martedì 15 dicembre 2009

L’ultimo Bolaño, innamorato di Céline

Giordano Tedoldi -   Sottoosservazione's blog - 15 dicembre 2009


L’ultimo Bolaño, innamorato di Céline

 Dalla morte avvenuta nel 2003, la considerazione critica e l’interesse per la vita e l’opera dello scrittore Roberto Bolaño, nato nel 1953 a Santiago del Cile, continua a intensificarsi. L’autoritratto dello scrittore, che pure detestava il genere autobiografico sopra ogni cosa, si precisa con la recente pubblicazione delle sue ultime interviste, uscite in Inghilterra per i tipi dell’editore Melville House con il titolo Roberto Bolaño: The Last Interview, frutto delle conversazioni con la giornalista Monica Maristain su e giù per l’America latina, mentre Bolaño, consapevole della fine imminente per una grave patologia al fegato, portava a compimento il gigantesco 2666 (da poco pubblicato in Italia in una nuova edizione da Adelphi) il romanzo estremo, riassuntivo di tutta la sua poetica.

martedì 1 dicembre 2009

il perfetto scrittore progressista (massimo Rizzante)

Massimo rizzante

10 novembre 2009

Il perfetto scrittore progressista

di Massimo Rizzante
(post rem)
Il perfetto scrittore progressista Walter Veltroni, autore di un romanzo intitolato Noi ha lasciato cadere, in una recente intervista, alcune perle. La prima è che, al di là di ogni facile lamento, «la letteratura ha ancora un peso enorme… Anche oggi. Non a caso, i regimi danno fuoco ai libri». La seconda è che «Le parole hanno sempre cambiato il mondo e lo faranno ancora». La terza è che «La letteratura è democrazia».

Mi chiedo che idea della letteratura abbia il perfetto scrittore progressista. Ma soprattutto quale sia la sua idea di democrazia.

Io ho sempre pensato che la creazione letteraria sia elitaria. E che una democrazia è tanto più forte quanto più è in grado, attraverso un sistema educativo aperto a tutti, di sradicare l’ignoranza (con la quale dobbiamo fare i conti nel corso di tutta una vita) in modo da rendere accessibili i romanzi di Sterne, di Joyce e di Kafka. Non è la letteratura che è democratica, è l’accesso ad essa che deve esserlo.
La democrazia non è qualcosa che si ottiene in modo gratuito, assecondando la mediocrità, ma è al contrario uno sforzo costante, un atto esigente di lucidità e di immaginazione, qualcosa di molto simile alla stessa creazione letteraria.
Pensare, perciò, come fa il perfetto scrittore progressista che la letteratura sia di per sé democratica significa inevitabilmente porla sotto il segno della sua accessibilità popolare, significa cioè avere un’idea populista della letteratura e della democrazia. Questa che sembra una contraddizione in termini – come può un progressista avere un’idea populista della democrazia? – è in realtà la concreta radice di uno dei mali nel nostro paese. E non solo del nostro paese.
Certo, qualcuno, magari un progressista meno ragionevole ma più razionale, potrebbe addurre l’argomento che opere come l’Ulisse di Joyce o I sonnambuli di Broch non possono essere recepite da un pubblico di analfabeti di ritorno o di illetterati alle prese con l’ennesima rivoluzione tecnologica. La mia risposta è una domanda: che cosa leggeranno questi analfabeti e questi illetterati quando avranno smesso di esserlo? I romanzi di Veltroni e Veronesi o I sonnambuli?
Al centro della questione, allo stesso tempo letteraria e politica, ci sono due modi di invitare il lettore a partecipare all’opera.
Il primo parte dal presupposto che il lettore sia sempre identificabile e che i suoi gusti, giudizi e preferenze siano conosciuti in anticipo dall’autore, il quale prepara, con l’aiuto di probi editor, il perfetto piatto del perfetto scrittore progressista-populista con cui si nutrono le viscere del consumatore del presente.
Il secondo cerca di identificare il lettore che ancora non c’è, il lettore che scopre se stesso attraverso la lettura. Quando questo lettore e l’opera si incontrano, quando l’uno e l’altra si creano reciprocamente, nasce l’opera davvero democratica, in grado cioè di rivolgersi non a un lettore-consumatore del presente, ma a un lettore-cittadino del futuro.
Si capisce quindi come ogni apologia progressista dell’opera letteraria che deve essere accessibile a tutti, mistifichi tre deficit che il perfetto scrittore progressista non riesce a colmare, essendo la sua idea di democrazia minata alle basi da un pregiudizio populista. Un deficit di progetto politico: i suoi romanzi si rivolgono a un lettore-consumatore del presente. Un deficit educativo: egli pensa di sradicare l’ignoranza non elevando il tasso di cittadinanza della letteratura, ma innalzando il tasso della sua consumazione.
Un deficit, infine, di immaginazione: i romanzi del perfetto scrittore progressista soggiaciono a un mediocre realismo sociologico, alla verosimiglianza psicologica e a un’idea della Storia concepita come una successione di eventi registrabili. I suoi romanzi sono privi cioè di ogni immaginazione temporale. Sono, oltre che populisti, anacronistici, in quanto costruiti con strumenti che hanno avuto il loro apogeo nel XIX secolo. E sono, per questo, nostalgici. Una nostalgia che nutre le viscere dei lettori-consumatori del presente.
L’opera letteraria davvero democratica che si rivolge a un lettore-cittadino del futuro è sì un atto individuale, ma è allo stesso tempo un atto di memoria comune e porta in seno il progetto di una collettività che non ha nome. Per questa ragione essa deve essere in grado di far intravedere – come una carica inesplosa – un’altra Storia, una «seconda Storia», come ha detto una volta Carlos Fuentes, che non ha niente a che vedere con la Storia registrata negli archivi né con la verità “storica” in tempo reale che ci propina l’informazione.

Lo scrittore davvero democratico non si accontenta quindi di ciò che gli è contemporaneo, ma si propone di compiere un’operazione che né gli storici né l’informazione possono compiere: rendere contemporaneo nella sua opera ciò che non gli è contemporaneo, accogliere in un unico spazio fittizio una coesistenza di tempi, fare di ogni passato presente.

E’ evidente che per farlo, il codice realistico deve essere violato. E con questa violazione finisce il sogno nostalgico, allo stesso tempo progressista e populista, di un realismo universale in grado di identificare in ogni parte del globo il lettore-consumatore del presente.

Questa «seconda Storia», che nell’opera fa brillare come un miraggio il nostro futuro senza nome, è ciò che ogni lettore-cittadino dovrebbe richiedere a uno scrittore davvero democratico.

Pubblicato su Nazione indiana  10 novembre 2009
© Massimo Rizzante - "su Nazione Indiana" 


le  opere di Massimo Rizzante

Io, Marilyn Monroe, Shakespeare, Francis Bacon e la bellezza, dopo l’annuncio del grande onanista

  Massimo Rizzante-

1 novembre 2009

Io, Marilyn Monroe, Shakespeare, Francis Bacon e la bellezza, dopo l’annuncio del grande onanista

di Massimo Rizzante
Vorrei sapere chi è stato a un certo punto della Storia, sul finire del XX secolo, a decretare che “Happy days”, la serie televisiva americana degli anni Settanta, ci abbia formato nella nostra adolescenza più della lettura, a volte faticosa, a volte verticale, dei romanzi di Dostoevskij, o a stabilire che una ballad dei Pink Floyd, grazie alla quale i nostri desideri immaturi si accendevano per qualche minuto come falò benigni in mezzo alle sparatorie del Belpaese della Politica, abbia avuto allora lo stesso peso della nostra lettura di una tragedia di Shakespeare…




Vorrei sapere chi è stato quel bellimbusto, quel figlio di puttana, quel genio incompreso e frustrato che per farsi largo tra i palinsensti infernali del paradiso della comunicazione o forse solo per farsi perdonare una lunga striscia di ore passate alla TV a strofinarsi davanti al corpicino della piccola Heidi, ha dettato all’umanità futura la Suprema Equazione: Tutto è uguale a Tutto. O, se si preferisce, nell’autorevole traduzione da uno dei tanti manuali per giovani onanisti di uno dei tanti apparatnik della critica degli inizi del XXI secolo: «Il problema del valore è un problema ormai superato dalla cancellazione effettiva e irreversibile delle divisioni tra cultura alta e cultura bassa, postulata e messa in opera nell’epoca massmediologica postmoderna».

