giovedì 18 luglio 2013

Roberto Bolaño dieci anni dopo, un ritratto per personaggi

 Leonardo Merlini -

Roberto Bolaño dieci anni dopo, un ritratto per personaggi

“Mi piacerebbe essere uno scrittore fantastico, come Philip K. Dick, anche se man mano che il tempo passa e invecchio, Dick mi sembra sempre più realista”. Diceva così Roberto Bolaño, in un’intervista a Carmen Boullosa del 2002, e, forse sapendolo, forse solo intuendolo, in fondo tracciava un ritratto estremamente veritiero tanto di ciò che Dick ha rappresentato nel nostro immaginario collettivo, quanto di quello che stava per rappresentare lui, icona reticente (ma non troppo) di una letteratura capace di farsi fenomeno senza rinunciare alla propria enorme tensione verso qualcosa di diverso. Oggi, a 10 anni dalla scomparsa dello scrittore cileno, la sua fama si consolida e si amplia, restituendoci la potente ironia della storia – mai sottovalutarla! – che ha fatto di un poeta convertitosi al romanzo dopo essersi scoperto malato per “fare soldi” per la propria famiglia, uno dei maggiori interpreti della letteratura globale contemporanea. Perché il fenomeno Bolaño è esploso sul serio fuori dall’ambito linguistico spagnolo ed è stato consacrato, cosa estremamente rara, proprio negli Stati Uniti, tendenzialmente (e anche con molte ragioni, sia chiaro) autoreferenziali e diffidenti verso scrittori di lingua non inglese (Borges e Calvino sono forse gli altri esempi più importanti, giusto per capire di cosa si sta parlando).

Un decennio dopo quel triste mese luglio del 2003 nel quale Bolaño si è spento a soli 50 anni mentre attendeva un trapianto di fegato mai arrivato, uno dei possibili modi per ricordare lo scrittore è quello di farlo attraverso l’unica cosa che conta veramente in quel mestiere, ossia le opere. In particolare attraverso i suoi personaggi, sospesi tra una inestricabile proiezione della sua personalità e del suo mondo e il genio letterario che li ha resi in molti casi indimenticabili in quanto “artefatti” culturali. Partiamo dal più noto alterego di Bolaño, ossia quell’Arturo Belano che, insieme all’inarrivabile Ulises Lima (imago letteraria del poeta Mario Santiago Papasquiaro), è protagonista de I detective selvaggi (sempre che questa parola mantenga un suo senso all’interno di un uber-romanzo che ha più o meno fatto allegramente a pezzi l’idea di narrazione tradizionale, per di più con una falsa veste “gialla” che rende il tutto ancora più straniante e meraviglioso). Belano e Lima che scappano con una prostituta inseguita dal suo magnaccia e nel deserto di Sonora vanno in cerca di una poetessa segreta, Belano che diventa custode di un campeggio nel Sud della Francia, Lima che si perde durante un viaggio per scrittori in Nicaragua, e insieme, questi poeti realvisceralisti e spacciatori, che forgiano un modo di essere unico sulla scena della letteratura del presente (e ha ragione Nicola Lagioia quando scrive che Bolaño, benché abbia vissuto solo poco più di tre anni del XXI secolo, è il primo scrittore del terzo millennio, perché i suoi libri e i suoi personaggi nascono già nel futuro, un po’ come accadeva con l’altrettanto compianto Dick…)

Lontano, lontanissimo dall’autobiografia, ecco lo scrittore fantasma Benno von Arcimboldi, la primula rossa dell’enigmatico e monumentale (e imprescindibile) 2666, la seconda opera-mondo, per dirla con Franco Moretti, di cui Bolaño non ha mai visto la pubblicazione. Un labirinto in cinque parti che ruota intorno alla ricerca, quasi degna delle storie medievali sul Santo Graal, di questo scrittore scomparso, in una trama delirante fatta di letteratura, omicidi, orrore, meraviglia, mistero… Intorno alla luce oscura che Arcimboldi, o chi per lui, emana, si muovono altri personaggi memorabili, come il giovane poliziotto Lalo Cura (leggetelo pure come La Locura, ossia la pazzia) o il professor Amalfitano, i critici che decidono di mollare l’Europa per fare una salto nel buio nella terra dei femminicidi o Oscar Fate, il giornalista afroamericano che, pure lui, in Messico finisce giustamente (il Fato, non a caso) per perdersi e scomparire, in un modo che potremmo definire dolce, ma come può esserlo un liquore molto zuccherato, sebbene tremendamente alcolico.

E ancora quell’altra personificazione del male che è Carlos Wieder, il poeta-aviatore-killer seriale di Stella distante, o gli incredibili scrittori immaginari de La letteratura nazista in America, come la dinastia dei Mendiluce (la cui epopea tragica e marginale è degna di una famiglia reale decaduta ed esiliata) o quel Willy Schurhoz, che nelle sue opere stranianti tracciava nel deserto delle mappe esatte dei campi di concentramento di Hitler. E poi le donne, che pure loro in un certo modo sono (e ovviamente al tempo stesso non sono) Bolaño, come Auxilio Lacoutre, la protagonista di Amuleto, che vive la violenta irruzione della polizia nell’università di Città del Messico del 1968 nascosta in un gabinetto. E per questo si salva, e per questo vivrà un complesso di colpa che la porterà a diventare protettrice di poeti di sinistra (e forse il senso di colpa – e di sollievo, il che rende ancora più acuto il primo – di Auxilio è paragonabile a quello di Bolaño, che ha sì vissuto sulla propria pelle il golpe di Pinochet, ma dal cui incubo si è, almeno nella pratica, liberato dopo pochi giorni per strane e fortunate circostanze che gli hanno risparmiato gli orrori toccati a tanti suoi amici militanti). Ancora: le sorelle Maria e Angelica Font, le poetesse adolescenti dei Detective, che poi forse si trovano anche in Stella distante sotto il nome di sorelle Garmendia, vittime dei crimini inenarrabili di Wieder. E sempre neiDetective ecco la prostituta innamorata, Lupe, che fugge con Belano e Lima e intreccia una relazione sorprendentemente felice, nell’assurdità della situazione e nella breve durata, con Juan Garcia Madero, la più cospicua delle innumerevoli voci narranti di quel romanzo monumentale.

