Massimo Rizzante
18 marzo 2009La critica all’epoca della fine dell’opera. Omaggio a Roberto Bazlen
di Massimo RizzanteMolti anni fa frequentavo a Parigi alcuni corsi di letteratura tenuti da rispettabili ricercatori. Il problema era che a ogni lezione si presentavano nuovi innesti che producevano a loro volta sensazionali incroci: socio-semiotica, semantica della ricezione testuale, ermeneutica del segno letterario, epistemologia della narrazione. Il mio entusiasmo scemava tanto quanto l’opera risultava introvabile.
Non andò molto meglio quando mi ritrovai con un altro centinaio di studenti alla corte di un importante teorico.
Le sue lezioni erano un monumento neoclassico eretto con scrupolo aristotelico all’arte della distinzione: lunghe liste irreprensibili di criteri, regimi, modalità, frequenze, livelli. Un sorriso da totem ipnotico gli disegnava il volto ogni qual volta celebrava il suo gusto millimetrico per le risorse etimologiche della terminologia. Ma quello che soprattutto mi colpì era il silenzio: il silenzio siderale del pubblico. Qualche colpo di tosse. Una ragazza che si soffiava il naso cercando di non farsi notare. Ricordo il suono provocato da una penna caduta fragorosamente al suolo, e che nessuno osava raccogliere. Ricordo anche che alla seconda lezione mi vennero in mente le parole di Valéry sulla noia:
“Sentimento profondo e profondamente legato all’esercizio e alla verità della letteratura, sebbene le regole della buona educazione impediscano di riconoscerlo”.
I miei seminari di gioventù non furono in ogni caso del tutto inutili. Anzi, ho imparato molto durante quell’epoca. Ho compreso in modo definitivo tutto ciò che non ero, tutto ciò che non amavo e il valore di ciò che avrei potuto amare. Fu a quell’altezza del mio incerto percorso che Bobi Bazlen si rivelò come un punto cardinale.
Che cosa devo a questo raffinato e imprendibile scrittore di note e lettere editoriali, a questo segugio di lungo corso della letteratura mondiale?
Diverse regole di navigazione critica per solcare il mare limaccioso della fine dei Tempi Moderni.
La sua chiaroveggente non collaborazione con i becchini dell’arte moderna, ad esempio.
Nella non opera critica di Bazlen si cela tutta la mancanza di fiducia nella sua epoca, un’epoca che lui chiamava di «epilogatori»: «C’è l’epoca dei prologhi, l’epoca dell’opera, l’epoca degli epiloghi», diceva. In una lettera del 1949 confermava di vivere in un’epoca di «moribondi» con queste parole: «Tutto quello che è stato fatto dalle due generazioni successive (al 1885) è frutto, mi sembra, d’un malinteso umanistico, ed è fatto senza necessità». Quanto a lui, Bazlen si sentiva qualcuno che era nato dopo l’epoca delle opere. «Fino a Goethe: la biografia assorbita dall’opera. Da Rilke: la vita contro l’opera». Le generazioni successive, spinte da «un malinteso umanistico» non hanno fatto che riepilogare le precedenti, procedendo verso l’epilogo della modernità. L’epilogo della modernità è la fine dell’opera? È questo che Bazlen adombra di soppiatto?
Roberto Calasso, nel suo saggio introduttivo agli Scritti di Bazlen, afferma che nell’epoca moderna due concezioni dell’opera vengono a scontrarsi: la prima, che pensa l’opera come «trasformazione di un materiale», si oppone alla seconda, che concepisce l’opera come «proiezione di un oggetto». Se fino alle soglie del XX secolo queste due concezioni erano «connesse», poi si scindono, entrambe destinate allo scacco:
“L’opera come trasformazione di un materiale non dovrebbe fissarsi mai; l’opera come proiezione, una volta caduto il potere vincolante del canone della proiezione – e cioè la retorica – resta affidata alla volontà del singolo, emancipato e misero, la trappola più temibile”.
Se non si sopporta l’eterna incompiutezza dell’opera né si vuole cadere nella trappola di un’illusoria emancipazione dalla tradizione, non resta che compilare note a piè di pagina, esimersi dall’ingrossare i volumina delle non opere.
Un’altra attitudine che ammirai fin dall’inizio in Bazlen fu la sua sovrana diffidenza nei confronti di ogni teoria.
La sua critica rivendica il proprio statuto etimologico: fare critica significa scegliere, innescare una crisi in chi sceglie, lottare perché l’opera sia riconosciuta come luogo di scelta.
Massimo Cacciari ha caratterizzato la «critica» di Bazlen come «estranea sia al paradigma intenzionale riflettente che alla pseudo-creatività dell’immedesimazione nell’opera», affermando che quello di Bazlen non era un «magistero interpretativo», ma «lettura».
La lettura per Bazlen, infatti, è disposizione assoluta, curiosità cosmopolita, orecchio interno. Prima di essere un’avventura della conoscenza, e forse ancor più che questo, è creazione di un vuoto e di un silenzio per la conoscenza.
Ricordate le sue parole: «Ora si nasce morti […] alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi»? La vita affluisce a poco a poco nell’individuo man mano che l’esercizio critico si perfeziona. Non è un caso che Bazlen amasse soprattutto una qualità: lui la definiva la «primavoltità».
Per questo le ragioni della sua avventura critica si legano indissolubilmente a quelle della sua avventura umana: nell’epoca della fine dell’opera Bazlen ha con un sublime gesto di mistificazione fatto perdere le sue tracce. Egli vide con largo anticipo che nell’epoca della fine dell’opera sarebbe sopravvissuta soltanto la caricaturale immortalità della biografia degli autori.