Subito dopo l’annuncio del grande onanista, a una gran fetta dell’umanità non è parso vero di giustificare la propria impotenza, la propria disfatta, il proprio nodo alla gola: Basta con l’Arte, con la Cultura! Basta con l’ardua difficoltà dell’Opera Moderna! Evviva la New Epic Salsa! Evviva la Lap Poetry!

Si è scatenata così una gara, che ancor oggi è in pieno svolgimento, a minimizzare le vette, a innalzare i deretani alle cosiddette pressioni editoriali; a mostrare, di performance in performance, freneticamente i muscoli; a scandagliare, a suon di riflessioni sociologiche, gli abissi recitativi di apolli recuperati sul marciapiede del tramonto da un genio tarantolato del cinema americano; a celebrare sui palchi e in prestigiose riunioni di affiliati all’espressionismo pop i creatori di celebri motivetti su quattro accordi; ad esaminare con i bisturi della neuroestetica «l’apporto esperienziale» della ricezione dei Manga; a coprire con i veli di Maya del New Historicism, per il quale documento e monumento sono la stessa cosa, le vergogne desnude di una letteratura incarcerata nell’ideologia, sia essa yankee, orientalista o Inuit…
Insomma si è scatenata una gara a rinsaldare i bassi ranghi.

Un amico mi parla di Bianca, il film di Nanni Moretti: «Ti ricordo che era il 1983, solo qualche anno prima del grande annuncio».

La scuola in cui insegna il protagonista si chiama “Marilyn Monroe”. Un istituto tanto sperimentale quanto surreale. Chi insegna che cosa? Un professore di storia tiene lezioni sulla musica leggera vicino a un juke-box. Il segretario Edo, un prodigio che non sa né leggere né scrivere, delizia il corpo insegnante al pianoforte. Il preside con piglio manageriale terrorizza un mite professore poco aggiornato con una formula profetica: «Qui non si forma, ma si informa». L’insegnamento della matematica è un’opzione tra una partita a flipper, la pista elettrica e una slot-machine. In ogni classe al posto della foto del Presidente della Repubblica c’è quella di Dino Zoff, allora portiere della nazionale italiana, che l’anno prima, al culmine degli “anni di piombo”, aveva vinto in Spagna i mondiali di calcio.

Ho detto istituto surreale, perché all’epoca si rideva delle enormità che accadevano in quel posto. Si rideva perché si percepiva che la realtà era stata deformata. Deformata e perciò comica. Si rideva e si criticava l’Arte, la Cultura, come quando, tra una puntata e l’altra di “Happy days”, si sfogliavano le avventure di Rabelais e dei suoi personaggi alle prese con quei sorbonardi a cui non riusciva di entrare in testa perché mai qualcuno, invece di studiare i sacri testi, venisse in mente di pisciare da un campanile o di scagliare in mare aperto un intero gregge di pecore.

Ma oggi, dopo il grande annuncio, oggi che le serigrafie di Marilyn Monroe, opera del più influente artista del secondo Novecento, sono appese alle pareti degli hotel a cinque stelle dove s’incrociano di sfuggita i futuri Nobel, oggi che la scuola e l’università, con l’avvallo di eminenti pedagoghi e cognitivisti, sono diventati luoghi di animazione culturale dove si «insegna l’ignoranza» (Jean-Claude Michéa) con tanto di psicoterapeuti di sostegno – proprio come nel film di Moretti –, oggi in cui molti studenti sono convinti che Dino Zoff sia stato Presidente della Repubblica, oggi che a nessuno, nemmeno al «cattivo maestro» Vasco Rossi è stata negata dagli insigni sorbonardi italici una Laurea honoris causa, oggi che il Surrealismo è diventato Doc-Fiction, diventa difficile ridere. E di che cosa?

E diventa persino difficile immaginare che qualcuno di nome Will esattamente quattro secoli fa si sia immaginato nei suoi Sonetti, seguendo a sua volta un’idea immaginata da Platone venti secoli prima, un’esperienza dell’amore e dell’amicizia capace di cancellare – attraverso una nozione di bellezza (beauty), una nozione sessuale ma anche mentale, drammatica ma anche ironica, non solo estetica ma anche etica, in guerra con il tempo ma anche in pace con la perfezione (When I consider every thing that grows/Holds in perfection but a little moment) – le frontiere tra l’amore e l’amicizia, tra l’inclinazione amorosa verso una donna (non importa se bionda o bruna) e quella verso un uomo: A woman’s face with nature’s own hand painted/Hast thou, the master mistress of my passion. Diventa difficile immaginare che una nozione così ricca della bellezza – una parola che oggi pronunciamo temendo di essere colti in flagranza di reato o sprofondando, in mancanza di meglio, in uno dei tanti orfismi d’assalto – abbia potuto concepire un atollo emotivo al di là del genere maschile e femminile (ultrasessuale, come ha affermato una volta Claudio Guillén), oggi che invece che con dei lettori abbiamo a che fare con schiere di procuratori militanti presi a rivendicare l’eccezionalità del loro sesso, come se questo potesse difenderci dall’omofobia, dal machismo, come se questo potesse essere una prova della nostra libertà, quando in realtà è solo la testimonianza della nostra impotenza ad aprire una breccia attraverso il silenzio del passato.

What is your substance, whereof are you made,/that millions of strange shadows on you tend? Qual è la sostanza di un individuo che è allo stesso tempo uno e molti, che può dare vita a tante immagini (And you, but, one, can every shadow lend)? Fino a che punto «l’ombra» dell’essere amato, uomo o donna che sia, può essere colta?

Sono le stesse domande, ad esempio, che i quadri di Francis Bacon, ci pongono attraverso la «distorsione organica» dei loro corpi. E non è un caso che Bacon, nei suoi dialoghi, dove non c’è traccia, né tanto meno rivendicazione, delle sue preferenze sessuali, si rifaccia quasi unicamente a Shakespeare quando parla della bellezza. Bacon, per quanto si sia sentito isolato, non ha mai pensato di giudicare la sua arte come qualcosa di autonomo rispetto all’intera storia della sua arte. Così come la sua nozione di bellezza si richiama a quella di Shakespeare, allo stesso modo per lui l’arte moderna non può risparmiarsi il confronto (lo so, un confronto spesso difficile da accettare) con tutta l’arte precedente. Non che egli abbia rinunciato ad essere un uomo del suo tempo, ad accogliere gli insegnamenti di altre arti, la fotografia, il cinema, a interessarsi della scienza, ad apprendere da quello che gli succedeva intorno.

Solo che Bacon, morto nel 1992, non ha semplicemente dato ascolto all’annuncio del grande onanista che a un certo punto della Storia ha decretato la Grande Equazione, Tutto è uguale a Tutto, privando così l’artista del suo vero rovello: cercare una sua personale gerarchia nel caos degli oggetti e dei temi del mondo. Non si è piegato al ricatto del grande onanista che ha reso l’arte puro décor, uno spazio arbitrario (non ludico, non artificiale, ma arbitrario), dove non è più in gioco la vulnerabilità della condizione umana. Né ha dato ascolto alla logorroica ostentazione degli apparitnik della critica nel presentarci questo ricatto come un dato acquisito, irreversibile, epocale.