Il catalogo, ovviamente, non è questo, o madamina. Al massimo è una sua proiezione lacunosa, un’idea da caverna di Platone, nel quale abbiamo solo definito il contorno di quelle strane ombre che vediamo sul muro. Perché, se non bastasse, i personaggi di Bolaño si scambiano anche di libro, tornano, tramano, intrecciano le loro vicende tra un romanzo e l’altro, segretamente, con una grazia folle e rizomatica che lo scrittore cileno padroneggiava con una sicurezza che in parte possiamo attribuire anche alla sua inconsapevolezza. Ma sulla pagina ogni cosa risplende al punto giusto e questi segreti chissà che non siano l’ultimo tentativo dello scrittore di non morire mai. In qualche modo è possibile che Roberto Bolaño continui a farcela, anche 10 anni dopo.

Leonardo Merlini
© Kilgore Magazine

© Kilgore Magazine - 15 luglio 2013    - - -
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“2666”: Bolaño nell’abisso

Alessio Mirarchi -

15 luglio 2013

“2666”: Bolaño nell’abisso



Quando in un’intervista la scrittrice Carmen Boullosa gli domandò come avrebbe voluto essere ricordato, Bolaño rispose: «È una battaglia futura». Che siamo critici spocchiosi convinti di poter spiegare la sua opera agli altri, vedove risentite e senza scrupoli che vendono i diritti dei suoi libri al migliore offerente (che, come scrisse lui stesso, «molte volte è anche il peggiore») o ancora agenti letterari spietati che trattano i libri come fossero patate al mercato, possiamo stare certi che Bolaño sta ridendo a crepapelle proprio di tutti noi dalle acque del mare di Blanes dove riposano le sue ceneri.

Quello che ci ha lasciato lo scrittore cileno è un testamento irriverente e che getta sale sulla ferita aperta delle nostre vite, solo in apparenza perfette e senza macchia. Per ricordarlo oggi, a dieci anni dalla sua prematura scomparsa, non possiamo che rimarcare l’estrema irriverenza e lo spirito polemico e iconoclasta che caratterizzano tutte le sue opere. Scegliamo quindi di parlare di 2666, pubblicato postumo nel 2004 e edito in Italia da Adelphi, proprio perché questo libro sembra essere il punto più alto del suo percorso di ricerca in letteratura, il luogo dove confluiscono le linee spazio-temporali di una vita dedicata ai libri e alla scrittura, all’amore e alla sconfitta.

Ciudad Juárez è una città dello stato di Chihuahua, nel nord del Messico. Situata al confine con gli Stati Uniti, forma un unico agglomerato urbano con El Paso, Texas. A unire le due città ci sono dei ponti che attraversano il fiume Rio Grande, confine naturale fra gli Stati Uniti d’America e il Messico. Per la sua posizione geografica, Ciudad Juárez ha conosciuto negli ultimi cinquant’anni un’incredibile crescita. Grazie ai piani di sviluppo varati agli inizi degli anni Sessanta del Novecento e all’accordo di libero scambio tra il governo federale messicano, gli Stati Uniti e il Canada entrato in vigore il 1 gennaio 1994 (Nafta – North American Free Trade Agreement), molte aziende statunitensi hanno stabilito impianti industriali (denominati maquiladoras) oltre il confine, allettate dalla possibilità che veniva loro offerta di sfruttare la manodopera a basso costo del Messico e di importare nel paese latinoamericano macchinari e materiali praticamente esentasse. Da quel momento i pezzi per l’assemblaggio di frigoriferi, televisori, forni, telefoni cellulari, ecc. hanno cominciato a varcare la frontiera per finire tra le mani di messicani (in maggioranza donne) che li lavorano per circa 4 euro al giorno, turni di 45 ore a settimana. I prodotti finiti vengono poi caricati di nuovo sui camion che attraversano la frontiera sulla rotta Sud-Nord per essere poi immessi sui mercati occidentali.

È la globalizzazione. Lo stallone dell’economia lanciato di gran carriera sulla strada della ricchezza, senza regole e senza controlli. Una ricchezza che pare offrire opportunità proprio a tutti. E così Ciudad Juárez è diventata una delle città più popolose del Messico in tempo record. Ha attirato centinaia di migliaia di persone (in maggioranza donne) dalle regioni più sottosviluppati del Messico meridionale e dell’America Centrale che, in attesa di varcare il confine per entrare negli Stati Uniti, trovano impiego presso le maquiladoras e si arrangiano a vivere in baracche (tanto sarà per poco) senza acqua potabile e talvolta senza elettricità per andare a popolare le periferie della città ingrossatesi ormai fino a invadere le zone desertiche da cui è circondata. Tuttavia, la frontiera fra il primo e il terzo mondo è sempre più difficile da varcare in direzione nord, e così accade spesso che queste donne si ritrovino a vivere a Ciudad Juárez a tempo indeterminato, almeno finché non finiscono violentate e uccise in un’area abbandonata di periferia, con i vestiti strappati e le ossa lasciate a marcire sotto il sole. Perché nel periodo 1993-2004 circa 600 donne sono sparite e circa 475 sono state ritrovate morte dopo essere state violentate, la maggior parte era di età compresa fra i quattordici e i venticinque anni. Il 60% delle vittime era impiegato presso una maquiladora, tutte quante appartenevano a famiglie estremamente povere, oppure si trovavano a Ciudad Juárez da sole, senza alcun parente che potesse poi denunciarne la scomparsa.

