Intervista a Massimo Rizzante, a cura di Luigi Nacci - ottobre 2007
Absolute Ville - - - -L’Italia, vivaio di gerarchetti per chiunque cammini a quattro zampe
Luigi Nacci (LN): Massimo Rizzante, poeta, saggista, traduttore, insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Letterature Comparate presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Ha studiato all’Università di Urbino, poi in Belgio, in Olanda, in Austria, in Francia. Una formazione umanistica ricca ed europea. Le chiedo, alla luce di una così ampia capacità di sguardo: ci sono a suo modo di vedere delle differenze tra la poesia italiana contemporanea e quella degli altri paesi europei? Se sì, quali?
Massimo Rizzante (MR): Ho studiato a Urbino nel corso degli anni Ottanta. Per un certo periodo frequentavo un palazzo, Palazzo Benedetti, dove vivevano alcune amiche. Sulla parete di una stanza c’era disegnato – non sono mai riuscito a sapere da chi – un drago. Ho trascorso molte notti in quella stanza. Si può dire che una parte di me, la mia parte poetica vi abbia residenza fissa. Lì è iniziata la mia personale lotta con il drago che, a differenza del santo della tradizione cristiana, non conduce a nessuna liberazione dal male. Non posso sconfiggere il drago. Primo, perché il male sta nel volersi liberare dal male. Secondo, perché così facendo dovrei accettare un’altra sconfitta, quella della creazione poetica. Poi, agli inizi degli anni Novanta, sono uscito dalla stanza del drago (una parte di me, soltanto una parte...). Sono andato a Roma, a Leuven, nelle Fiandre, un breve soggiorno a Nimega in Olanda, un altro a Klagenfurt (da adolescente Vienna – prima di Roma, prima di Milano – è stata la grande città che ho visitato e dove sono ritornato spesso fino ai vent’anni). Poi di nuovo nella piccola patria veneziana (sono e resterò sempre un “provinciale cosmopolita”). Infine a Parigi, dove sono rimasto alcuni anni. A Parigi ho fatto molti incontri importanti. Il più importante di tutti è stato quello con Milan Kundera. Tra il 1992 e il 1997 – anno in cui Kundera chiuse i battenti del “Seminario sul romanzo europeo” – ero l’unico italiano che una volta alla settimana andava e veniva dalla piccola aula del sesto piano dell’Ecole des Hautes Etudes di Boulevard Raspail. Lì, in modo spesso semiclandestino a causa del timor panico che Kundera aveva degli «agelasti», si riuniva un ristretto gruppo di lettori di romanzi. Sì, ciò che legava quelle persone (vorrei ricordare almeno, fra coloro che frequentavo di più, Lakis Proguidis, Marek Bienczyk, François Ricard, Guy Scarpetta, Benoît Dutertre, etc.), oltre la loro non appartenenza alla genia degli «agelasti» – categoria di persone a cui con il cordone ombelicale hanno tagliato per sempre il senso del comico – era la passione per la bellezza prosaica del mondo, una bellezza che solo il romanzo, secondo quanto ci convincevamo sempre più, può scoprire ed esplorare. Paradosso fondamentale: sulla soglia della stanza del drago c’è un maturo usciere maligno, pieno di lusinghe, tentazioni, tesori di esperienza, ricordi osceni, imprevedibili banalità. In altre parole il custode della stanza del drago è un uomo prosaico. Nel mio breve cammino di poeta ho incontrato quasi esclusivamente grandi romanzieri non italiani. Questo la dice lunga sul nocciolo prosaico della mia poesia, sul fatto che io non mi ritengo un puro facitore di versi (una parte di me, solo una parte...), sul mio contrastato rapporto con l’Italia (“vivaio di gerarchetti e pater nostri/paradiso terrestre per chiunque cammini a quattro zampe”, come recita un mio verso tratto da una poesia della seconda raccolta, Nessuno, Manni, Lecce, 2007). Sono un poeta che legge soprattutto romanzi e scrive saggi. Non so, perciò, se sono in grado di rispondere alla sua domanda davvero impegnativa sulle eventuali differenze tra la poesia italiana e