Anche Francis Bacon dava importanza all’istinto (parola che torna spesso nei suoi dialoghi), e, come il suo maestro Shakespeare, sapeva bene che non si dà bellezza senza essersi mescolati ai propri umori, senza aver compreso l’essenziale e cruda organicità della vita: «A diciassette anni. Lo ricordo molto chiaramente. Vidi uno stronzo di cane sul marciapiede e d’un tratto capii: ecco cos’è la vita. Mi tormentai per mesi, poi finii per accettarlo».

Solo che il suo istinto, accettati i bassi istinti e il fondo escrementizio di ogni bellezza, restò fino alla fine della stessa sostanza dei sogni.

pubblicato su Nazione Indiana  1 novembre 2009


Non ho intenzione di difendermi (e da chi?). Tuttavia aggettivi come “macchinoso”, “pedante” “logorroico” riferiti allo stile del mio pezzo non mi sembrano appropriati, almeno per il senso corrente che hanno nella lingua italiana.
“Liceale”, sì, liceale mi piace. Ci sono molti modi di essere liceale. A me questa parola fa venire in mente Gingio, il personaggio di “Ferdydurke” di Witold Gombrowicz, costretto già adulto a tornare sui banchi d scuola, al suo essere immaturo, senza gerarchie stabili, ma sempre alla ricerca di una certa maturità, di qualche gerarchia, in arte come nella vita. Consapevole che dietro l’angolo c’è sempre un professor Pimko, o un professor Pecoraro, pronto a “cuculizzarlo”, a infantilizzarlo ancor di più. Di fronte al professor Pimko, a Gingio non resta che lo scherzo o la fuga.

 Massimo Rizzante, commento a margine della discussione sul saggio pubblicato su  Nazione Indiana


© Massimo Rizzante - "su Nazione Indiana" 


le  opere di Massimo Rizzante

Houellebecq. Appunti di lettura (Max Rizzante)

  Massimo Rizzante

7 aprile 2009

Houellebecq. Appunti di lettura

di Massimo Rizzante
L’al di là dell’amore
Su Piattaforma di Michel Houellebecq
È falso sostenere che gli esseri umani siano unici, che siano portatori di una loro singolarità insostituibile; per quello che mi riguarda, in ogni caso, io non percepivo nessuna traccia di questa singolarità.
Queste parole sono pronunciate in uno dei primi capitoli della seconda parte del terzo romanzo di Houellebecq, Piattaforma (2001), dal narratore e protagonista Michel, quarantenne funzionario contabile del Ministero della Cultura francese, prodotto di un sistema nel quale liberalismo economico e liberazione sessuale sono talmente sbandierati e oppressivi che chiunque osi, come fa l’autore, rappresentarli in tutta la loro cruda e grottesca realtà, è immediatamente tacciato di essere un reazionario o, peggio, uno spirito antimoderno. Chiunque nel nostro tempo non partecipi con entusiasmo al festino del presente diventa ipso facto un collaborazionista delle forze del passato, ovvero un individuo la cui libertà viene sentita come una provocazione o uno scandalo.
Qual è, infatti, ai nostri giorni lo scandalo più grande? Quello di essere «contro il mondo, contro la vita», come suona il sottotitolo del primo libro di Houellebecq, dedicato all’opera di H. P. Lovecraft, in cui troviamo già il primo postulato della sua teoria del mondo:
Il capitalismo liberale ha allargato la propria presa sulle coscienze; di pari passo sono andati affermandosi il mercantilismo, la pubblicità, il culto bieco e grottesco dell’efficienza economica, l’appetito esclusivo e immorale per le ricchezze materiali. Peggio ancora, il liberalismo è passato dal campo economico al campo sessuale. Tutte le convenzioni sentimentali sono andate in pezzi. La purezza, la castità, la fedeltà, la decenza sono diventate marchi infamanti e ridicoli. Oggigiorno il valore di un essere umano si misura tramite la sua utilità economica e il suo potenziale erotico…
In un mondo in cui «il valore di un essere umano si misura tramite la sua utilità economica e il suo potenziale erotico» il romanzo è ancora possibile? È ancora possibile esplorare gli individui servendosi di armi sofisticate – quali il romanzo ha forgiato lungo la sua storia secolare – di fronte all’uniformizzazione delle loro esistenze? Di fronte alla disarmante semplicità delle loro esistenze?
In un’intervista del 1995, a chi gli chiedeva di enunciare alcuni corollari al suo primo postulato teorico, l’autore francese rispondeva:
Le società animali e umane mettono in atto diversi sistemi di differenziazione gerarchica che possono basarsi sulla nascita (sistema aristocratico), il censo, la bellezza, la forza fisica, l’intelligenza, il talento […] Tutti questi criteri mi sembrano più o meno allo stesso modo degni di disprezzo; li rifiuto. La sola superiorità che riconosco è la bontà. Oggi noi ci muoviamo in un sistema a due dimensioni: l’attrazione erotica e il denaro. Tutto il resto, cioè la felicità e l’infelicità delle persone, discende da questo. Per me non si tratta per nulla di una teoria: noi viviamo effettivamente in una società semplice, che le poche frasi che ho appena pronunciato bastano a descrivere completamente.
È da questo genere di considerazioni che si deve partire per comprendere il ritmo ossessivo delle peripezie sessuali di Michel, la sua storia d’amore con Valérie, le sue relazioni con l’industria del turismo planetario – di cui Valérie e il suo capo Jean-Yves sono esemplari demiurghi –, il suo sguardo da etologo, allo stesso tempo patetico e clinico, che guarda all’uomo occidentale del XXI secolo come a una specie già morta o in via d’estinzione. E per comprendere, inoltre, la tensione, ma anche la deriva, di un romanzo che deve fare i conti come mai è accaduto prima con una semplificazione inaudita dell’individuo. «Particella elementare», essere biologico più che sociale, l’individuo è sempre più incapace di riconoscere quello spazio interumano senza il quale la nostra società cessa di essere tale, e cioè luogo di «singolarità insostituibili», e diventa un sistema di dominio gerarchico – non molto diverso da quello delle api – sottomesso alla sola legge dell’economia. Se non si comprende la labilità di questa frontiera – risultato del nostro sistema perfettamente liberale e perfettamente privo di vie di fuga – si rischia di fraintendere completamente sia il romanzo sia il suo personaggio protagonista.

Michel è immerso fino al collo nel suo presente, nella meccanica brutale delle relazioni umane che è il suo presente. Gli hanno appena ammazzato il padre e lui non trova di meglio che accendere la televisione e dedicarsi alla visione del suo quiz preferito. Il padre, questo «vecchio coglione» gli ha lasciato una montagna di soldi e Michel, i cui sogni mediocri sono identici a quelli di tutti gli abitanti dell’Occidente, non vede l’ora di praticare la sola religione che all’Occidente resta: il turismo. Michel, d’altra parte, non manifesta nessuna particolare inclinazione. Quando si mescola ai suoi simili si sente sempre a disagio. Coltiva, è vero, una grande passione per il sesso. Ma il sesso, in Occidente, regolato come tutto il resto dall’economia, è una lotta senza quartiere tra ricchi e poveri; l’umanità si sta definitivamente sbarazzando della volontà di procreare; non si desiderano eredi; o, se si desiderano, il desiderio deve conformarsi alle ragioni del mercato, alle possibilità tecniche di riproduzione in laboratorio; nessuno, infine, è più in grado di dare piacere con vero abbandono.
Tutto ciò alimenta un genere speciale di turismo: il turismo sessuale di massa.
La differenza tra Michel e gli altri turisti in viaggio in Tailandia (il viaggio organizzato occupa tutta la prima parte del romanzo) è che egli vive questa situazione come acquisita: per lui la logica del mercato coincide con la logica delle situazioni umane, a tal punto che la sola possibilità di sfuggirne (Michel e Valérie vorrebbero verso la fine lasciare tutto e stabilirsi su un’isola) è di avvantaggiarsi economicamente sulla concorrenza (Vantaggio concorrenziale è il titolo della seconda parte). Da qui l’idea conseguente e irreale di Michel che contagia Valérie e Jean-Yves: far entrare apertamente la sessualità all’interno del circolo economico della domanda e dell’offerta, creare una «piattaforma programmatica» del turismo sessuale nel mondo, sfruttando la miseria sessuale di milioni di occidentali e la fame di chi, non ancora entrato nelle fila del mondo libero, non ha che il proprio corpo come merce di scambio.
Il progetto fallirà a causa di un attentato nel quale Valérie perderà la vita e Michel sarà ferito. Quest’ultimo, ancor più estraneo al mondo e alla specie umana, terminerà i suoi giorni a Pattaya Beach (è il titolo della terza e ultima parte), una delle tante «cloache» esotiche del turismo sessuale dove i rifiuti della «nevrosi occidentale» vanno a morire.