Ma Ciudad Juárez non è solo il «laboratorio del nostro futuro», come la definì Charles Bowden. Paradiso della deregolamentazione in materia economica, non è solo l’avamposto delle orde barbariche di poveri che pressano alle porte del primo mondo in attesa di poter usufruire delle belle cose che essi stessi hanno contribuito a creare. Ciudad Juárez è anche la sede di uno dei più potenti cartelli della droga dell’America Latina affermatosi a metà degli anni Novanta, e per cui il Nafta è stato sicuramente vantaggioso. I  narcos messicani hanno fatto fortuna come intermediari grazie alla posizione geografica del loro paese. Trasportano la cocaina e l’eroina dalla Colombia, dalla Bolivia e dal Perù verso il più grande mercato degli stupefacenti del mondo: gli Stati Uniti d’America.  La presenza dei narcotrafficanti fa di Ciudad Juárez uno dei territori più pericolosi sulla faccia della Terra, la città che dal 2009 si aggiudica ogni anno il triste primato del più alto tasso di omicidi al mondo. E nella città di frontiera, nel periodo 1995-2000, il 44% delle vittime di omicidi volontari era di sesso femminile, se si considera che in tutto il Messico le donne vittime di omicidi volontari sono appena il 10% del totale si capisce perché si parli di un’agghiacciante anomalia che non può essere derubricata a naturale conseguenza di un generale clima di violenza.

Quel pezzo di frontiera fra Stati Uniti e Messico è stato definito «zona grigia» dal criminologo statunitense Robert K. Ressler, il territorio senza regole e leggi dove decine, forse centinaia, di serial killer possono riversarsi anche dalla vicina El Paso per commettere impunemente i loro efferati delitti. L’abisso, il buco nero – potremmo dire, per cominciare a introdurre il discorso su 2666 – il luogo dove le perversioni degli uomini sono lasciate libere di sbizzarrirsi, senza regole e senza controlli (proprio come con l’economia di mercato).
«Sa cosa voglio che faccia? Disse la deputata. Voglio che scriva su questa storia, che continui a scrivere su questa storia. Ho letto i suoi articoli. Sono buoni ma spesso spara a vuoto. Io voglio che spari a colpo sicuro, sulla carne umana, sulla carne impune e non su ombre. Voglio che vada a Santa Teresa e la fiuti bene. Voglio che la morda».

La persona a cui si rivolge la deputata è l’equivalente letterario di Sergio González Rodríguez, giornalista messicano esperto dei femminicidi di Ciudad Juárez che Roberto Bolaño volle incontrare nel periodo in cui stava scrivendo 2666. Alcuni amici comuni li misero in contatto, anche se in realtà le pressioni più forti furono fatte dallo stesso Bolaño che aveva preso ad appassionarsi sempre di più alla storia delle donne morte al confine fra Messico e Usa. I due si scrivevano spesso, e il cileno non nasconde la sua ammirazione per il lavoro del giornalista messicano che lo aiutò anche con suggerimenti di carattere tecnico a stendere parte della sua mastodontica opera-mondo pubblicata postuma. 2666 è un libro diviso in cinque parti (Bolaño stesso specificò che l’ordine in cui si possono leggere è del tutto libero) e una delle più corpose si intitola «La parte dei delitti»:un blocco di trecento pagine in cui vengono narrati i ritrovamenti di centinaia di corpi di donne violentate e mutilate. La città dove avvengono questi ritrovamenti si chiama Santa Teresa ed è il corrispondente letterario di Ciudad Juárez.

Santa Teresa è il punto verso cui convergono (o da cui partono?) tutti gli innumerevoli rivoli narrativi che scorrono tra le mille pagine di 2666, il buco nero che divora le luci del misterioso scrittore Benno Von Arcimboldi (nome d’arte di Hans Reiter) e degli altri personaggi che popolano questo libro. Bolaño guarda quelle cose e quelle persone che nessuno di noi vorrebbe vedere, e ci restituisce i ritratti di sconfitti (vittime del successo di altri) che pure non cedono mai all’autocommiserazione, ma che portano con orgoglio la loro etichetta di outsider stampata sulla fronte.

Sono i coraggiosi, quelli che non hanno paura della morte, quelli che ogni  giorno la sconfiggono, così lontani da noi che vorremmo tenerci alla larga dall’abisso mentre viviamo nell’ossessione della paura di fallire. I personaggi di Bolaño hanno successo solo nell’arte di essere sconfitti: quello che sembra essere il personaggio più importante del libro, appunto lo scrittore Benno Von Arcimboldi, addirittura fugge dal successo. I lettori che amano i suoi libri darebbero oro per vedere anche solo una sua fotografia, ma lui si rinchiude in un isolamento quasi totale ed erge barriere insormontabili contro la notorietà. Ed è interessante, da questo punto di vista, capire dove vanno a perdersi le tracce di tale personaggio: non nella città di Santa Teresa, distesa di cemento e sabbia che aveva già fagocitato le storie (o le vite?) dei personaggi comparsi nelle altre quattro parti del libro, ma in Messico. L’ultima frase di 2666 recita così: «Poco dopo uscì dal parco e la mattina dopo partì per il Messico». Il luogo della perdizione non è più una città, ma una nazione intera dell’America Latina, il buco nero si è allargato, il Messico tutto si è trasformato in frontiera.

Nell’epoca del villaggio globale, dei grandi flussi migratori che partono dai paesi sottosviluppati in direzione delle porte del primo mondo, nell’epoca in cui viaggiare è diventato facilissimo e praticamente alla portata di tutti – «Esisteva solo il movimento, che è la maschera di molte cose, compresa la serenità» –, diventa ancora più difficile ignorare i segnali d’allarme che giungono dal fronte. Più appropriato sarebbe stato scrivere «frontiera» ma la sensazione è che i conflitti sociali nella nostra epoca siano sempre più forti. In ambito economico ad esempio, abbiamo il presentimento che nemmeno le retrovie siano più al riparo da certe trasformazioni che fino a poco fa riguardavano soltanto le zone periferiche del mondo.