La fine dell’opera è l’inizio dell’estetizzazione della biografia: un’altra premonizione che traspare dalle pagine di Bazlen. Anche se il suo carattere reticente potrebbe far pensare a un uomo avviluppato dal sottile velo dello snobbismo, nulla di più estraneo a Bazlen del Kitschmensch. A Bazlen non interessava la bellezza per la bellezza quanto una vita condotta per la bellezza, una vita capace di trasformarsi e creare continue occasioni di trasformazione:
“Un tizio vive e fa bei versi. Ma se un tizio non vive per fare bei versi, come sono brutti i bei versi del tizio che non vive per fare bei versi”.
Diceva Hermann Broch che in arte «chi si limita a cercare soltanto nuove sfere di bellezza, crea sensazioni, non arte. L’arte è fatta di intuizioni della realtà, e solo grazie a queste intuizioni essa si solleva al di sopra del Kitsch. Se non fosse così ci si potrebbe accontentare delle sfere di bellezza già scoperte».
La lettura di Bazlen si oppone radicalmente a ogni sistema chiuso di valori:
“Gente, perché si sente distrutta, che mi considera un distruttore e non hanno la fantasia di immaginare che distruggerli significa aprire la strada ai valori più grandi che li negano”.
Rinunciare a un sistema chiuso di valori non significa tuttavia rinunciare a interrogarsi sul valore dell’opera. Così come la fedeltà al proprio fiuto estetico non significa abbandonarsi al mare magnum dell’assenza di gerarchie. Bazlen era fin troppo cosciente che «la fine dei valori eterni» è l’inizio di una «nuova eternità» (assai più lunga della prima), l’inizio di un’epoca dominata dal Kitsch, dove alla scoperta di nuove sfere estetiche e conoscitive subentra una nozione decorativa dell’arte, e che perciò vale sempre la pena di interrogarsi sul valore dell’opera a partire dalla sua novità o «primavoltità».
Lo stesso giudizio, per certi versi impietoso, di Bazlen sulla sua Trieste è, neanche a dirlo, incompatibile con la vulgata romantica:
“A occhio e croce, direi che Trieste è stata tutto meno che un crogiolo: il crogiolo è quell’arnese nel quale metti dentro tutti gli elementi più disparati, li fondi, e quello che salta fuori è una fusione, omogenea […] ora, a Trieste, che io sappia, un tipo fuso non s’è mai prodotto”.
Trieste ha prodotto piuttosto gente, secondo Bazlen, che avendo premesse diverse ha tentato di «conciliare gli inconciliabili», degli «avventurieri della cultura e della vita». Trieste più che un crogiolo è stata una «cassa di risonanza» dell’Europa, in particolare di quell’Europa centrale (che la vulgata romantica si ostina a chiamare Mitteleuropa) che tra gli inizi del XX secolo e gli anni trenta ha contribuito a creare l’ultima stagione «viva» della letteratura europea. Lo sappiamo: «Una volta si nasceva vivi […] Ora si nasce morti […] alcuni riescono a poco a poco a diventare vivi». La «sismograficità» della cultura triestina la si poteva sbirciare nelle biblioteche «finite sulle bancarelle dei librai del ghetto». Si trattava di una cultura assolutamente non provinciale: «Provincia, perché radice – ma noi abbiamo radice nel grande mondo». In quelle bancarelle si potevano incontrare libri «sconosciutissimi, ricercati e raccolti con amore da gente che leggeva quel libro perché aveva bisogno di quel libro».
Un ultimo insegnamento di quel maestro che non si sognò mai di insegnare qualcosa a qualcuno («Non insegnare nulla alla gente: sono capaci di imparare») è il suo eclettismo, ennesima metamorfosi della Weltliteratur goethiana.
Bazlen ci presenta l’avventura critica come interrogazione sul valore dell’opera secondo un’estetica della trasformazione e dell’autotrasformazione di sé. Ma l’avventura può cominciare solo se ogni individuo è in grado di provare un bisogno specifico per un libro specifico. Perché poi l’avventura ci conduca verso ciò che è ignoto, perché si possa accedere alla «primavoltità» dell’opera, è necessario che l’esercizio critico funzioni sempre come un trasloco. Soltanto liberandosi continuamente dei vecchi mobili, possiamo occupare il nostro spazio vuoto: lo spazio della critica. Quando si legge ci si dovrebbe trovare sempre sulla soglia di casa, avendo in precedenza sgomberato tutte le stanze.
La lezione di eclettismo di Bazlen non prefigura affatto l’eclissi della critica. La vera malattia di cui soffre la nostra epoca della fine dell’opera è un’altra: è lo spirito enciclopedico, il desiderio di catalogare tutto, di possedere tutto, di memorizzare tutto per non conoscere nulla. In questo mondo troppo pieno, quasi più nessuno è in grado di provare un bisogno particolare per un libro particolare.
Oggi davanti a noi ci sono milioni di libri provenienti da tutte le latitudini del globo, biblioteche di libri, stanze piene di libri tutti attuali e tutti apparentemente degni di essere letti, ma non c’è quasi più nessuno in grado di creare uno spazio vuoto, un altrove dove accedere alla loro «primavoltità», nessun capitano di lungo corso capace di liberarci dalla zavorra delle non opere.
pubblicato su Nazione Indiana -18 marzo 2009
© Massimo Rizzante - "su Nazione Indiana"
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