Enigma: l’ipertrofia sessuale non è solo un dato delle nostre società occidentali finalmente emancipate da tutti i tabù, è anche la sola possibilità che Michel intravede per intraprendere la ricerca di ciò che sente perduto: la capacità di «offrire il proprio corpo come un oggetto gradevole», di «dare piacere senza pretendere nulla in cambio». È questo che egli ama in Valérie: «Tu sei normale – le dice Michel – non assomigli per nulla agli occidentali».

E l’amore? Che ne è dell’amore in Occidente se ormai non si riesce ad amare una persona se non per la sua capacità di «offrire il proprio corpo come un oggetto gradevole» ?
Verso la fine della vacanza in Tailandia, Michel, dopo una lunga nuotata, si avvicina a Valérie che sta prendendo il sole sulla spiaggia. 

La prima cosa di cui mi resi conto mettendo piede sulla spiaggia fu che Valérie si era tolta il pezzo di sopra. In quel momento era sdraiata sulla pancia, ma si sarebbe voltata, era ineluttabile come un moto planetario […]. Di seni ne avevo visti parecchi, e parecchi ne avevo accarezzati e leccati; eppure, ancora una volta, rimasi sbalordito. Che avesse un seno magnifico l’avevo intuito; ma la realtà era addirittura migliore di come l’avessi immaginata. Non riuscivo a staccare lo sguardo dai capezzoli, dalle areole; lei non poteva non avvertire il mio sguardo – eppure non aprì bocca, per qualche secondo che mi sembrò molto lungo.

Dopo alcuni annunci, Michel si rende conto per la prima volta che si sta innamorando di Valérie. Tuttavia, il suo sguardo non si rivolge al volto della donna, ai suoi occhi. Sono i suoi capezzoli, le sue areole che gli riempiono l’orizzonte. L’amore che Michel prova per Valérie è ancora attrazione nei confronti di una persona unica? Consiste ancora nel desiderio del corpo di cercare nel corpo dell’altro qualcosa che lo trascenda? L’amore di Michel non ha bisogno dell’immaginazione: la «realtà» dei capezzoli di Valérie supera ogni «immaginazione», ogni possibilità di segnare una frontiera tra la sua anima e il suo corpo. Questa frontiera è diventata invisibile.

L’amore per gli uomini e le donne della specie umana del XXI secolo è, nel migliore dei casi, l’idillio di due esseri, discreti e muti, obbedienti alla leggi naturali della sessualità:

S’inginocchiò sul marciapiede, mi sbottonò i pantaloni, prese il mio sesso in bocca. Mi appoggiai alle inferriate del parco: ero pronto a venire. Valérie allontanò la bocca e continuò a masturbarmi con due dita, mentre infilava l’altra mano nei pantaloni per accarezzarmi i coglioni. Chiuse gli occhi; le eiaculai sul viso. In quel momento credetti che stesse per avere una crisi di pianto; ma invece no, si limitò a leccare lo sperma che le colava lungo le guance.
Post scriptum
Octavio Paz, nel suo saggio La duplice fiamma, diceva che l’erotismo, a differenza della sessualità che comprende tutto il regno animale, è solo umano. L’eros è sessualità socializzata e trasfigurata dall’immaginazione, dalla metafora, dalla poesia. Mi domando: può esistere una società umana in cui la sessualità diventa la sola forma di poesia? Può esistere una poesia non erotica? Un pensiero non erotico?
Nelle pieghe della storia d’amore tra Michel e Valérie ci sono segni sufficienti per pensare che una tale società non solo sia possibile, ma sia già qui.

© Massimo Rizzante

..Il romanzo afferma proprio quello che lei dice: per il protagonista i capezzoli hanno sostituito gli occhi. Gli occhi non sono più lo specchio di un’anima. La frontiera è stata varcata. Anzi, Houellebecq riesce, cosa che per me è la sua più grande scoperta esistenziale, a esplorare la “poesia” che c’è in un rapporto “naturale”, la poesia di una semplice e naturale eiaculazione estiva (questa “naturalezza”, poi, non è così facile da trovare, vista l’estenzione della lotta sociale aanche al campo erotico). Il mondo di Paz non è quello di Houellebecq. Ma questo è un altro discorso. e un punto di domanda.
 
Michel, il protagonista del romanzo, vive nel suo mondo: un mondo dove la lotta per il dominio economico e sociale si è estesa anche al sesso. E ‘ in trappola e dentro questa trappola descrive in modo comico e spesso grottesco i comportamenti sessuali dei suoi simili, come lui presi nella trappola. Hai ragione, in questo modo, li critica, li mette a nudo, ma non per questo smette di essere in trappola. Aspira a una “naturalezza”, che trova in Valérie. Una fuga dalla lotta. Questa fuga dalla lotta è insieme un abbandono della società umana e un abbandono definitivo di quell’idea dell’ “amore” che, volenti o nolenti, è stata alla base della nostra cultura occidentale almeno dal ‘200 e ‘300, con le invenzioni e gli sguardi dei provenzali.

 penso che i romanzi di Houellebecq ti possano aiutare nell’esplorazione.
Un caposaldo è “Pornografia” (1960) di Gombrowicz.
Due altri romanzi che mi vengono in mente: “L’animale morente” di Ph. Roth e “La lentezza” di Kundera.
Poi c’è l’immenso Bolaño: i racconti di “Puttane assassine”, ad esempio.

 Massimo Rizzante, commento a margine della discussione sul saggio pubblicato su  Nazione Indiana


© Massimo Rizzante - "su Nazione Indiana" 


le  opere di Massimo Rizzante

In quella terra quasi di nessuno. Omaggio a G. A. Borgese

Massimo Rizzante

22 marzo 2009

In quella terra quasi di nessuno. Omaggio a G. A. Borgese

di Massimo Rizzante

E Borgese resta in quella terra quasi di nessuno.
Leonardo Sciascia

Quasi tutto è iniziato quando il 22 aprile del 2000 ho letto una lettera inviata al direttore di un giornale italiano firmata dalla famiglia Borgese (la moglie Elisabeth Mann, la figlia Dominica e la nipote Giovanna), nella quale si constatava con stupore che in un libro dello storico tedesco Helmut Goetz, intitolato Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, e recensito pochi giorni prima sullo stesso giornale, il «nome di Borgese» non figurava «tra i professori che rifiutarono di firmare il giuramento di fedeltà al regime fascista».