2666 è il libro del Male della nostra epoca. Le vicende narrate, infatti, attraversano tutto il Novecento, dal primo dopoguerra (Hans Reiter nasce nel 1920) alla fine degli anni Novanta. Nel buco nero si annulla anche il tempo. Si parte dalla seconda guerra mondiale (a cui Reiter prende parte come soldato) e dall’Olocausto per finire con i femminicidi di Ciudad Juárez. Le vittime ultime di un tempo malato, abitato da uomini malati, su una terra dove non esistono più retrovie sicure, ma solo fronti, terreni di scontro, frontiere da difendere. Ma anche se la crisi in cui è sprofondato il nostro sistema di sviluppo economico negli ultimi anni ci autorizzerebbe a estendere il discorso al mondo intero, per esigenze di spazio restringiamo il campo, e ci limitiamo a parlare della frontierizzazione della sola America Latina, un continente che nel secolo scorso ha conosciuto i più efferati atti di violenza politica e di sopraffazione mai perpetrati da parte di potenze straniere interessate ad appropriarsi di ricchezze naturali altrui.
«In qualche misura tutto quello che ho scritto è una lettera d’amore e un saluto alla mia generazione, a quelli che hanno scelto la militanza e la lotta e che hanno dato quel poco che avevano e quel molto che avevano, la giovinezza, a una causa che per noi era la più generosa del mondo [...]. Tutta l’America Latina è disseminata delle ossa di questi giovani dimenticati».

Giovani che sono caduti nell’abisso della storia del Novecento, nei garage segreti di Buenos Aires sotto la giunta militare di Videla, nelle fosse comuni del Guatemala degli anni Ottanta, in Colombia, in El Salvador e in Perù, a Tlatelolco in Messico, all’Estadio Nacional de Chile nel 1973. Bolaño non è mai stato uno scrittore molto attivo politicamente. La sua esperienza di militanza politica si limita a un breve periodo trascorso in carcere a seguito del colpo di stato di Pinochet in Cile dove si era recato dal Messico in seguito all’entusiasmo che aveva provocato in lui l’elezione del presidente Salvador Allende. Uscì di galera grazie alla complicità di due guardie che lo riconobbero in quanto loro vecchio compagno di classe ai tempi delle elementari. Tornò in Cile soltanto venticinque anni dopo per un brevissimo soggiorno e, con l’eccezione di alcuni saggi in cui critica i nuovi populismi latinoamericani contenuti in
 Il gaucho insostenibile, mostrò poco interesse per le sorti politiche del suo paese o dell’America Latina intera. Il passo citato sopra è tratto dal discorso che scrisse per la cerimonia di consegna del premio Rómulo Gallegos del 1999 e ci fa capire che Bolaño era in realtà molto lontano dall’immagine di scrittore chiuso nella torre d’avorio che il suo silenzio poteva suggerire. Come scrive Ignacio Echevarría, Bolaño è diventato «il bardo dell’America Latina, di una generazione di giovani poeti latinoamericani che persero la vita nell’abisso di un continente perduto nel quale l’esilio è la figura epica della desolazione e della vastità».
«I gusti di quel giovane farmacista colto […] erano indicativi di una preferenza netta, indiscussa, per l’opera minore a scapito dell’opera maggiore. Sceglieva la metamorfosi  invece del processo. Sceglieva Bartleby invece di Moby Dicksceglieva Un cuore semplice invece di Bouvard e Pécuchet Canto di Natale invece di Le due città o del Circolo Pickwick. Che triste paradosso, pensò Amalfitano. Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell’ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore».

Bolaño dedicò gli ultimi anni della sua vita alla scrittura di 2666, da quando capì che i suoi giorni erano praticamente contati (a causa di una malattia epatica che poi di fatto lo portò alla morte nel luglio del 2003) si cimentò senza posa nella costruzione di un libro che gli succhiò via le ultime energie vitali. Una corsa estenuante contro il tempo («Non ho molto tempo, sto morendo», dice uno degli scrittori apocrifi verso la fine del romanzo) che ovviamente non gli permise di mettere gli ultimi tasselli a posto. Ma in fondo è anche giusto che sia andata così. Impavido a cimentarsi in questa impresa, è ancora più bello per noi constatare che sia stato sconfitto. Certo, si dirà, l’esito è scontato quando l’avversario è la morte, che pure concede a Bolaño la magra soddisfazione di farsi catturare e mettere su (o sarebbe meglio dire «sotto»?) carta in questo libro.

2666 è come un emblema del capolavoro mancato, dell’occasione persa. È la letteratura in potenza, la massa di una supernova mentre collassa sotto il proprio peso, fotografia di quelle cose di cui solitamente possiamo soltanto parlare ma che in questo caso riusciamo anche a vedere, perché hanno un corpo (più di mille pagine) e un’anima espressi in prosa. 2666 è per la letteratura quello che il buco nero è per la fisica. Gli strumenti critici che abbiamo a disposizione possono aiutarci a descriverlo, ma definirlo richiederebbe dei nuovi modelli di riferimento.
«Allora, che cosa è la qualità della scrittura? È quello che è sempre stato: essere in grado di cacciare la testa nel buio, essere capaci di saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è essenzialmente un mestiere pericoloso. Come correre sull’orlo del precipizio: da una parte l’abisso senza fondo e dall’altra i volti amati, volti amati che sorridono, e i libri e gli amici, e la tavola».

