martedì 1 dicembre 2009

In quella terra quasi di nessuno. Omaggio a G. A. Borgese

Massimo Rizzante

22 marzo 2009

In quella terra quasi di nessuno. Omaggio a G. A. Borgese

di Massimo Rizzante

E Borgese resta in quella terra quasi di nessuno.
Leonardo Sciascia

Quasi tutto è iniziato quando il 22 aprile del 2000 ho letto una lettera inviata al direttore di un giornale italiano firmata dalla famiglia Borgese (la moglie Elisabeth Mann, la figlia Dominica e la nipote Giovanna), nella quale si constatava con stupore che in un libro dello storico tedesco Helmut Goetz, intitolato Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, e recensito pochi giorni prima sullo stesso giornale, il «nome di Borgese» non figurava «tra i professori che rifiutarono di firmare il giuramento di fedeltà al regime fascista».

Sono andato a rileggermi l’articolo. In realtà, oltre al libro di Goetz, la giornalista segnalava l’uscita di un altro volume sullo stesso argomento di Giorgio Boatti dal titolo Preferirei di no. Entrambi gli storici erano concordi sui numeri: nel 1931 su oltre milleduecento accademici italiani soltanto dodici avevano opposto il loro rifiuto al regime. E precisamente: Francesco e Edoardo Ruffini, Fabio Luzzatto, Giorgio Levi Della Vida, Gaetano De Sanctis, Ernesto Buonaiuti, Vito Volterra, Bartolo (o Bortolo) Nigrisoli, Marco (o Mario) Carrara, Lionello Venturi, Giorgio Errera, Piero Martinetti. In effetti, il nome di Giuseppe Antonio Borgese, allora professore di Estetica all’Università di Milano non c’era, e neppure quello di Errico Presutti, professore di Diritto amministrativo e costituzionale a Napoli, che, secondo un firmatario di un’altra lettera al direttore pubblicata accanto a quella della famiglia Borgese, si era anch’egli rifiutato di prestare giuramento.

«L’eroica minoranza» che disse di no al fascismo non era formata da «pericolosi sovversivi», scriveva la giornalista. Erano persone di diversa estrazione sociale: figli di alto-borghesi e di tabaccai. C’erano cattolici, anticlericali, socialisti, liberali, monarchici, ebrei. Certo, nel 1925, molti avevano sottofirmato la Risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani redatta da Benedetto Croce (fra questi Borgese non c’era) e uscita il 1 maggio sul quotidiano «Il Mondo» in opposizione al Manifesto degli intellettuali del fascismo scritto da Giovanni Gentile e pubblicato qualche settimana prima sulla stampa nazionale.

Non erano tuttavia degli attivisti politici. Anzi, nessuno di loro aveva preso consegne né da Togliatti, che con il suo tipico ‘doppiogiochismo’ pensava che i professori rimanendo in cattedra avrebbero svolto un compito molto utile al partito, né da Croce, che incoraggiava i professori a continuare il loro insegnamento «secondo l’idea di libertà», né dalla Chiesa che per l’occasione aveva escogitato uno dei suoi innumerevoli capolavori di dissimulazione, ordinando ai suoi fedeli «di giurare, ma con riserva interiore».

L’argomento del presunto mancato giuramento di Borgese ha cominciato a quel punto a incuriosirmi. Ben presto, dopo alcune ricerche – sul finire degli anni Novanta erano usciti diversi saggi sull’argomento – mi sono reso conto che il ‘caso’ Borgese, come si diceva allora, non esisteva. O meglio: esisteva ed esiste l’oblio dell’opera di Borgese, oblio a cui gli intellettuali italiani rispondevano alla fine del XX secolo con un’interpretazione esclusivamente politica delle scelte e delle esitazioni dell’autore siciliano.

Ecco in sintesi i fatti. Borgese, che già da una decina d’anni si era ritirato dalla vita politica, coglie l’occasione nel luglio del 1931, dopo alcuni chiari segnali di essere persona non grata ai giovani del GUF e alle autorità accademiche fascistizzate, di trascorrere un periodo come visiting professor (e, allo stesso tempo, come corrispondente estero per il «Corriere della Sera») negli Stati Uniti. Quando l’8 ottobre dello stesso anno viene emanata la disposizione che impone ai docenti universitari l’obbligo di giuramento al regime, egli è altrove. Seguono un paio d’anni di incertezza esistenziale, professionale e politica. Ma già il 18 agosto del 1933 egli invia da Boston una lunga lettera a Mussolini (il 17 ottobre del 1934 ne invierà un’altra) dove, oltre a rivendicare il suo operato all’epoca della «questione adriatica» (dopo la prima guerra mondiale Borgese, con Salvemini e Bissolati, fu ritenuto uno dei massimi responsabili delle tesi ‘disfattiste’ e ‘rinunciatarie’ che vedevano schierati da una parte coloro che sostenevano l’autodeterminazione dei popoli e dall’altra i nazionalisti alla D’Annunzio che blateravano di «vittoria mutilata»), chiarisce la sua posizione ideologica fondata sulla dottrina mazziniana, ripresa a suo modo di vedere da Wilson, che sarà alla base del suo pensiero politico universalistico degli anni Trenta e Quaranta. Inoltre, sul giuramento è esplicito: «Il giuramento implicherebbe ormai l’adesione a un ordine, più ancora che politico, filosofico e religioso [...] Giurare fu strettamente proibito dal Cristo (Matth. V, 33-37). Giurare con animo reticente o equivoco, o comunque spergiuro, fu considerato delitto gravissimo, secondo solo al parricidio, da tutta l’antichità pagana».