Sono andato a rileggermi l’articolo. In realtà, oltre al libro di Goetz, la giornalista segnalava l’uscita di un altro volume sullo stesso argomento di Giorgio Boatti dal titolo Preferirei di no. Entrambi gli storici erano concordi sui numeri: nel 1931 su oltre milleduecento accademici italiani soltanto dodici avevano opposto il loro rifiuto al regime. E precisamente: Francesco e Edoardo Ruffini, Fabio Luzzatto, Giorgio Levi Della Vida, Gaetano De Sanctis, Ernesto Buonaiuti, Vito Volterra, Bartolo (o Bortolo) Nigrisoli, Marco (o Mario) Carrara, Lionello Venturi, Giorgio Errera, Piero Martinetti. In effetti, il nome di Giuseppe Antonio Borgese, allora professore di Estetica all’Università di Milano non c’era, e neppure quello di Errico Presutti, professore di Diritto amministrativo e costituzionale a Napoli, che, secondo un firmatario di un’altra lettera al direttore pubblicata accanto a quella della famiglia Borgese, si era anch’egli rifiutato di prestare giuramento.

«L’eroica minoranza» che disse di no al fascismo non era formata da «pericolosi sovversivi», scriveva la giornalista. Erano persone di diversa estrazione sociale: figli di alto-borghesi e di tabaccai. C’erano cattolici, anticlericali, socialisti, liberali, monarchici, ebrei. Certo, nel 1925, molti avevano sottofirmato la Risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani redatta da Benedetto Croce (fra questi Borgese non c’era) e uscita il 1 maggio sul quotidiano «Il Mondo» in opposizione al Manifesto degli intellettuali del fascismo scritto da Giovanni Gentile e pubblicato qualche settimana prima sulla stampa nazionale.

Non erano tuttavia degli attivisti politici. Anzi, nessuno di loro aveva preso consegne né da Togliatti, che con il suo tipico ‘doppiogiochismo’ pensava che i professori rimanendo in cattedra avrebbero svolto un compito molto utile al partito, né da Croce, che incoraggiava i professori a continuare il loro insegnamento «secondo l’idea di libertà», né dalla Chiesa che per l’occasione aveva escogitato uno dei suoi innumerevoli capolavori di dissimulazione, ordinando ai suoi fedeli «di giurare, ma con riserva interiore».

L’argomento del presunto mancato giuramento di Borgese ha cominciato a quel punto a incuriosirmi. Ben presto, dopo alcune ricerche – sul finire degli anni Novanta erano usciti diversi saggi sull’argomento – mi sono reso conto che il ‘caso’ Borgese, come si diceva allora, non esisteva. O meglio: esisteva ed esiste l’oblio dell’opera di Borgese, oblio a cui gli intellettuali italiani rispondevano alla fine del XX secolo con un’interpretazione esclusivamente politica delle scelte e delle esitazioni dell’autore siciliano.

Ecco in sintesi i fatti. Borgese, che già da una decina d’anni si era ritirato dalla vita politica, coglie l’occasione nel luglio del 1931, dopo alcuni chiari segnali di essere persona non grata ai giovani del GUF e alle autorità accademiche fascistizzate, di trascorrere un periodo come visiting professor (e, allo stesso tempo, come corrispondente estero per il «Corriere della Sera») negli Stati Uniti. Quando l’8 ottobre dello stesso anno viene emanata la disposizione che impone ai docenti universitari l’obbligo di giuramento al regime, egli è altrove. Seguono un paio d’anni di incertezza esistenziale, professionale e politica. Ma già il 18 agosto del 1933 egli invia da Boston una lunga lettera a Mussolini (il 17 ottobre del 1934 ne invierà un’altra) dove, oltre a rivendicare il suo operato all’epoca della «questione adriatica» (dopo la prima guerra mondiale Borgese, con Salvemini e Bissolati, fu ritenuto uno dei massimi responsabili delle tesi ‘disfattiste’ e ‘rinunciatarie’ che vedevano schierati da una parte coloro che sostenevano l’autodeterminazione dei popoli e dall’altra i nazionalisti alla D’Annunzio che blateravano di «vittoria mutilata»), chiarisce la sua posizione ideologica fondata sulla dottrina mazziniana, ripresa a suo modo di vedere da Wilson, che sarà alla base del suo pensiero politico universalistico degli anni Trenta e Quaranta. Inoltre, sul giuramento è esplicito: «Il giuramento implicherebbe ormai l’adesione a un ordine, più ancora che politico, filosofico e religioso [...] Giurare fu strettamente proibito dal Cristo (Matth. V, 33-37). Giurare con animo reticente o equivoco, o comunque spergiuro, fu considerato delitto gravissimo, secondo solo al parricidio, da tutta l’antichità pagana».

Da parte di Mussolini e del governo fascista un silenzio interessato. Borgese, che fino a quel momento non era stato considerato un antifascista, non doveva agli occhi del regime diventare improvvisamente un martire dell’antifascismo. Si dovevano poi mantenere buone relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti ed evitare qualsiasi ripercussione internazionale. Non avendo alcuna risposta, Borgese, quando nell’ottobre del 1934 sta per scadere il suo mandato all’estero, invia da Northampton al rettore dell’Università di Milano una succinta quanto esplicita dichiarazione: «Prego la S. V. di voler prendere nota che io non ho prestato, né mi propongo di prestare il giuramento fascista prescritto ai professori universitari – gradisca il cordiale ossequio di G. A. Borgese».

Dov’è il ‘caso’? Dov’è il crimine? Di che cosa è colpevole Borgese? Di essere stato altrove quando un manipolo di persone della sua stessa stoffa, per nulla «sovversive», per nulla politicizzate, si rifiutavano di aderire al regime? O di non aver immediatamente e con eroismo fatto pervenire alle autorità il suo diniego? Perché l’attenzione dei critici non si è rivolta invece ai suoi ideali mazziniani che l’ancoravano all’Italia fin dai tempi della sua rilettura di De Sanctis? O al mito che egli, esule deluso della propria patria, andava erigendo sulle pagine lette e commentate della Divina Commedia? O ancora al fatto, quanto mai concreto, di un uomo di cinquant’anni che, trovandosi in un altro paese, alle prese con un’altra lingua e con altri costumi, aveva dovuto riflettere su alcune tappe della sua vita prima di formulare in piena coscienza la sua decisione senza ritorno?

Borgese a me sembra uno dei tanti casi istruiti da quella diabolica macchina processuale che proprio verso la fine del XX secolo in Italia e in Europa ha cominciato a funzionare, accumulando accuse su accuse nei confronti di molte personalità del passato.

La lista è infinita: Nietzsche, antidemocratico e anticristiano; Heidegger, in odor di nazismo; Henry Miller pornografo e antisemita; Brecht, accusato di plagiare gli amici e le sue amanti; Faulkner, razzista e antifemminista; Thomas Mann, sospettato di essersi infatuato per un certo periodo delle teorie naziste; Ezra Pound, apostata mussoliniano; Max Frisch, antisemita e nazionalista; Céline, antisemita con manifeste fissazioni eugenetiche; Freud, despota e colpevole di aver voluto infliggere all’intera umanità la sua ferita narcisistica; Cioran, fascista della prima ora; Eluard, cantore degli ideali sovietici; Malaparte, mazziniano, nazionalista, fascista, e poi comunista, Kundera, giovane comunista e al contempo delatore anticomunista…

La regola d’oro dei pubblici accusatori di questo enorme processo consiste nel criminalizzare la vita degli autori al fine di non permettere che le loro opere vengano lette e giudicate in modo autonomo. La criminalizzazione, naturalmente, è fatta a fin di bene, ovvero è condotta per farla finita una volta per tutte con i pregiudizi del passato. Coloro che la compiono, infatti, non si sentono parte in causa. Sono arroccati nel presente. E dall’alto della loro presunta morale possono far piazza pulita di un’epoca storica. La memoria rivendica i suoi diritti sulla biografia degli autori, con tutto il loro carico di contraddizioni, irrazionalità, ambiguità ed errori, ma allo stesso tempo lascia ai lettori del futuro una «terra quasi di nessuno», una terra devastata, la terra delle opere d’arte e del pensiero che hanno subito la criminalizzazione dei loro autori.