Indagare sui femminicidi di Ciudad Juárez per uno scrittore significa calarsi nell’abisso per dare al lettore la possibilità di guardarlo con i suoi occhi. È proprio la nostra condizione di lettori a offrirci la possibilità di guardare l’abisso, e se siamo abbastanza cauti non verremo trascinati a fondo.
L’abisso è la frontiera, il luogo dove vengono alla luce le contraddizioni di un villaggio globale che crea violenza e scontro nel tentativo di uniformare popoli e culture inconciliabili.
L’abisso è l’America Latina, continente sopraffatto dalla storia mondiale, attore non protagonista, spazio della prevaricazione del normale sul diverso, del ricco sul povero, del perdente sul vincente. Roberto Bolaño ha scelto di mettere al centro delle sue opere le vittime, gli esclusi, quelli che hanno creduto in un sogno di benessere rivelatosi poi irraggiungibile per loro, i milioni di persone sulle cui spalle è costruito il modello di sviluppo e la ricchezza dei paesi occidentali. I cadaveri di donna lasciati a marcire nel deserto del Sonora rappresentano solo alcuni dei danni collaterali del nostro stile di vita, lo sporco da nascondere sotto il tappeto, i mostri da ricacciare nell’abisso.

(Roberto Bolaño, 2666, trad. di Ilide Carmignani, Adelphi, 2009, pp. 963, euro 24)

[Una versione più ampia di questo articolo, con il titolo: «I femminicidi di Ciudad Juárez in Ossa nel deserto e 2666», è stata pubblicata nel giugno 2012 sulla rivista  Pagine inattuali.]

Flanerì   15 luglio 2013
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domenica 23 giugno 2013

Überlegungen zu Bolaño

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Überlegungen zu Bolaño

Im August 1999 bin ich nach Buenos Aires geflogen, mit der Absicht, mein Leben zu ändern. Nicht alles, nicht mich als die Person, die ich nun einmal geworden war, aber doch: das Steuer wollte ich anders stellen. Dies zu tun, war eine Lebensnotwendigkeit. Argentinien kannte ich seit 1989, ich war jedes Jahr wenigstens einmal hingefahren, ohne je im engeren Sinn dort gelebt zu haben. Am 24. August jährte sich der Geburtstag von Jorge Luis Borges zum hundertsten Mal; ich erinnere mich an eine Ausstellung handgeschriebener Manuskripte von Erzählungen, deren partiturhaftes Aussehen mich staunen ließ. Am 25. August hatte ich selbst Geburtstag, ab jetzt war ich dreiundvierzig. Ich blieb in Buenos Aires, wohnte dort im unteren Teil von Belgrano, der weniger schick ist als der obere, bis März 2002, flog aber öfters nach Wien, weil ich glaubte, daß meine Existenz als freier – tatsächlich aber zunehmend unfreier – Schriftsteller dies forderte. Von Roberto Bolaño hatte ich zuerst in Buenos Aires gehört, ich weiß nicht mehr, ob durch Freunde oder durch Zeitungslektüre. Rodrigo Fresán, dessen Artikel ich wöchentlich in der Sonntagsbeilage von Página/12 las, wohnte wie Bolaño in Barcelona und war mit ihm eng befreundet. Es könnte sein, daß ich Bolaños Namen das erste Mal in einem von Fresáns Artikeln las. Für den Verlag Antje Kunstmann, in dem die ersten deutschen Bücher Bolaños erschienen, hatte ich eine Überetzung gemacht: Der Wert des Menschen von François Emmanuel, ein außergewöhnliches Buch, davon bin ich nach wie vor überzeugt. Anfang 2001 teilte mir Heike Bräutigam, die „Pressefrau“ des Verlags, telephonisch mit, daß Roberto nach Wien komme. Ob ich ihn treffen, vielleicht ein wenig betreuen wolle? Am 3. April sollte Bolaño eine Rede bei einem kleinen Symposion über „Literatur und Exil“ halten. Diese Rede habe ich übersetzt, der Text ist in der Zeitschrift Literatur und Kritik erchienen. Wie meistens bei solchen Anlässen drehte und wendete Bolaño die Fragestellung, hinter der er eingeschliffene Denkklischees vermutete. Inmitten der Drehungen und Wendungen gab Roberto eine Antwort, die vermutlich nicht im Sinn der an engagierter Literatur und vielleicht noch an Interkulturalität interessierten Organisatoren war, sondern existentielle Dinge betraf und mich an Beckett erinnerte: „Sie gebären rittlings über dem Grab…“