quella di altri paesi. Posso dirle questo: oltre che una storia, c’è una geografia nei miei versi. Voglio dire che la mia poesia ambirebbe a coniugare il «senso storico» – riuscire a descrivere un orizzonte dove tutto il passato è presente – all’«investigazione dei luoghi», una sorta di scoperta poetica dei luoghi (che è spesso, naturalmente, scoperta di voci poetiche). Imitazioni, omaggi, traduzioni, commenti hanno proprio questa funzione: estinguere quel ridicolo monarca chiamato “io”, estinguere quella specie di monarchia chiamata “letteratura nazionale”. Resto eliotiano (sebbene di un Eliot illuminato e “tradotto” da Seferis, un poeta-chiave per me): «Il sentimento dell’arte è impersonale». E resto gombrowicziano: nel suo Diario, scritto tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso quasi interamente durante il suo esilio in Argentina, affermava che la cultura polacca doveva, per emanciparsi dalla sua «polacchità», abbandonare ogni culto nazionale. Jorge Luis Borges, non proprio un poeta e scrittore amato da Gombrowicz, nella stessa epoca pronunciava una conferenza – “Lo scrittore argentino e la tradizione” – nella quale si domandava: «Qual è la tradizione argentina? ... Credo che la nostra tradizione sia l’intera cultura occidentale». Queste parole furono pronunciate nel 1953. Non crede che più di cinquant’anni dopo, nel nostro mondo che si vuole così emancipato e multiculturale, hanno assunto ancor più significato? Sylvie Richterova, poetessa, scrittrice e saggista ceca, che mi onora della sua amicizia, alla fine della sua “Lettera a un poeta”, che fa da Prefazione al mio primo libro di poesie, Lettere d’amore e altre rovine (Biblioteca Cominiana, Padova, 1999), scrive: “Cultura: certo, ma hai letto anche Holan, Crnjanskij, Milosz. Hai frequentato scuole italiane, università francesi, muri parigini, paesi bassi, paesaggi belgi, finlandesi, sovietici, atlantici, serbi e bosniaci”. Ora, non tutti i viaggi dell’immaginazione poetica sono veri (ad esempio, non sono mai stato in Finlandia). Holan, Crnjanskij, Czeslaw Milosz sono alcuni nomi di poeti del XX secolo che ho cercato di «imitare» (senza «imitazione» non c’é «variazione», e quindi neppure «originalità»: che cosa si può ereditare se non si imita?). Le potrei fare altri nomi. Mi limito a quell’area culturale che mi ostino a chiamare Europa centrale. Oltre a quelli citati, mi vengono in mente Herbert, il cui ethos e «senso storico» sento vicini (senza il «signor Cogito» non so se il giovane signor Telemaco, il personaggio principale della mia seconda raccolta, sarebbe così com’è). Sempre in ambito polacco, Rozewicz, testimone del XX secolo (Rozewicz è, a mio avviso, l’altra possibilità del «fare poesia dopo Auschwitz» rispetto a Celan, la possibilità per così dire «non metaforica», realistica, ordinaria) di cui fra qualche mese uscirà la prima antologia in lingua italiana a cura di Silvano De Fanti nella collana “Biblioteca di poesia” di Metauro (Pesaro). E poi la vena surrealista boema, da Jiri Kolar a Ivan Wernisch; e quella ironica, stupita, profonda, da Jan Skácel (uno dei miei preferiti. Ecco alcuni versi nella traduzione di Annalisa Cosentino: “Abbiamo voglia soprattutto di dormire/e meditiamo come rivolgerci alla morte/Senza di lei non ci sarebbe l’infanzia/la regione della cava libertà dei fili d’erba” ) a Petr Král (che mi regala da diversi anni la sua amicizia e che ha scritto la Postfazione al secondo libro). Ecco: quello che cerco e non trovo nella poesia italiana è una certa immaginazione che flirta con il grottesco, con i rampicanti della follia (in verità, c’è la poesia di Angelo Maria Ripellino che della follia russa e ceca si è nutrito, e che, non a caso, è guardato dai «poeti italiani» come fosse un giardino eccentrico – un orto botanico o una serra tropicale – curato da pochissimi intimi, a cui va tutta la mia stima).
