Intervista a Massimo Rizzante, a cura di Luigi Nacci - ottobre 2007
Absolute Ville - - - -L’Italia, vivaio di gerarchetti per chiunque cammini a quattro zampe
Luigi Nacci (LN): Massimo Rizzante, poeta, saggista, traduttore, insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Letterature Comparate presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Ha studiato all’Università di Urbino, poi in Belgio, in Olanda, in Austria, in Francia. Una formazione umanistica ricca ed europea. Le chiedo, alla luce di una così ampia capacità di sguardo: ci sono a suo modo di vedere delle differenze tra la poesia italiana contemporanea e quella degli altri paesi europei? Se sì, quali?
Massimo Rizzante (MR): Ho studiato a Urbino nel corso degli anni Ottanta. Per un certo periodo frequentavo un palazzo, Palazzo Benedetti, dove vivevano alcune amiche. Sulla parete di una stanza c’era disegnato – non sono mai riuscito a sapere da chi – un drago. Ho trascorso molte notti in quella stanza. Si può dire che una parte di me, la mia parte poetica vi abbia residenza fissa. Lì è iniziata la mia personale lotta con il drago che, a differenza del santo della tradizione cristiana, non conduce a nessuna liberazione dal male. Non posso sconfiggere il drago. Primo, perché il male sta nel volersi liberare dal male. Secondo, perché così facendo dovrei accettare un’altra sconfitta, quella della creazione poetica. Poi, agli inizi degli anni Novanta, sono uscito dalla stanza del drago (una parte di me, soltanto una parte...). Sono andato a Roma, a Leuven, nelle Fiandre, un breve soggiorno a Nimega in Olanda, un altro a Klagenfurt (da adolescente Vienna – prima di Roma, prima di Milano – è stata la grande città che ho visitato e dove sono ritornato spesso fino ai vent’anni). Poi di nuovo nella piccola patria veneziana (sono e resterò sempre un “provinciale cosmopolita”). Infine a Parigi, dove sono rimasto alcuni anni. A Parigi ho fatto molti incontri importanti. Il più importante di tutti è stato quello con Milan Kundera. Tra il 1992 e il 1997 – anno in cui Kundera chiuse i battenti del “Seminario sul romanzo europeo” – ero l’unico italiano che una volta alla settimana andava e veniva dalla piccola aula del sesto piano dell’Ecole des Hautes Etudes di Boulevard Raspail. Lì, in modo spesso semiclandestino a causa del timor panico che Kundera aveva degli «agelasti», si riuniva un ristretto gruppo di lettori di romanzi. Sì, ciò che legava quelle persone (vorrei ricordare almeno, fra coloro che frequentavo di più, Lakis Proguidis, Marek Bienczyk, François Ricard, Guy Scarpetta, Benoît Dutertre, etc.), oltre la loro non appartenenza alla genia degli «agelasti» – categoria di persone a cui con il cordone ombelicale hanno tagliato per sempre il senso del comico – era la passione per la bellezza prosaica del mondo, una bellezza che solo il romanzo, secondo quanto ci convincevamo sempre più, può scoprire ed esplorare. Paradosso fondamentale: sulla soglia della stanza del drago c’è un maturo usciere maligno, pieno di lusinghe, tentazioni, tesori di esperienza, ricordi osceni, imprevedibili banalità. In altre parole il custode della stanza del drago è un uomo prosaico. Nel mio breve cammino di poeta ho incontrato quasi esclusivamente grandi romanzieri non italiani. Questo la dice lunga sul nocciolo prosaico della mia poesia, sul fatto che io non mi ritengo un puro facitore di versi (una parte di me, solo una parte...), sul mio contrastato rapporto con l’Italia (“vivaio di gerarchetti e pater nostri/paradiso terrestre per chiunque cammini a quattro zampe”, come recita un mio verso tratto da una poesia della seconda raccolta, Nessuno, Manni, Lecce, 2007). Sono un poeta che legge soprattutto romanzi e scrive saggi. Non so, perciò, se sono in grado di rispondere alla sua domanda davvero impegnativa sulle eventuali differenze tra la poesia italiana e quella di altri paesi. Posso dirle questo: oltre che una storia, c’è una geografia nei miei versi. Voglio dire che la mia poesia ambirebbe a coniugare il «senso storico» – riuscire a descrivere un orizzonte dove tutto il passato è presente – all’«investigazione dei luoghi», una sorta di scoperta poetica dei luoghi (che è spesso, naturalmente, scoperta di voci poetiche). Imitazioni, omaggi, traduzioni, commenti hanno proprio questa funzione: estinguere quel ridicolo monarca chiamato “io”, estinguere quella specie di monarchia chiamata “letteratura nazionale”. Resto eliotiano (sebbene di un Eliot illuminato e “tradotto” da Seferis, un poeta-chiave per me): «Il sentimento dell’arte è impersonale». E resto gombrowicziano: nel suo Diario, scritto tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso quasi interamente durante il suo esilio in Argentina, affermava che la cultura polacca doveva, per emanciparsi dalla sua «polacchità», abbandonare ogni culto nazionale. Jorge Luis Borges, non proprio un poeta e scrittore amato da Gombrowicz, nella stessa epoca pronunciava una conferenza – “Lo scrittore argentino e la tradizione” – nella quale si domandava: «Qual è la tradizione argentina? ... Credo che la nostra tradizione sia l’intera cultura occidentale». Queste parole furono pronunciate nel 1953. Non crede che più di cinquant’anni dopo, nel nostro mondo che si vuole così emancipato e multiculturale, hanno assunto ancor più significato? Sylvie