martedì 15 dicembre 2009

L’ultimo Bolaño, innamorato di Céline

Giordano Tedoldi -   Sottoosservazione's blog - 15 dicembre 2009


L’ultimo Bolaño, innamorato di Céline

 Dalla morte avvenuta nel 2003, la considerazione critica e l’interesse per la vita e l’opera dello scrittore Roberto Bolaño, nato nel 1953 a Santiago del Cile, continua a intensificarsi. L’autoritratto dello scrittore, che pure detestava il genere autobiografico sopra ogni cosa, si precisa con la recente pubblicazione delle sue ultime interviste, uscite in Inghilterra per i tipi dell’editore Melville House con il titolo Roberto Bolaño: The Last Interview, frutto delle conversazioni con la giornalista Monica Maristain su e giù per l’America latina, mentre Bolaño, consapevole della fine imminente per una grave patologia al fegato, portava a compimento il gigantesco 2666 (da poco pubblicato in Italia in una nuova edizione da Adelphi) il romanzo estremo, riassuntivo di tutta la sua poetica.


 Desiderio segreto. Nelle interviste con la Maristain dichiarava: «Avrei preferito fare il detective piuttosto che lo scrittore». Ma nel 2002, con la giornalista Carmen Boullosa per la rivista Bomb, deponeva la maschera surreale e irriverente per rivelare i suoi gusti e le sue idiosincrasie letterarie: «Sono molto interessato alla letteratura americana del 1880, specialmente Twain e Melville. E la poesia di Emily Dickinson e Whitman. Mentre da adolescente ho attraversato una fase in cui leggevo solo Poe». E a gennaio Adelphi pubblicherà Tra parentesi (pp. 320, traduzione di Maria Nicola), antologia di interventi per giornali e riviste, saggi, discorsi, in cui Bolaño scrive:  «Tutti gli scrittori americani, inclusi quelli che scrivono in spagnolo, a un certo momento delle loro vite colgono all’orizzonte i bagliori di due libri, che sono due strade, due strutture e due argomenti. A volte: due destini. Uno è Moby Dick di Melville e l’altro Le Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain».  L’ammirazione per Twain è così grande che aggiunge: «Tutto quello che hanno scritto Faulkner e Hemingway, e tutto quello che avrebbero voluto scrivere, può stare in una pagina di Huckleberry Finn». Mentre William Bourroughs «è un santo che ha avvicinato tutta la malvagità del mondo perché aveva la delicatezza e l’imprudenza di non chiudere mai la porta». Ma il detective mancato che era in lui lo spingeva a divorare anche la letteratura hard-boiled di Raymond Chandler e Dashiell Hammett, mentre nella fantascienza di Philip K. Dick vedeva «un profeta all’opera».

 In un saggio dal titolo Consigli sull’arte di scrivere racconti Bolaño elabora un manuale in dodici punti. Al numero quattro: «Occorre leggere Juan Rulfo e Augusto Monterroso». Monterroso (1921-2003) era uno scrittore guatemalteco famoso per il racconto Il Dinosauro, il cui testo completo è: «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora là». Lo stesso Monterroso ricordò che i critici lo attaccarono, dicendo che Il Dinosauro non era un racconto e lui rispose: «No, infatti, è un romanzo». Ma torniamo al manuale di scrittura di Bolaño. Al numero dieci: «Pensa bene al punto nove. Pensa e riflettici. Hai ancora tempo. Pensa al punto numero nove. Nella misura in cui ti è possibile, fallo in ginocchio».

 Grande amore anche per la letteratura francese, da Voltaire ai surrealisti. «Mi piace Pascal, il suo modo di affrontare la morte, la sua lotta contro la melanconia. E l’ingenuità utopistica di Fourier. E tutta la prosa, tipicamente anonima, degli scrittori di corte, anatomisti, manieristi, che conduce alle interminabili caverne del Marchese de Sade». Il Dizionario Filosofico di Voltaire è giudicato «uno dei pochi libri che mi hanno cambiato la vita». Mentre tra i moderni l’opera più importante è Nadja di André Breton, il cui manifesto surrealista ispirò a Bolaño il proprio «manifesto infrarealista ».