Da parte di Mussolini e del governo fascista un silenzio interessato. Borgese, che fino a quel momento non era stato considerato un antifascista, non doveva agli occhi del regime diventare improvvisamente un martire dell’antifascismo. Si dovevano poi mantenere buone relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti ed evitare qualsiasi ripercussione internazionale. Non avendo alcuna risposta, Borgese, quando nell’ottobre del 1934 sta per scadere il suo mandato all’estero, invia da Northampton al rettore dell’Università di Milano una succinta quanto esplicita dichiarazione: «Prego la S. V. di voler prendere nota che io non ho prestato, né mi propongo di prestare il giuramento fascista prescritto ai professori universitari – gradisca il cordiale ossequio di G. A. Borgese».

Dov’è il ‘caso’? Dov’è il crimine? Di che cosa è colpevole Borgese? Di essere stato altrove quando un manipolo di persone della sua stessa stoffa, per nulla «sovversive», per nulla politicizzate, si rifiutavano di aderire al regime? O di non aver immediatamente e con eroismo fatto pervenire alle autorità il suo diniego? Perché l’attenzione dei critici non si è rivolta invece ai suoi ideali mazziniani che l’ancoravano all’Italia fin dai tempi della sua rilettura di De Sanctis? O al mito che egli, esule deluso della propria patria, andava erigendo sulle pagine lette e commentate della Divina Commedia? O ancora al fatto, quanto mai concreto, di un uomo di cinquant’anni che, trovandosi in un altro paese, alle prese con un’altra lingua e con altri costumi, aveva dovuto riflettere su alcune tappe della sua vita prima di formulare in piena coscienza la sua decisione senza ritorno?

Borgese a me sembra uno dei tanti casi istruiti da quella diabolica macchina processuale che proprio verso la fine del XX secolo in Italia e in Europa ha cominciato a funzionare, accumulando accuse su accuse nei confronti di molte personalità del passato.

La lista è infinita: Nietzsche, antidemocratico e anticristiano; Heidegger, in odor di nazismo; Henry Miller pornografo e antisemita; Brecht, accusato di plagiare gli amici e le sue amanti; Faulkner, razzista e antifemminista; Thomas Mann, sospettato di essersi infatuato per un certo periodo delle teorie naziste; Ezra Pound, apostata mussoliniano; Max Frisch, antisemita e nazionalista; Céline, antisemita con manifeste fissazioni eugenetiche; Freud, despota e colpevole di aver voluto infliggere all’intera umanità la sua ferita narcisistica; Cioran, fascista della prima ora; Eluard, cantore degli ideali sovietici; Malaparte, mazziniano, nazionalista, fascista, e poi comunista, Kundera, giovane comunista e al contempo delatore anticomunista…

La regola d’oro dei pubblici accusatori di questo enorme processo consiste nel criminalizzare la vita degli autori al fine di non permettere che le loro opere vengano lette e giudicate in modo autonomo. La criminalizzazione, naturalmente, è fatta a fin di bene, ovvero è condotta per farla finita una volta per tutte con i pregiudizi del passato. Coloro che la compiono, infatti, non si sentono parte in causa. Sono arroccati nel presente. E dall’alto della loro presunta morale possono far piazza pulita di un’epoca storica. La memoria rivendica i suoi diritti sulla biografia degli autori, con tutto il loro carico di contraddizioni, irrazionalità, ambiguità ed errori, ma allo stesso tempo lascia ai lettori del futuro una «terra quasi di nessuno», una terra devastata, la terra delle opere d’arte e del pensiero che hanno subito la criminalizzazione dei loro autori.

Così, nel momento del bilancio secolare, molti critici italiani hanno preferito criminalizzare i silenzi dell’esule Borgese nei confronti del regime fascista piuttosto che leggere le sue opere.

pubblicato su Nazione Indiana   22 marzo 2009



a cosa importante per me in questa sede è che il cosiddetto “caso” Borgese, quando è sorto, verso la fine degli anni Novanta, è diventato tale solo, ripeto solo, a causa delle sue esitazioni politiche. Volevo semplicemente dire che la riduzione politica, ideologica di un’autore è sempre all’opera, nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle e ancor oggi: eserciti di ragni tessono le loro tele di giudizi politici sulla vita di un autore fino a rendere la sua opera un’inutile appendice. E c’è qualcosa di ancor più generale: il diktat morale della memoria, imposto dovunque dai media, tende a criminilizzare il passato. Del resto, è del tutto naturale. I media trattano il passato storico come se fosse il loro regno, ossia l’attualità, e nell’attualità mediatica un fatto per esistere deve trasformarsi in un fatto di cronaca nera, trasformarsi in un fatto delittuoso: tutto ciò che non è criminale tende, nell’attualità, a non esistere. Così, spesso, ciò che resta è la biografia criminalizzata degli autori.
Infine, leggere “Rubè”, penso sia ancora utile. Ma ancor di più cogliere il presente che è incastonato in ogni passato.

 Massimo Rizzante, commento a margine della discussione sul saggio pubblicato su  Nazione Indiana



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