Massimo Rizzante (MR): Ho studiato a Urbino nel corso degli anni Ottanta. Per un certo periodo frequentavo un palazzo, Palazzo Benedetti, dove vivevano alcune amiche. Sulla parete di una stanza c’era disegnato – non sono mai riuscito a sapere da chi – un drago. Ho trascorso molte notti in quella stanza. Si può dire che una parte di me, la mia parte poetica vi abbia residenza fissa. Lì è iniziata la mia personale lotta con il drago che, a differenza del santo della tradizione cristiana, non conduce a nessuna liberazione dal male. Non posso sconfiggere il drago. Primo, perché il male sta nel volersi liberare dal male. Secondo, perché così facendo dovrei accettare un’altra sconfitta, quella della creazione poetica. Poi, agli inizi degli anni Novanta, sono uscito dalla stanza del drago (una parte di me, soltanto una parte...). Sono andato a Roma, a Leuven, nelle Fiandre, un breve soggiorno a Nimega in Olanda, un altro a Klagenfurt (da adolescente Vienna – prima di Roma, prima di Milano – è stata la grande città che ho visitato e dove sono ritornato spesso fino ai vent’anni). Poi di nuovo nella piccola patria veneziana (sono e resterò sempre un “provinciale cosmopolita”). Infine a Parigi, dove sono rimasto alcuni anni. A Parigi ho fatto molti incontri importanti. Il più importante di tutti è stato quello con Milan Kundera. Tra il 1992 e il 1997 – anno in cui Kundera chiuse i battenti del “Seminario sul romanzo europeo” – ero l’unico italiano che una volta alla settimana andava e veniva dalla piccola aula del sesto piano dell’Ecole des Hautes Etudes di Boulevard Raspail. Lì, in modo spesso semiclandestino a causa del timor panico che Kundera aveva degli «agelasti», si riuniva un ristretto gruppo di lettori di romanzi. Sì, ciò che legava quelle persone (vorrei ricordare almeno, fra coloro che frequentavo di più, Lakis Proguidis, Marek Bienczyk, François Ricard, Guy Scarpetta, Benoît Dutertre, etc.), oltre la loro non appartenenza alla genia degli «agelasti» – categoria di persone a cui con il cordone ombelicale hanno tagliato per sempre il senso del comico – era la passione per la bellezza prosaica del mondo, una bellezza che solo il romanzo, secondo quanto ci convincevamo sempre più, può scoprire ed esplorare. Paradosso fondamentale: sulla soglia della stanza del drago c’è un maturo usciere maligno, pieno di lusinghe, tentazioni, tesori di esperienza, ricordi osceni, imprevedibili banalità. In altre parole il custode della stanza del drago è un uomo prosaico. Nel mio breve cammino di poeta ho incontrato quasi esclusivamente grandi romanzieri non italiani. Questo la dice lunga sul nocciolo prosaico della mia poesia, sul fatto che io non mi ritengo un puro facitore di versi (una parte di me, solo una parte...), sul mio contrastato rapporto con l’Italia (“vivaio di gerarchetti e pater nostri/paradiso terrestre per chiunque cammini a quattro zampe”, come recita un mio verso tratto da una poesia della seconda raccolta, Nessuno, Manni, Lecce, 2007). Sono un poeta che legge soprattutto romanzi e scrive saggi. Non so, perciò, se sono in grado di rispondere alla sua domanda davvero impegnativa sulle eventuali differenze tra la poesia italiana e quella di altri paesi. Posso dirle questo: oltre che una storia, c’è una geografia nei miei versi. Voglio dire che la mia poesia ambirebbe a coniugare il «senso storico» – riuscire a descrivere un orizzonte dove tutto il passato è presente – all’«investigazione dei luoghi», una sorta di scoperta poetica dei luoghi (che è spesso, naturalmente, scoperta