 Radicale il giudizio su Céline: «È l’unico autore di cui penso che sia stato al tempo stesso un grande scrittore e un figlio di puttana. Proprio un essere umano abietto. Si stenta a credere che i suoi momenti più gelidamente ripugnanti sembrino coperti da un’aura di nobiltà, il che si può attribuire solo alla potenza delle parole». Bolaño era anche un vorace lettore di filosofia, specialmente i lapidari aforismi di Wittgenstein (il cui Tractatus giudicava tra i 5 libri più importanti di sempre) e del misconosciuto filosofo tedesco del ’700 Georg Christoph Lichtenberg, le cui massime «giocano con l’umorismo e la curiosità, i due elementi più importanti dell’intelligenza. I suoi aforismi anticipano Kafka e la migliore letteratura del ventesimo secolo». E c’è da credergli, incontrando perle come questa: «Non c’è merce più strana dei libri: stampati da gente che non li capisce, venduti da gente che non li capisce, rilegati e recensiti e letti da gente che non li capisce, e ora persino scritti da gente che non li capisce». Non per caso Bolaño lo definiva l’autore «di un capolavoro di commedia nera».

 Nazisti americani. In un’intervista al giornalista spagnolo Eliseo Álvarez, Bolaño svela anche la genesi di uno dei suoi libri più bizzarri, la falsa enciclopedia intitolata La letteratura nazista in America (edita in Italia da Sellerio), galleria di scrittori immaginari dell’ultradestra, lontani dall’essere degli Hamsun o Céline, bensì «mediocrità, illusi, narcisisti, snob, opportunisti e criminali. Il libro deve molto a Il Tempio degli Iconoclasti di Rodolfo J. Wilcock, scrittore argentino che scrisse il libro in italiano. A sua volta, Wilcock è indebitato con Storia Universale dell’Infamia di Borges. Che a sua volta ha un debito con uno dei suoi maestri, Alfonso Reyes, lo scrittore messicano di Ritratti Reali e Immaginari. Un gioiello. E il libro di Alfonso Reyes è derivato da Vite Immaginarie di Marcel Schwob, che è il punto da cui tutto discende». Una fuga di specchi vertiginosa, che non si sa se sia essa stessa un riflesso in uno specchio per ipnotizzare l’intervistatore.

 Il silenzio fu un’altra ossessione di Bolaño, che si soffermò sui “silenzi letterari”, di cui il campione fu Franz Kafka: «Quando chiede che i suoi scritti vengano bruciati, Kafka sceglie il silenzio, opta per il silenzio letterario, il tutto in un’epoca letteraria. Il che vuol dire che egli era un uomo profondamente morale. La letteratura di Kafka, oltre a essere la migliore opera, il più alto risultato letterario del Ventesimo secolo, è di un’estrema moralità e di un’estrema delicatezza, cose che di solito non stanno bene insieme».

 Un silenzio letterario è anche quello di Arthur Rimbaud, che smise di scrivere a vent’anni per una carriera come trafficante d’armi: «Probabilmente Rimbaud sarebbe riuscito scrivere cose molto migliori, a portare le sue parole ancora più in alto, ma il suo è un silenzio che spinge gli Occidentali a interrogarsi». E rimpiange la scomparsa prematura del drammaturgo Georg Büchner: «Morì a 24 o 25 anni, e lascia tre o quattro opere teatrali, capolavori. Uno è Woyzeck, un capolavoro assoluto… cosa sarebbe accaduto se fosse vissuto ancora?» Domanda che si potrebbe volgere anche al caso di Roberto Bolaño, scomparso a 50 anni, anche se per lui, quello del silenzio letterario, è un rischio certamente scongiurato.
Giordano Tedoldi



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