Über die drei Tage Anfang April 2001, an denen ich viel mit Roberto zusammen war, habe ich in einem Artikel für die Literaturzeitung Volltext berichtet. Roberto hat mich vom ersten Augenblick an als Kollegen, als „jungen“ Schriftsteller behandelt, er interessierte sich nicht im geringsten für die Frage, ob ich auch bekannt oder gar berühmt sei – tatsächlich existierte und existiere ich nur am Rand dieses Betriebs. Als Roberto den Wunsch äußerte, Bücher von mir zu sehen, wollte er keinen Beweis, sondern einfach nur das, meine Bücher sehen (lesen konnte er sie nicht). Ich führte ihn in die Zentralbuchhandlung beim Stephansdom, weil ich sicher sein konnte, daß dort wenigstens eins oder zwei meiner Bücher in einem Regal standen. Robertos Verhältnis zu Autoren (besonders zu Dichtern) ist so wie das der Dichter in Die wilden Detektive untereinander. Erfolg ist kein Kriterium, die dichterische Lebensform genauso wichtig wie die Veröffentlichungen, das Schreiben (um jeden Preis) mindestens so wichtig wie das Ergebnis. Wahrscheinlich bin ich Roberto damals auch als bicho raro erschienen, als seltsamer Vogel, denn ich kam gerade aus Buenos Aires, würde demnächst wieder zurückfliegen, war in Wien trotzdem ein Einheimischer. Roberto hatte vor vielen Jahren Mexiko verlassen. Ich glaube, in Spanien und dort in Barcelona zu leben, war eine sehr bewußte Entscheidung von ihm, und wenn man die in Santa Teresa spielenden Teile von 2666 liest, liegt die Vermutung nahe, daß der Autor dieses gegenwartsnahen Zukunftsromans das Alltagsleben in Mexiko für schwer erträglich hielt. Einer der Sätze Robertos, die sich wie ein plastisches Gebilde in mein Gedächtnis eingeprägt haben, war: „Europa ist der beste Ort zum Leben.“ Eine recht triviale Erkenntnis, gewiß. Eine von Robertos besonderen Fähigkeiten bestand darin, allzu Bekanntes in plötzlich verändertem Licht erscheinen zu lassen. Oft habe ich seither gedacht: Ja, trotz allem, Europa – nicht Deutschland oder Spanien oder Katalonien, sondern Europa – ist der beste Ort zum Leben, und so viele andere, Afrika (siehe die Schlußpassagen der Wilden Detektive) oder Mexiko oder Argentinien, aber ein ordentliches, sauberes, ungefährliches Land wie Japan, wo ich seit dem April 2002 wohne, sind schwer zu ertragen. (Unsere Gespräche damals lassen mich vermuten, daß Roberto auch die USA für unerträglich hielt.) Und ich, mitten in Europa geboren, in einem reichen Land mit einer sagenhaften, in den sagenhaften europäischen Osten weisenden literarischen Tradition, hatte mein Land verlassen, um in Buenos Aires Wohnung zu nehmen, in einer Gegend also, der sich Roberto nicht als „Lateinamerikaner“, sondern durch literarische Prägungen ein wenig zugehörig fühlte (Macedonio Fernández, Borges, Gombrowicz, Cortázar sind seine Vorläufer). Ich sprach Spanisch mit dem Akzent von Buenos Aires, kannte die Literatur diesseits und jenseits des Río de la Plata, hatte Ricardo Piglia übersetzt, den argentinischen Intellektuellen, der volkstümliche Krimis zu schreiben verstand, aber auch José Emilio Pacheco, den schlichten, dabei hochbelesenen Dichter aus der Colonia Roma im mexikanischen De-Efe. Auch Michel Houellebecq hatte ich übersetzt, diesen – wenigstens in seinen ersten Gedicht- und Prosawerken – „romantischen Hund“ (um den Titel eines Gedichtbands von Bolaño zu zitieren). Plateforme war damals noch nicht erschienen. Roberto stellte mir neugierige, auch wenig skeptische Fragen und sagte (sinngemäß): „Der Arme muß gewaltig unter sexuellen Komplexen leiden.“ Wieder einmal: keine Trennung von Autor und Werk, keine Trennung von Literatur und Leben. Die schonungslose Darstellung sexueller Frustration, dieses vor dem Erscheinen von Ausweitung der Kampfzone weitgehend unbekannte literarische Terrain, ist so ziemlich das Gegenteil der überschwänglichen, zuweilen auch perversen Sexualität, die man bei Bolaño oft findet. Lebenslust wider die zivilisierten, barbarischen Todesengel – statt Klage und Anklage, j’accuse… Die wilden Detektive sind nicht frustriert, sie nehmen ihr Schicksal selbst in die Hand, sind nicht bloß Opfer des Spätkapitalismus oder des, wie Houellebecq suggeriert, pseudorevolutionären Hedonismus.

My Bolaño Archive

 Lisa Locascio-

Los Angeles Review of Books   23 giugno 2013

My Bolaño Archive


1.
THE FIRST PUBLIC EXHIBITION of the papers and personal effects of the Chilean author Roberto Bolaño is the Centre de Cultura Contemporània de Barcelona (CCCB) exhibit “Bolaño Archive. 1977–2003,” the result of the Centre’s partnership with Bolaño’s widow, Carolina López, who along with her two children, Lautaro and Alexandra, constitute Bolaño’s heirs. The intensity of Bolaño’s posthumous fame — his second life as a cult literary idol — must be both mesmerizing and repellant to López, who for over two decades was the partner of an author for whom recognition was elusive. In the years since Bolaño’s passing, López has only rarely spoken to the press, primarily to dispel rumors. The exhibition, which will close just weeks before the 10th anniversary of Bolaño’s early death from liver failure, is not only an unprecedented point of access to his creative process but also a unique opportunity to investigate Bolaño himself: not the winsome headshot on the back jacket, not the collective dream of his admirers, but Bolaño the immigrant, the worker, the father, the artist, the man.
Readers tend to mythologize writers. A well-loved book has the power to elevate the author into a guru or totem. Bolaño’s death aggravated this process, forcing his readers to invent an origin story to explain the miracle of his work. He’s gone, so we seek his trace in his books and interviews. In the vacuum compounded by López’s silence, Bolaño legends have sprung up with weed-like rapidity, fueled by the combination of Bolaño’s sudden ubiquity and the relative paucity of biographical details. The author’s tendency to write about a doppelgänger protagonist — Arturo Belano, frequently simply “B.” — further muddies the waters.
Seeking a point of entry to Bolaño’s unforgettable prose — its curious power to dazzle and baffle, the pervasive, addictive mood that Francine Prose called his “microclimate” — we repeat the verses of his contradictory legend: He was an alcoholic like Bukowski. He was Alejandro Jodorowsky’s protégé. He was a heroin addict. He never did drugs. Hepatitis C, contracted from dirty needles, damaged his liver. He was arrested under suspicion of terrorism in Pinochet’s Chile, held in a secret prison, and escaped execution only because the men guarding him turned out to be his high school classmates. He was never in Chile. The prison story is a compensatory fiction prompted by guilt. Naturally a poet, he only began writing fiction to support his family.
With the CCCB exhibition, Carolina López draws this fantasia to a close, asserting control of her husband’s narrative. The exhibition has an air of correction, evident in prim assertions in the catalogue, as in this section by Valerie Miles, who worked closely with López on the exhibition:
Contrary to what has been repeatedly claimed about Bolaño the poet versus Bolaño the prose writer, his notebooks show that he had every intention of becoming a novelist [. . .] [Bolaño], whose exploration ofviolence and evil had probed the dark recesses of the human psyche, was in fact a happy man who experienced immense joy when he was writing. [. . .] It’s also obvious that he never used heroin and that his drink of choice was tea.
By displaying his private archive, López reclaims her lost husband, a restoration Miles explicitly endorses:
[López] belongs to another tradition, that of the practical genius whose role has been instrumental in creating an environment for a writer to work. She brought economic and emotional stability, the framework of a family, grounding, and encouraged him through the days of fasting in the desert when his manuscripts were being rejected by editors and agents alike. An author’s archives and the living memory of his family are undoubtedly the most trustworthy sources of information, and in the case of Roberto Bolaño he stated it clearly in one of the last interviews he gave: “My children, Alexandra and Lautaro, are my only homeland,” and “Carolina reads my books first, then Jorge Herralde” (his publisher).
“Bolaño Archive. 1977–2003” returns the story to Bolaño himself, whose vivid voice rings from each manuscript page in his tiny, neat handwriting, whose unflinching gaze stares from each photograph.

