domenica 17 ottobre 2010

Bolaño e i suoi ‘Detective selvaggi’

Marcello Andreozzi -

ottobre 2010

Vittima di un’infatuazione adolescenziale- simile a quella che ti può prendere a quattordici anni per un cantante appena scoperto- non riesco a non cadere nella tentazione di trasmettere il verbo di un autore che pur vantando, come testimoniano le pagine di Anobii , schiere di fedeli, mi pare non conoscere ancora, almeno in Italia, la fama che la sua dimensione artistica pure gli meriterebbe.

Personalmente dopo essere rimasto folgorato l’anno scorso dall’inquietante chiaroveggenza del moloch 2666ho finito del tutto col capitolare di fronte alla resa dei conti rappresentata dai “Detective Selvaggi”. Al di là del puro e semplice piacere romanzesco che procura la lettura di uno qualunque dei suoi testi, la sensazione che ne ho ricavato, da profano ma accanito lettore, è che l’autore cileno abbia infine messo in piedi qualcosa di nuovo, uno scarto nel  discorso che attinge ad una dimensione del romanzesco ancora inesplorata- il che, per inciso, vale forse più per “2666” che per i “Detective”-qualcosa con cui fare i conti ben oltre il momento in cui hai chiuso il libro.

Nel suo caso forma e sostanza si tengono ammirevolmente avvinte: i libri sono delle strutture aperte che è possibile fruire con una lettura non lineare senza per questo compromettere il senso-i sensi?- complessivo.

Ma veniamo ai “Detective”, primo tra i due in ordine di tempo e primo pertanto di cui parlare, conformemente a un criterio rigorosamente cronologico. Il libro inizia quasi come un romanzo beat: una voce narrante racconta la scapigliatura di una piccola e misconosciuta avanguardia artistica (capeggiata dai quasi mai in scena, ma molto citati, Lima e Belano) nella Città del Messico di fine anni ’70; un romanzo picaresco di sbronze, discussioni e sesso; poi, mentre stai sgasando con Madero (questo il nome del protagonista della prima parte) su una decapottabile alla volta dei deserti di Sonora, Madero scompare di scena e la prospettiva cambia radicalmente; nella sua parte centrale, la più corposa, Bolaño, abbandonato il suo apparente protagonista al suo destino, porta in scena i su citati Lima e Belano, ricostruendone vent’anni di vita- dagli anni ’70 ai ’90- ma lo fa attraverso una prospettazione indiretta e caleidoscopica, lo fa infatti, con corposi salti temporali, attraverso i racconti di chi li ha conosciuti nel loro peregrinare per il mondo, solo che nel procedere della narrazione questi singoli resoconti diventano del tutto autonomi, fino a costituire una sorta di mille e una notte, raccontata da altrettante disilluse Sherazad, che finiscono per narrare spesso più di se stessi che dei protagonisti e, comunque in ogni caso, altro dalla vita dei due eroi, tanto che questi, pur sempre presenti, ci appaiono da ultimo sempre più persi nella distanza fisica e temporale che la narrazione crea, come visti attraverso un binocolo rovesciato, assolutamente contraddittori nelle immagini talvolta opposte che i saltuari testimoni della loro vicenda ogni volta ne trasmettono: alle volte degli spregevoli truffatori senza scrupoli, altre dei cavalieri senza macchia e senza paura, sempre più lontani uno dall’altro, e comunque entrambi dai sogni e dalle speranze del mondo dei loro vent’anni che i resoconti indiretti degli invisibili narratori ci raccontano andare in pezzi, inesorabile vittima del principio di entropia. Così alla fine ci rimane la sensazione di aver assistito in presa diretta, attraverso il collage di storie, pure per certi versi insignificanti, a un naufragio di vite e ideologie, ma il tutto col tono lieve e il tocco del saggio che ama comunque le vite che racconta, e prima ancora ama raccontare. Ma mentre lo spleen ci prende, di fronte alla disillusione, ecco che Bolano, quasi risarcirci del presente, con un salto all’indietro da acrobata, nell’ultima parte ci riporta a bordo della decapottabile di Madero, di nuovo in viaggio verso il deserto di Sonora, di nuovo a inizio anni ‘70 dove tutto era cominciato. Sulla decapottabile con Madero viaggiano anche Lima e Belano e, non ultima, una puttana, tutti e quattro scappano da qualcosa, ma soprattutto, tutti e quattro inseguono qualcosa, cose diverse certo, ma tutte incarnate da un’improbabile poeta, autrice di una sola, conosciuta, seminale poesia.

Non sto a dire se la troveranno, di certo troveranno la poesia, e noi con loro, in un finale che più aperto non si può, se non come le vite, certo come la vita. Grazie Bolano.


Il fatto quotidiano   - - - -
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