sua da du compagni de scola che ereno pure du compagni noglobbal, che faceveno a turno, uno c’aveva la faccia propio sputata a quello che stà in tivvù co’ quella biondazza co ‘a voce de omo, come se chiama quello stronzo de merda? Ah, sì, er milanese, quer Costantino, che stà pure ne la scuderia de zozzi e zozze de quer vecchio frocione de coso….”. Ride di continuo mentre lo dice e io, come per contagio, come quando uno sternutisce e così tutti gli altri, scoppio a ridere con lui.
“L’artro, invece, ce rassomijava a quello de’ film vecchi der coso, er reggista, Pasolini, vojo dì Ninetto, Ninetto Davvoli. Me misi le mani sui bellicapelli, te lo giuro, cazzo che scoperta de merda, propio da vomità la bile. Allora sai che c’è, vado da quer burinazzo de Giulietto Stracci, tutto aggonfiato che s’era appena comprato ‘a Ducati rossa nova, e je racconto tutta ’sta storiaccia. E lui me fà: ce damo ‘na lezzione a ’sto rottinculo. Allora torna co’ ’sti motociclisti fraciconi d’estrema destra amici sua, tutti che stanno a ciancicà ’sti slogans pieni de hail Hitler e viva er duce, co’ le catene ar collo co’ le svastiche e i cosi, come se chiameno, ‘e croci celtiche, ecco, e in breve menano quer culo sfonnato de mi fratello e l’artri frocioni, ma de brutto propio, da sfondarci la capoccia. Poi nun contenti se fanno a turno ner culo mi fratello. Allora io dico: embé, che state a fà? Fate uguale, la stessa zozzeria de l’artri? E quelli zitti, co ’ste facce che me pareveno animali feroci. Nun faccio a tempo a scappà, me pijano subbito e me fanno er servizio barba e capelli pure a me, un male ar bucio der culo che nun te dico, ‘na decina de minuti d’orore, che tutte le sere mi madre me deve spalmà er Fissan tra le chiappe come quando ero ‘n pupo, e tira su cor naso che piagne sempre…”.
Mi sento come dentro a un tunnel. Rido con lui, come un cretino.
“Ce facciamo ‘n bicchiere de quello bbono?”, propone.
“No, il vino non mi va. Bevo birra”.
“Ah vabbè, vai cò la birra, pur’io”. Ordina due Peroni ghiacciate da 66. Una 66 con lo stomaco vuoto mi fa l’effetto notte e dì… Quando lo saluto, mi ringrazia quasi con simpatia, mentre io non la finisco di ridacchiare. E rido, rido… Dopo averlo lasciato, non so perché entro in una chiesa. È deserta. L’effetto euforizzante si placa di colpo.