venerdì 21 giugno 2013

La Stella di Bolaño non è mai troppo distante

Monica Mazzitelli  -   10 luglio 2010


Cordiale, eppure così ispido. Di Roberto Bolaño ho letto solo questo breve romanzo, Estrella distante (Stella distante), eppure mi sembra di conoscerlo. Non solo come scrittore, ma come uomo. Se dovessi girare un film su di lui saprei perfettamente come far muovere il protagonista, quali gesti, quali tic, l’inclinazione del mento, il tono della voce, che non ho mai visto o sentito. Perché lui – che si definiva prima di tutto un lettore, e solo poi uno scrittore – in queste pagine ci mette la sua essenza, alternando una narrazione romanzesca a lunghe disquisizioni sulla poesia, soprattutto quella latino-americana, con passione feroce. Così presente a se stesso ma simultaneamente facendo sempre un ossequioso passo indietro letterario, Bolaño ha sempre chiara la sua dimensione del gusto e la profonde come fosse materia inscindibile della narrazione, mai come digressione ex cathedra. Molto della sua anima e della sua poetica si capiscono leggendo l’ultima intervista che ha rilasciato, un testamento di intelligenza e passione, humor e umanità.

Mario Bevione, un mio caro amico e fine lettore, ha commentato così nella sua recensione di aNobii «Bolaño ha scritto per tutta la vita un unico, smisurato romanzo, che poi ha ritagliato, formando un immenso puzzle, dove ogni pezzo non si limita a combaciare con i quattro che lo circondano, ma può incastrarsi quasi con tutti.» Ecco: non ho letto altro che questo lavoro dello scrittore cileno, ma l’osservazione di Mario mi pare totalmente condivisibile nel senso che il tono della sua scrittura è quasi da blog, qualcosa di ciclico, interno, autodialogante, dove i fatti narrati sono al limite dell’essere pretesti narrativi piuttosto che una storia vera e propria. E forse per alcuni lettori questo potrebbe essere il suo limite.

Ma una storia c’è, pur nella sua diluizione: quella di Carlos Wieder, un sadico nazista pseudo-poeta che sotto il falso nome di Alberto Ruiz Tagle si infiltra tra gli studenti universitari diventandone amico. Di quei piccoli e quasi insignificanti poeti e scrittori, o semplici universitari, fa fare una strage durante il Golpe di Pinochet del ’73. Non si limita a far imprigionare tutti quelli di sesso maschile, ma esegue lui stesso gli omicidi, previa tortura, delle studentesse di sesso femminile. Nel suo malato connubio di amore e morte prima le seduce, poi le martoria, e infine le ammazza, scattandone alcune fotografie documentali. Finito il suo ruolo attivo di spia e assassino nel Golpe,  torna a prendere il suo nome e a esercitare la sua vera professione: pilota di aereo. Ma grottescamente la abbina alla sua vena poetica, componendo delle (impossibili) parole con le scie di fumo dei reattori, parole sopra il cielo di Santiago, sopra gli stadi dove i prigionieri politici sono ammassati. Parole “poetiche” e deliranti sulla morte: «La morte è il Cile», «La morte è responsabilità», «La morte è pulizia».
È su questo che l’esperienza di vita dell’autore si incrocia nella trama: Roberto Bolaño, vissuto fino alla fanciullezza in Cile, si era trasferito con la famiglia in Messico dove aveva vissuto per una decina d’anni, tornando in patria solo poco dopo il Golpe. Incarcerato insieme a migliaia di altri e detenuto nello stadio-prigione, si era riuscito a salvare solo perché tra i carcerieri aveva incontrato un suo vecchio compagno di scuola, che gli aveva consentito di fuggire.

Di questo vissuto entra nel romanzo il senso del potere usato a fin di Male, lo smarrimento della dimensione umana quando dalle leve del Potere viene bandita ogni morale, ogni senso comune di giustizia o carità, e al suo posto viene esercitata un’ottusa maschia crudeltà, persino stupida, inconsapevole, dimentica e superficiale. Il nazista Carlos Wieder ne incarna gli aspetti più alti e persino seducenti nella sua violenza quasi fredda, senz’anima, passione. Il suo delirio gli fornisce un alibi morale talmente solido che non avrà mai una redenzione, come è giusto che sia, e il finale ce lo restituisce come lo ha dipinto: un uomo in fondo mediocre, che credeva di essere un eroe, una piccola gestalt di un ingranaggio che funziona solo quando la politica si seppellisce per essere sostituita da un trionfalismo nazionalistico consolatorio per le masse, e garantista per i pochi detentori di ricchezze e potere. E questo ci ricorda qualcosa, o almeno dovrebbe ammonircelo.