Così, nel momento del bilancio secolare, molti critici italiani hanno preferito criminalizzare i silenzi dell’esule Borgese nei confronti del regime fascista piuttosto che leggere le sue opere.

pubblicato su Nazione Indiana   22 marzo 2009



a cosa importante per me in questa sede è che il cosiddetto “caso” Borgese, quando è sorto, verso la fine degli anni Novanta, è diventato tale solo, ripeto solo, a causa delle sue esitazioni politiche. Volevo semplicemente dire che la riduzione politica, ideologica di un’autore è sempre all’opera, nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle e ancor oggi: eserciti di ragni tessono le loro tele di giudizi politici sulla vita di un autore fino a rendere la sua opera un’inutile appendice. E c’è qualcosa di ancor più generale: il diktat morale della memoria, imposto dovunque dai media, tende a criminilizzare il passato. Del resto, è del tutto naturale. I media trattano il passato storico come se fosse il loro regno, ossia l’attualità, e nell’attualità mediatica un fatto per esistere deve trasformarsi in un fatto di cronaca nera, trasformarsi in un fatto delittuoso: tutto ciò che non è criminale tende, nell’attualità, a non esistere. Così, spesso, ciò che resta è la biografia criminalizzata degli autori.
Infine, leggere “Rubè”, penso sia ancora utile. Ma ancor di più cogliere il presente che è incastonato in ogni passato.

 Massimo Rizzante, commento a margine della discussione sul saggio pubblicato su  Nazione Indiana



© Massimo Rizzante - "su Nazione Indiana" 


le  opere di Massimo Rizzante

La critica all’epoca della fine dell’opera. Omaggio a Roberto Bazlen

  Massimo Rizzante

18 marzo 2009

La critica all’epoca della fine dell’opera. Omaggio a Roberto Bazlen

di Massimo Rizzante
Molti anni fa frequentavo a Parigi alcuni corsi di letteratura tenuti da rispettabili ricercatori. Il problema era che a ogni lezione si presentavano nuovi innesti che producevano a loro volta sensazionali incroci: socio-semiotica, semantica della ricezione testuale, ermeneutica del segno letterario, epistemologia della narrazione. Il mio entusiasmo scemava tanto quanto l’opera risultava introvabile.

Non andò molto meglio quando mi ritrovai con un altro centinaio di studenti alla corte di un importante teorico.

lo stato delle cose in occidente II (Max rizzante)

    Massimo Rizzante -

14 gennaio 2009

parte I                       ||                   parte II 

Lo stato delle cose in Occidente II

di Massimo Rizzante


«All’inizio il dono dell’arte si manifesta attraverso la malattia. A volte mi sento una creatura in cui coesistono innumerevoli spiriti: l’artista 1, l’artista 2, l’artista 3…»

Di ritorno dal Sud Tirolo, trovo queste parole registrate da una voce umana nella mia segreteria telefonica.
La riconosco: è quella di Nedko Serbajenov, un «essere scelto», un «eletto», un «veggente», un «pittore» sintonizzato con ’universo. Ogni sua opera possiede un suo stile. Non ho dubbi: Serbajenov rappresenta a mio avviso l’ultima frontiera dell’arte visiva: nessuno, neppure Serbajenov, è in grado di stabilire quando il suo essere sarà sequestrato da uno dei suoi innumerevoli spiriti. Chi sarà l’autore del suo prossimo quadro? L’artista numero 1? L’artista numero 2? O l’artista numero 3, 4, 5…? Senza contare le combinazioni possibili tra i singoli elementi di ogni artista con quelli di tutti gli altri.
Quando si contempla una delle sue tele, si approda in un isolotto lontano da ogni arte concettuale dei nostri giorni: da tutta questa diarrea artistica che ha trasformato il talento (talant, in russo) in un marchio scioccante e ripetitivo il cui solo senso coincide con il suo valore commerciale: tutti questi piccoli Damien Hirst, tutti questi geni del box-office del terrorismo visivo.
Serbajenov non si ripete mai. Non può farlo. E come potrebbe? La collezione di spiriti che si dibattano nella sua anima è infinita e sconosciuta.
Ho detto «anima», ma la parola è inadeguata. Il dono dell’arte, secondo Serbajenov, non ha nulla a che vedere con le nostre profondità. Egli, in realtà, subisce uno slittamento di ciò che nel nostro linguaggio puerile chiamiamo «stato di coscienza». È precisamente in quel momento che uno dei suoi «antenati» lo trasporta sotto la sua ala e lo separa dal mondo di quaggiù. La pittura, la poesia, non sono altro che una manifestazione sciamanica. Lo scopo dell’arte non è quello di scioccare o di ferire, ma di placare quella massa confusa di tristezza e di dolore che ogni persona sente mordere nelle fibre del suo corpo. Il corpo visibile e il «corpo invisibile», come dice Serbajenov. È quest’ultimo che ci lega ai nostri «antenati»: la vita di un uomo incomincia prima della sua nascita e non termina con la sua morte. Ciò significa che ogni uomo è sempre circondato da una grande aureola di corpi invisibili che fluttuano come foglie autunnali nel vortice del tempo.
Lo scopo sciamanico di ogni artista del XXI secolo è perciò quello di prender su di sé la sorda sofferenza di ogni uomo, diventare il catalizzatore del Male accumulato nel corso dello sviluppo diabolico della storia del XX secolo ed educarsi a entrare in contatto con i corpi invisibili dei suoi antenati. Pena: la morte.
Serbajenov è nato nella Siberia estremo-orientale alla fine degli anni trenta del secolo scorso, precisamente a Jakutsk, capitale della Jakuzia. Suo padre era un fisico delle particelle elementari. Sua madre, Alejandra Pozharnik, era un’ebrea russa. La sua famiglia, allo scoppio della rivoluzione d’Ottobre, era emigrata in Argentina, a Buenos Aires, dove Alejandra è nata nel 1919. Dopo aver studiato alcuni anni con il pittore e poeta Juan Soro de Planas, nel 1937, spirito libero e nomade, decide di conoscere il paese dei suoi antenati visibili e invisibili.
Nel 1938, in uno dei periodi più cupi delle purghe staliniane, sbarca a Vladivostok. Qui, durante una serata letteraria a casa del poeta Piotr Tvardoskij, incontra Boris Serbajenov, amico d’infanzia di Tvardoskij e suo fratello astrale (erano nati nello stesso giorno e alla stessa ora), che lavorava in una centrale nucleare. I due, dopo neppure un mese, a causa di una soffiata di un collega di Boris sulle «ambigue» origini di Alejandra, sono costretti a fuggire da Vladivistok. Alla fine di un viaggio inenarrabile, raggiungono nel marzo del 1938 Jakutsk, dove viveva uno zio di Boris, un discendente di una lunga genealogia di sciamani della regione. L’anno seguente, in una cantina, verrà alla luce Nedko.
Ho conosciuto Serbajenov dieci anni fa. Viveva già da tempo a New York. Era diventato ricco. Fra i suoi adepti c’erano molti oligarchi della nuova Russia di Putin, i quali per avere i suoi favori gli inviavano una volta al mese un jet privato. Nedko, con il suo immancabile blazer blu, saliva la scaletta lentamente. Non era mai in ritardo. Non aveva perso tuttavia la sua scorta di umanità: un giorno alla settimana era consacrato a ricevere nel suo ufficio-atelier di Manhattan ogni genere di paria e di apolidi che vivevano come vermi nella polpa putrida della Grande Mela. E non dimenticava neppure le babuske di Brooklin, che non avevano mai appreso la lingua dei «nemici del popolo».