di voci poetiche). Imitazioni, omaggi, traduzioni, commenti hanno proprio questa funzione: estinguere quel ridicolo monarca chiamato “io”, estinguere quella specie di monarchia chiamata “letteratura nazionale”. Resto eliotiano (sebbene di un Eliot illuminato e “tradotto” da Seferis, un poeta-chiave per me): «Il sentimento dell’arte è impersonale». E resto gombrowicziano: nel suo Diario, scritto tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso quasi interamente durante il suo esilio in Argentina, affermava che la cultura polacca doveva, per emanciparsi dalla sua «polacchità», abbandonare ogni culto nazionale. Jorge Luis Borges, non proprio un poeta e scrittore amato da Gombrowicz, nella stessa epoca pronunciava una conferenza – “Lo scrittore argentino e la tradizione” – nella quale si domandava: «Qual è la tradizione argentina? ... Credo che la nostra tradizione sia l’intera cultura occidentale». Queste parole furono pronunciate nel 1953. Non crede che più di cinquant’anni dopo, nel nostro mondo che si vuole così emancipato e multiculturale, hanno assunto ancor più significato? Sylvie Richterova, poetessa, scrittrice e saggista ceca, che mi onora della sua amicizia, alla fine della sua “Lettera a un poeta”, che fa da Prefazione al mio primo libro di poesie, Lettere d’amore e altre rovine (Biblioteca Cominiana, Padova, 1999), scrive: “Cultura: certo, ma hai letto anche Holan, Crnjanskij, Milosz. Hai frequentato scuole italiane, università francesi, muri parigini, paesi bassi, paesaggi belgi, finlandesi, sovietici, atlantici, serbi e bosniaci”. Ora, non tutti i viaggi dell’immaginazione poetica sono veri (ad esempio, non sono mai stato in Finlandia). Holan, Crnjanskij, Czeslaw Milosz sono alcuni nomi di poeti del XX secolo che ho cercato di «imitare» (senza «imitazione» non c’é «variazione», e quindi neppure «originalità»: che cosa si può ereditare se non si imita?). Le potrei fare altri nomi. Mi limito a quell’area culturale che mi ostino a chiamare Europa centrale. Oltre a quelli citati, mi vengono in mente Herbert, il cui ethos e «senso storico» sento vicini (senza il «signor Cogito» non so se il giovane signor Telemaco, il personaggio principale della mia seconda raccolta, sarebbe così com’è). Sempre in ambito polacco, Rozewicz, testimone del XX secolo (Rozewicz è, a mio avviso, l’altra possibilità del «fare poesia dopo Auschwitz» rispetto a Celan, la possibilità per così dire «non metaforica», realistica, ordinaria) di cui fra qualche mese uscirà la prima antologia in lingua italiana a cura di Silvano De Fanti nella collana “Biblioteca di poesia” di Metauro (Pesaro). E poi la vena surrealista boema, da Jiri Kolar a Ivan Wernisch; e quella ironica, stupita, profonda, da Jan Skácel (uno dei miei preferiti. Ecco alcuni versi nella traduzione di Annalisa Cosentino: “Abbiamo voglia soprattutto di dormire/e meditiamo come rivolgerci alla morte/Senza di lei non ci sarebbe l’infanzia/la regione della cava libertà dei fili d’erba” ) a Petr Král (che mi regala da diversi anni la sua amicizia e che ha scritto la Postfazione al secondo libro). Ecco: quello che cerco e non trovo nella poesia italiana è una certa immaginazione che flirta con il grottesco, con i rampicanti della follia (in verità, c’è la poesia di Angelo Maria Ripellino che della follia russa e ceca si è nutrito, e che, non a caso, è guardato dai «poeti italiani» come fosse un giardino eccentrico – un orto botanico o una serra tropicale – curato da pochissimi intimi, a cui va tutta la mia stima).