La poesia e lo spirito   ---- - - -
©  Monica mazzitelli



domenica 9 giugno 2013

“Un romanzetto lumpen” di Roberto Bolaño

 Alessio Belli - 4 giugno 2013


“Un romanzetto lumpen” di Roberto Bolaño

Quando penso alla letteratura di Roberto Bolaño, penso a un cosmo. Un sistema solare di opere letterarie. Allineato e coerente, con un ordine – in greco kósmos, per l’appunto. Un sistema in cui il sole è 2666 – tra i due o tre lavori narrativi contemporanei più importanti – e poi tutti gli altri pianeti: I detective selvaggi, Stella distante, Puttane assassine, Il gaucho insostenibile. Ai bordi di questa galassia, c’è Una novelita lumpen: in italiano Un romanzetto lumpen (Adelphi, 2013), dove lumpen può essere tradotto anche – vista l’ambientazione che a breve affronteremo – con “popolare”, proletariamente parlando (la prima edizione italiana, pubblicata da Sellerio nel 2003, è uscita invece con il titolo Un romanzetto canaglia). Ai confini del cosmo-Bolaño, non per scarsa importanza o valenza, ma per ordine cronologico: il libro è l’ultima opera pubblicata dall’autore cileno prima della precoce dipartita avvenuta nel 2003.

Un romanzetto lumpen viene classificato come romanzo breve, ma vista la mole dei racconti pubblicati da Bolaño, conviene considerarlo un racconto lungo. Un racconto capace di attirare immediatamente il lettore nostrano per l’ambientazione. Siamo in Italia, nello specifico a Roma, in una zona periferica non specificata. Qui abitano i due protagonisti senza nome. Fratello e sorella, da poco orfani, dopo l’incidente stradale sulla Salerno-Reggio Calabria in cui hanno perso i genitori. A raccontarcelo è la protagonista femminile. L’assegno di mantenimento, l’assistente sociale, le difficoltà economiche, la scuola abbandonata, il lavoro, il complesso rapporto con il fratello. Nel frattempo, nel suo giovane corpo avviene una trasformazione. Forse dovuta al trauma, forse ai cattivi pensieri: riesce a vedere nell’oscurità. Nel buio. Viene rapita dal biancore della luna e osserva nel pieno della notte tutta la luce che c’è. Poi, all’improvviso, nella disastrata vita degli orfani entrano due amici del fratello, chiamati dalla ragazza semplicemente “Il Bolognese” e “Il Libanese”. Amici di palestra del fratello. Poco a poco, i due entreranno nella camera da letto dell’adolescente protagonista e proporranno una svolta criminale alla loro esistenza. Intanto, la depressione aumenta e il pensiero del futuro sembra qualcosa di offensivo.

Del romanzetto (Bolaño stesso ironizza sulla mole cartacea dell’opera, ma non su quella contenutistica) colpisce la capacità dell’autore di concentrare il flusso di pensieri della ragazza in una trama esigua dipanata su poche pagine. La narrazione e la scrittura sono talmente colloquiali, fluide, coinvolgenti che sembra di essere accanto alla ragazza mentre tutto il caos della sua vita esplode. Anche i momenti più traumatici e dolorosi, sembrano normali, quasi scontati. In un continuo procedere oscuro, che solo nel finale, dopo gli ultimi avvenimenti, lascia uno spiraglio di luce: quella vera, quella del giorno, non più quella della notte. Quella del futuro, della speranza.

È confortante vedere come uno dei sommi narratori contemporanei riesca a esprimere e comunicare tali messaggi anche nelle opere meno citate e blasonate. Forte dell’ambientazione neorealistica alla Pasolini, Un romanzetto lumpen è l’ennesimo libro imperdibile di Bolaño. L’ennesimo pianeta da visitare, in quel cosmo immenso e mirabile che è la sua letteratura, e che l’autore adesso può permettersi di abitare a tempo pieno.

(Roberto Bolaño, Un romanzetto lumpen, trad. di Ilide Carmignani, Adelphi, 2013, pp. 119, euro 14)


Flanerì    4 giugno 2013
© Alessio Belli 


sabato 1 giugno 2013

Bolaño È sempre bolaño

Tiziano Gianotti-

La Repubblica    maggio 2013

Bolaño È sempre bolaño
Bolaño è tra i rari scrittori di cui si può leggere tutto

Una novelita che è l’ultimo libro pubblicato in vita da Roberto Bolaño e che val la pena leggere o rileggere (per chi l’avesse già fatto nella traduzione pubblicata nel 2005 da Sellerio col titolo Un romanzetto canaglia). Val la pena, mentre sta per arrivare la sua versione filmica Futuro, per due motivi, e il primo perché Bolaño è tra i rari scrittori di cui si può leggere tutto.
Il materiale è quello della Roma immaginata da Fellini e Pasolini rivista nei toni freddi e grigi che sono dell’autore - un grigio che tiene insieme crudeltà e tenerezza, dolorosissimo. La protagonista e voce narrante, Bianca, è una ragazza orfana che vive con il fratello in situazione di ottusa indigenza, poi ci sono due straniti relitti della suburra romana, arrivati a casa al seguito del fratello e a cui Bianca si concede in alternanza, senza ben distinguerli. Infine c’è Maciste, ex-campione di culturismo finito cieco e relegato nella sua casa, figura che sembra staccata dall’affresco di 2666 per far coppia con Bianca in una immaginetta sacra e blasfema. Materiale risaputo, non fosse che la frase d’apertura con cui Bianca si presenta cambia tutto:
 «Oramai sono una madre e anche una donna sposata, ma fino a non molto tempo fa ero una delinquente». 
Bianca è una donna bolaniana, una di quelle figure intangibili e indifferenti alla metafisica dell’eros che si pone come ultima e estrema incarnazione, e nel contempo negazione, dell’eroina del dramma urbano. E così siamo al secondo motivo di lettura: nella novelita si intende l’esito del lavoro di Bolaño, una classicità ancora spuria, ma chiara.

- Roberto Bolaño, Un romanzetto Lumpen, Adelphi, euro 14,00


La Repubblica    maggio 2013
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