È stato a Parigi. Saint-Germain-des-Près. Ero al bistrot “Bonaparte” con Pascale Delpech, la moglie francese di Danilo Kis, l’ultimo scrittore jugoslavo, morto nel 1989, un mese prima del crollo del muro di Berlino.

Pascale, a quell’epoca, aveva già tradotto tutta l’opera del marito. Faceva la spola tra la Francia e Pristina, la capitale del Kosovo, dove lavorava come interprete presso il distaccamento delle Kosovo Security Forces. Le aveva dato appuntamento per discutere la traduzione italiana di una raccolta di saggi di Danilo, Homo poeticus. Durante la conversazione, un uomo dai capelli bianchi e arruffati, che contrastano con il suo impeccabile abito blu, si avvicina al nostro tavolo e si accomoda. Si presenta come «un artista di origine russa». Io e Pascale ci guardiamo un istante negli occhi. La conversazione riprende. Afferrato il nostro argomento, «l’artista di origine russa» tenta di estrarre dalla tasca della sua giacca un enorme taccuino, così smisurato che per estrarlo è costretto ad affondare la mano nelle più profonde profondità. Finalmente, dopo aver strappato la tasca, ce lo mostra trionfante: «Consigli utili per ogni evenienza!». 

«Non visitare le fabbriche, i kolchoz, i cantieri: il progresso è ciò che non si vede a occhio nudo»
«Non occuparti di economia, di sociologia, di psicanalisi»
«Sii consapevole che l’immaginazione è sorella della menzogna, e perciò pericolosa»
«Non credere ai profeti, poiché tu sei un profeta»
«Sappi che quello che non hai detto nei giornali non è perduto per sempre: è torba»
«Non esaltare il relativismo di tutti i valori: la gerarchia dei valori esiste»
«Non creare nessun programma politico, non creare nessun programma: tu crei dal magma e dal caos del mondo»
«Non lasciarti persuadere di non essere nulla e nessuno: tu hai visto che i principi hanno paura dei poeti»
«Quando senti parlare di “realismo socialista”, rinuncia a ogni discussione»
«Chi afferma che la Kolyma è altra cosa rispetto a Auschwitz, mandalo al diavolo».

Io e Pascale ci guardiamo un’altra volta negli occhi. Restiamo di stucco: quello che Serbajenov nel suo francese un po’ metallico ha appena finito di snocciolare è una scelta dei Consigli a un giovane scrittore scritti in serbo-croato da Danilo Kis nel 1984, tradotti da Pascale nel 1992 e pubblicati nella versione francese di Homo poeticus nel 1993 da Fayard.

Un anno dopo ero a Boston, a casa di Keith Botsford, colui che mi aveva iniziato all’opera di Saul Bellow e che una dopo l’altra, come fossero state ostie consacrate, aveva posato sulla punta della mia lingua queste parole immortali: «Nature cannot suffer the human form. The visible world sustains us until life leaves, and then it must destroy us» (La Natura non può tollerare la forma umana. Il mondo visibile ci sorregge finché la vita ci lascia, poi ci deve distruggere).

Una sera di novembre, verso la fine del mio soggiorno, Keith era al pianoforte, un magnifico Bösendorfer a coda modello Chippendale. La testa leggermente reclinata, stava eseguendo la Sarabanda della Suite inglese n. 5 di J. S. Bach. Mentre lo ascoltavo, sfogliavo distrattamente l’inizio del suo romanzo Collaboration:
Nature has not primed man or beast for losing. It watches the predator, not the prey. Examples of losing abound: being callously rejected by the man one loves, being beaten senseless by thugs, having one’s soul-destroyng secrets laid out in the public prints, learning that one’s children connive at your early death…

(La Natura non ha programmato l’uomo o l’animale alla perdita. Si preoccupa del predatore, non della preda. Esempi di perdita abbondano: c’è chi è respinto senza pietà da qualcuno che ama, chi è ucciso senza alcuna ragione da un invasato, chi vede i propri segreti più intimi e inconfessabili esposti sulle pagine della stampa, chi impara che i figli possono convivere con la sua morte precoce…).

Il vecchio telefono di casa Botsford squilla. Keith risponde. Alla fine della breve conversazione in russo, sfiorando il corpo del suo pianoforte, m’informa: «Era Serbajenov. Vuole vederti domani per colazione all’“Anthony Pier 29”».