Quarticciolo 7.8.2010
È quasi sera. Sono stanchissimo, mangio una pizza al taglio accompagnandola con una birra, luci al neon ovunque. Mi guardo allo specchietto dell’Alfa: ho la barba lunga, gli occhi rossi. Non vedo l’ora che tutto finisca. I ragazzi di Pasolini non erano questi. Questi sono solo dei criminali, non rappresentano nulla, non valgono niente. Sono soltanto dei malati, nessuna gioia, solo violenza gratuita oramai. E però c’è questa vena grossa di orrore vero che mi affascina. E mi chiedo cosa sia veramente, l’orrore. Da ragazzo vedere le cose da una prospettiva rovesciata mi creava un tremendo disagio. A cinquant’anni le cose sono molto cambiate, dentro la mia corazza. S’è vissuto, s’è provato, s’è sofferto e goduto. Vado al palazzone dove abita Giuliano. Mi fa entrare stringendomi la mano con una bella stretta. C’è una giovane donna seduta nel soggiorno. Guarda la tv.
“De qua, prego”, mi dice. Il suo cosiddetto studio. Giuliano deve avere una quarantina d’anni, magro, capelli lunghi, ben curati. Vestito con una camicia di jeans. Ha una collana etnica, corta. Potrebbe sembrare un fotografo, un “giovane” scrittore. Poi si mette a parlare e, dal suo linguaggio, emerge altro.
“Inzomma, erevamo io e Rinaldo er fijo de Lucianone Freddi e Mario Forlani detto er Scintillone. C’avevo ‘na rabbia drento che nun se potevà capì. Come quanno ero regazzino e me ricordo che annammo a vedè l’Aranciata mecanica, e dopo avevamo menato a sangue quelli de la Vigor, co’ le spranghe, ’sti zozzi de rossi communisti”.
No, non può avere quarant’anni. Arancia Meccanica, spranghe… Avrà la mia età, se non di più. È agli arresti domiciliari. Sta scontando vent’anni. Mi racconta una storia di vent’anni fa, infatti. Era il 1992.
“Allora annamo a bere la birra fora, tre o quattro litrate a cranio de ’sta Peroni traditora, verso la litorale, dove ce stava er canneto e lo stabbilimento da Ciaccio. Poi Scintillò fà l’inversione come se sarebbe coso, come se chiamava, ah sì, Maurizio Merli quanno faceva er commissario da à Mobbile, co’ sta Alfa dumila tutta smarmittata da zingaro e fà fischià ‘e rote, e tornamo a tutta velocità a Roma, che a momenti annavamo a infrocià contro un Ducato de merda che esce de colpo da ’sta stradetta der cazzo. Arivati imbriachi fracichi sotto casa de quer burino de Bussoletti, quello che lavorava a l’Acotral de Anagni, che se nun porti nun magni, cantamo ‘a serenata a su fija, Linda. E daje de tacco e daje de punta è arivata la Sora Assunta… “
Mentre lui canta io mi sento come sparito in un’acquario di modernariato, tra pezzi di film di serie B, il finale di Salò e vecchi ricordi amorosi di una trattoria di Ariccia…
“Linda… du zinne toste come quelle de cosa, come se chiama, ‘a sventolona de Latina, Manuela Arcuri, ecco, che a Latina e limitrofi se sà che ce stanno le mejo fregne der Lazio. Beh, ’sta Linda ce strilla de stà zitti e boni, allora sfonnamo er portone, saliamo su, sfonnamo la porta, quattro papagni a quer cornuto der padre, quattro a quella zozza de la madre, ‘na bella legatura contro er termosifone acceso e le mutande in bocca pè falli stà zitti e mosca, e c’avemo pure er lettone matrimmoniale e via, ce scopamo in tutti li buchi ’sta puttanella de Linda ner lettone de li genitori. Diciassett’anni, un fiore de campo. Poi ce mettemo a bevere da la credenza, vino rosso, bianco, e poi ce ‘n po’ de pizza bianca co’ a cipolla e magnamo, ce scofaniamo propio. E dai co’ le salsicce de finocchio, er pecorino co’ le fave, ‘na cartata de supplì che staveno ner forno Scintillò se mette pure a riscaldà sur foco la pentola co’ li facioli. Poi quer pervertito fracico de Scintillone se mette a menà la regazza, papagni, ceffoni, e via, tutto er repertorio che me sembrava ‘n film de Dario Argento. Accende ’na paja e se mette a brucialle li capezzoli. Quella strilla come n’oca, ma chi la sente? Allora prova pure Rinaldo, poi io. Che te devo dì, ce prennemo gusto. Botte, bruciature, ‘a testa contro ‘a cosa der letto, come se chiama? Nun sò come, me ritrovo a daje giù su la schiena de la regazza co’ ‘na sedia. A la fine, quanno quella è svenuta de brutto co’ tutto ’sto sangue dattorno pè tutta la cammera, tornamo tutti a casa e l’indomani me viè a trovà er maresciallo siciliano co’ st’odore d’ascella commossa che sembra coso, come cazzo se chiama, Mammuccari!, e me dice de venì in caserma. Morale de la favola Gran Pavesi in tavola, eravamo tutti drento a Reggina Celi da ‘na quindicina de ggiorni perchè Linda è pure morta stechita per le violenze subbìte. Tutta colpa de quello stronzo de Scintillone che nun se sa trattené. E mò, come se dice, sò stati cazzi. L’avvocato però disse che ce poteveno dà l’attenuanti, bastava che facevamo i bravi. Ma a me me rodeva er culo perchè se c’avevamo i santi ar paradiso come ‘no zio vescovo o er cuggino asesore ce scommetto venti sacchi ch’ero fora, pulito, co’ tante scuse e pure ‘na leccata de culo e tante belle cose”.
Ho la vista annebbiata, la testa mi gira. Questi sono figli del Circeo, che c’entra Pasolini? Sarà sempre peggio, sarà sempre peggio, diceva. Aveva ragione. Lo guardo.
“Che c’è? Na storia forte, lo so. Guarda che so’ pentito, mia moglie m’ha aiutato un frego. Santa donna…
Vorrei dirgli che mi suscita ribrezzo, che non scriverò niente di tutto questo. E invece dico un’altra cosa.
“Le nostre vite sono assurde. Di tutti”.
Quando sono di nuovo sull’Alfa mi accorgo di non aver acceso il registratore. Me ne infischio. Vado alla ricerca di un albergo, poi vedo un cartello verde, che segnala la A1. Ci ripenso, accelero. La farò in una sola tirata. Mitrali! Mitrali, ce l’ho il tuo fottuto reportage!, ce l’ho!, grido dal finestrino abbassato. All’altezza di Arezzo, sbucata all’improvviso da uno zapping, Gabriella Ferri canta Sempre, sempre… Allora mi metto a cantare anch’io a squarciagola e a ridere e a cantare e a ridere e a cantare.

pubblicato su Reportage   - - - -
©    Franz Krauspenhaar

 

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1975    è il nuovo romanzo dell'autore in corso di pubblicazione








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