«Allora, Nedko, raccontami com’è nata quella che una volta hai chiamato la tua “vocazione sciamanica”…».
«Non ci si meraviglierà mai abbastanza dell’onnipresenza della natura nella Siberia in cui sono nato: cielo, uccelli, alberi, animali di tutte le specie, la notte, e la neve… Era inverno. Avevo dodici anni e passeggiavo con mio zio Ivan in un bosco di cedri. D’un tratto mi sono ritrovato con il volto affondato nella neve: il suo biancore accecante tempestato da lampi di sole… «È bene che testa e cuore s’allontanino/ Dalla notte che tace/Ho visto il mattino di neve/Dalle luci gialle, come un tempo/Un cesto di frutti amari/ O erano bocche di leone?», canta il nostro poeta…
Un medico aveva diagnosticato una crisi epilettica. Mio zio mi ha accompagnato da un vecchio sciamano della sua tribù. Lo sciamano, vestito di piume d’uccello, ha acceso un fuoco, alimentandolo con la corteccia della betulla che s’innalzava al centro della sua tenda: simbolo dell’albero cosmico che congiunge i tre mondi. Poi mi ha piantato in gola un tubo di vetro e ha aspirato dal mio corpo un liquido nero: lo spirito maligno che mi possedeva».
«E il rimedio è stato efficace?», gli domando.
«Posso solo dirti che in quel momento ho compreso di essere stato scelto. Le crisi si sono manifestate ancora diverse volte, ma con il trascorrere degli anni ho imparato a governarle. Diciamo che ho imparato a smembrare e a ricomporre il mio corpo. Prima di restituirmi la mia forma originaria, il “Creatore ozioso”, che attraverso il vecchio sciamano, amico di mio zio Ivan, aveva cacciato lo spirito maligno, ha deposto in me un dono: un diamante».
«Il diamante dell’arte?», gli domando, mentre fuori comincia a nevicare sull’Atlantico.
«Il diamante della malattia, mio caro, di cui l’arte non è che una manifestazione, Il mio compito è quello di guarire gli altri. E per guarirli è necessario possedere il diamante della malattia, cioè il dono di catalizzare i mali degli altri, di veder i loro mali riflessi nel prisma sacro del mio diamante, di imprigionarli nella sua luce, di trasformarli grazie alla sua luce… L’arte, in questo Occidente spogliato di mistero, ha bisogno di risvegliarsi ai sogni. E il solo modo di risvegliarsi ai sogni è quello di rivelare il sonno nel quale siamo immersi. I nostri sensi dormono, mio caro, raggomitolati come cani bastardi impauriti e senza padrone agli angoli di tutte le strade di questa città in decomposizione e senza vie d’uscita che chiamiamo “intelligenza”. Ma l’intelligenza è solo un ingrediente, non la zuppa. Conosco diverse specie di uccelli in Siberia che possiedono un’intelligenza superiore a quella di molti miei amici russi che continuano fraternamente ad ammazzarsi per un seggio alla Duma».
«Lo sai, di recente ho letto L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (The Descent of man and Selection in Relation of Sex, 1871) di Charles Darwin. Anche lui, questo infaticabile uomo di scienza, ha dovuto ammettere che uno dei nostri antichi progenitori aveva imparato a utilizzare la voce e a emettere il suo primo canto imitando un fringuello. Sembra che questa attitudine imitativa abbia influenzato il suo cervello a tal punto da produrre la prima formazione del linguaggio articolato. I fringuelli possiedono la nostra stessa struttura ritmica, capisci? Senza ritmo, nessun linguaggio. Senza poesia, nessuna prosa. Darwin, naturalmente, nel suo libro non si domanda per quale motivo l’uomo civilizzato non riesca più a comprendere il linguaggio del fringuello, cioè, in fondo, di uno dei suoi modelli ancor oggi più imitati (come ti spieghi, se no, il nostro attuale tasso di inquinamento comunicativo!). Ma credo che tu lo conosca: l’uomo non è più in contatto fisico con l’universo. Pensa che tutto ciò che è fuori di lui, alberi, animali, pietre, fringuelli, sia una proiezione di se stesso, del suo intellectus…».
«Quello che dici mi fa venire in mente Nadezda Stepanova, un’affascinante sciamana siberiana, nata sulle rive del lago Bajkal, il nostro “mare”. L’ho conosciuta grazie a mia madre. In seguito alle campagne antireligiose di Stalin, i suoi genitori, per timore di una sua deportazione in qualche campo della Kolyma, le hanno proibito di manifestare il suo dono. L’ho incontrata all’inizio degli anni ottanta in un asilo per alienati. Il dono della malattia, che l’essere scelto dagli spiriti protettori degli antenati deve necessariamente attraversare, si era trasformato a causa della proibizione in una malattia vera e propria, un cancro. Le avevano asportato un seno. La vedevo aggirarsi nei corridoi poco illuminati dell’edificio, semivestita, il cranio rasato: mostrava con noncuranza una grande cicatrice rossa sulla parte superiore del torace.
“Mi riconosci? – le ho domandato al momento della nostra breve conversazione. Sono il figlio di Alejandra, la porteña. È grazie alle tue visioni che ha incominciato a dipingere…”. La pelle del suo corpo nudo emanava una luce gialla, come quella delle bocche di leone della mia infanzia semisepolta dalla neve.
“Certo, Nedko. Il fatto di essere pazza non mi impedisce di ricordare. Ne vuoi una dimostrazione? “Lei è nuda nel paradiso/che è diventata la sua memoria/Lei ignora da dove vengono le visioni/Lei non ha paura di saper nominare/quello che non esiste/Di spiegare con parole di questo mondo/che da me partì una nave portandomi via”. È una delle poesie che tua madre mi ha recitato in spagnolo qualche giorno prima di suicidarsi, la notte del 26 settembre 1972. Il 26, per la Cabala, è uno dei numeri nei quali si nasconde Javeh, mentre il numero 9 è sinonimo di spiritualità o di sessualità sublimata. Il numero 19 – che si ottiene sommando i numeri che formano la data della sua morte –, secondo l’antico sapere sciamanico, è il numero che rappresenta la Vita. Gli scienziati del XX secolo, che arrivano sempre con secoli di ritardo, hanno scoperto che dal momento dell’inseminazione il periodo di gravidanza ha la durata di circa 280 giorni, o più precisamente di 266 giorni o 38 settimane: 266 e 38 sono multipli di 19. Senza contare che il testosterone, secretato dal tessuto interstiziale dei testicoli, è uno steroide a 19 atomi di carbonio. Non abbiamo bisogno dell’intelligenza, Nedko».
«È ancora viva?», gli ho chiesto. Fuori la nevicata imperversava. In mare una nave da carico sembrava aver messo radici sotto la coltre bianca.
«Non saprei. Ho sentito dire che agli inizi del periodo della Perestrojka Nadia guidava il movimento sciamanico a Mosca. Sotto l’ala dei suoi dei protettori e di qualche padrino politico ne resuscitava i rituali che in Russia per settant’anni non erano più stati celebrati. Era diventata anche Professore emeritus di sciamanesimo all’Accademia della Cultura di Ulan. In una delle sue conferenze – che ho potuto leggere grazie a una delle mie allieve, la figlia di una discendente di Madame Helena Petrova Blavatskij, la fondatrice della Società teosofica – , tenuta all’Istituto delle Religioni Liberate della capitale, affermava che nella nostra epoca gli sciamani non possono più operare in segreto. È venuto il tempo, diceva, che essi condividano il loro dono. Anch’io, per questa ragione, mi dedico a insegnare ai miei adepti come instaurare un legame con i loro spiriti protettori, integrando questa conoscenza con alcune pratiche di levitazione allo scopo di apportare la chiarezza e la forza alla vita di ogni uomo. È vero che nella maggior parte dei casi fallisco: solo pochissime persone si ammalano di quella malattia sciamanica che è il dono supremo (non dimenticare che per rivelarsi questo dono deve riposare come un diamante grezzo nel grembo genealogico). Tuttavia, grazie al mio lungo tubo di vetro, riesco talvolta a svuotarli di tutta la loro individualità maligna, a estirpare dalle loro profondità inesistenti quella superstizione chiamata “io” e così facendo li guarisco, cioè li preparo al risveglio dei sensi e dei sogni: come tanti sterminati prati siberiani in attesa della primavera. C’è chi al momento del risveglio diventa fisico delle particelle elementari, chi naturopata, chi campione di scacchi, chi intraprende il cammino dell’arte, soprattutto della pittura: dipingono gli spiriti che sono dappertutto fuori di noi e che gli uomini, di solito, raggomitolati come cani bastardi e addormentati a tutti gli angoli della loro cosiddetta vita cosciente, non vedono mai. Alcuni di loro hanno appena costituito un movimento artistico. La loro prima uscita alla Bennet Strett Gallery di Atlanta ha riscosso un certo successo. Il critico Joseph W. Raphelsson, di origine islandese, che ha fatto conoscere agli americani il più grande artista islandese del XX secolo, Jóhannes S. Kiarval, senza dubbio un artista sciamano – basta osservare il suo Syn vid Selfljót (Visione sul fiume, 1950) per convincersene –, nella sua presentazione al catalogo (Mouth and Foot Painting Artists, Atlanta, 2007) ha definito la nuova corrente “Shamanic Informal Art”».
Da quell’incontro a Boston non ho più rivisto Nedko Serbajenov. Ricevo di tanto in tanto delle cartoline postali con i suoi disegni, “Il dio protettore”, “L’albero dalle piume d’uccello”…, delle chiamate telefoniche nella notte – Nedko se ne infischia del fuso orario – , delle e-mail dove mi tiene al corrente dei suoi spostamenti nel mondo di quaggiù – di quelli negli altri mondi può parlarne e scriverne soltanto in lingua buryat – o dei nuovi libri sullo sciamanesimo – Daniel C. Noel,The Soul of Shamanism: Western Fanatasies, Imaginal Reaities; Thomas Dale Kowalskij, Shamanism: as a Spiritual Practice for Daily Life, ecc. Condividiamo un amore smisurato – smisurato come il suo carnet parigino pieno di consigli – per Mircea Eliade. Lo slancio verso la «realtà transumana» che, secondo Eliade, impregna il gesto più banale di ogni civiltà, così come agisce da medicamento segreto in ogni opera d’arte, è ciò che ci unisce, me e il mio amico Nedko. E anche un’altra convinzione: «Ogni verità non scompare, ma si degrada trasformandosi in superstizione». Solo che, sempre secondo il maestro Eliade, di solito quello che gli uomini chiamano «superstizione» non è che una verità più profonda e dimenticata che non appartiene a nessun individuo.

«Allora, Nedko, io e te non siamo che un insieme di ricordi immemoriali e niente ci appartiene, neppure quel tuo diamante, la cui luce riflessa, dopo aver attraversato tundre glaciali e cumuli di morti, ti è giunta dalla notte dei tempi».

«Forse sì – immagino che mi risponda. Ognuno di noi è un tubo di vetro attraverso cui tutti i suoi morti respirano, restano a galla, blaterano, esprimendo così tutto quello che hanno taciuto per pudore, ignoranza o soltanto per mancanza di vanità».

parte I                       ||                   parte II 

pubblicato su nazione indiana  14 gennaio 2009

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