Richterova, poetessa, scrittrice e saggista ceca, che mi onora della sua amicizia, alla fine della sua “Lettera a un poeta”, che fa da Prefazione al mio primo libro di poesie, Lettere d’amore e altre rovine (Biblioteca Cominiana, Padova, 1999), scrive: “Cultura: certo, ma hai letto anche Holan, Crnjanskij, Milosz. Hai frequentato scuole italiane, università francesi, muri parigini, paesi bassi, paesaggi belgi, finlandesi, sovietici, atlantici, serbi e bosniaci”. Ora, non tutti i viaggi dell’immaginazione poetica sono veri (ad esempio, non sono mai stato in Finlandia). Holan, Crnjanskij, Czeslaw Milosz sono alcuni nomi di poeti del XX secolo che ho cercato di «imitare» (senza «imitazione» non c’é «variazione», e quindi neppure «originalità»: che cosa si può ereditare se non si imita?). Le potrei fare altri nomi. Mi limito a quell’area culturale che mi ostino a chiamare Europa centrale. Oltre a quelli citati, mi vengono in mente Herbert, il cui ethos e «senso storico» sento vicini (senza il «signor Cogito» non so se il giovane signor Telemaco, il personaggio principale della mia seconda raccolta, sarebbe così com’è). Sempre in ambito polacco, Rozewicz, testimone del XX secolo (Rozewicz è, a mio avviso, l’altra possibilità del «fare poesia dopo Auschwitz» rispetto a Celan, la possibilità per così dire «non metaforica», realistica, ordinaria) di cui fra qualche mese uscirà la prima antologia in lingua italiana a cura di Silvano De Fanti nella collana “Biblioteca di poesia” di Metauro (Pesaro). E poi la vena surrealista boema, da Jiri Kolar a Ivan Wernisch; e quella ironica, stupita, profonda, da Jan Skácel (uno dei miei preferiti. Ecco alcuni versi nella traduzione di Annalisa Cosentino: “Abbiamo voglia soprattutto di dormire/e meditiamo come rivolgerci alla morte/Senza di lei non ci sarebbe l’infanzia/la regione della cava libertà dei fili d’erba” ) a Petr Král (che mi regala da diversi anni la sua amicizia e che ha scritto la Postfazione al secondo libro). Ecco: quello che cerco e non trovo nella poesia italiana è una certa immaginazione che flirta con il grottesco, con i rampicanti della follia (in verità, c’è la poesia di Angelo Maria Ripellino che della follia russa e ceca si è nutrito, e che, non a caso, è guardato dai «poeti italiani» come fosse un giardino eccentrico – un orto botanico o una serra tropicale – curato da pochissimi intimi, a cui va tutta la mia stima).
La poesia italiana è lirica e dolente o è mentale. Oppure, sperimentale! In essa non trovo nemmeno una vera vena ironica (Giudici? No, grazie. Sanguineti? Nein, danke schön. I love Philip Larkin!) in grado di compatire gli uomini e di fermarsi davanti al mistero racchiuso nei dettagli triviali, osceni, prosaici del mondo (il regno fiammingo dei dettagli, il regno russo dei dettagli, il regno centroeuropeo dei dettagli, il regno di Dio nei dettagli!). Nella poesia italiana mi manca la coscienza della distanza che si misura con la devastazione che il troppo sapere o la brutale assenza di sapere provoca in una natura umana: una coscienza che è respiro naturale e che con un soffio fa crollare il castello di carta della cultura.
LN: Ha fatto parte di “Baldus”, rivista letteraria fondata da Mariano Bàino, Biagio Cepollaro e Lello Voce, che ha rappresentato un luogo fondamentale per il dibattito poetico di fine Novecento. Da poco è uscita, a sua cura e di Lello Voce, un bel volume (Baldus. Antologia completa, Maledizioni – No Reply, 2007) che presenta in formato CD-rom la digitalizzazione di tutti i dieci numeri dal 1990 al 1996. A distanza di undici anni, come giudica l’esperienza baldusiana? Secondo lei, nel 2007 sarebbe possibile riproporre una rivista di quel tipo?
MR: Ho incontrato Lello Voce alla fine del 1990, a Roma. Poi, in seguito, ci siamo visti spesso a Treviso. Ho conosciuto Biagio Cepollaro a Milano, l’anno dopo, e Mariano Baino a Napoli. A Milano, e durante diversi incontri di redazione a Treviso, ho conosciuto chi fin dall’inizio aveva illustrato, o meglio, commentato con i suoi disegni, le pagine della rivista. Sto parlando di Andrea Pedrazzini, un artista unico, eccezionale. Ho partecipato attivamente alla rivista soltanto a partire dalla fine del 1993, quando “Baldus” iniziò una nuova serie. Voleva prendere un’altra strada. Allargò i suoi interessi e fece entrare gradualmente forze nuove, persone molte diverse tra loro: Antonio Paghi, Massimo Castoldi, Giampaolo Renello, Francesco Forlani, Gian Mario Villalta, Andrea Inglese. Da quel momento, finita la bisboccia d’opinioni dei presunti «numi tutelari» del Gruppo 63 con relativo controaltare dei presunti «nembi» del perbenismo lirico italiano, la rivista sembrò, come un’auto usata, perdere qualche colpo. In realtà eravamo entrati nel cono d’ombra dopo il passaggio frettoloso dei riflettori ideologici e mediatici. Era tempo di lavorare. E infatti uscirono dal 1994 al 1996, alcuni numeri importanti, tutti con un parte monografica su un poeta e scrittore contemporaneo. Ricordo quelli su Ernesto Calzavara, Andrea Zanzotto e Haroldo de Campos. La strada intrapresa dalla Nuova Serie aveva uno spettro molto ampio e rifletteva la molteplicità degli interessi della redazione: poesia, romanzo, saggio, filologia, nuove tecnologie, filosofia, arte. Come penso sia giusto. Nella diversità tre elementi ci tenevano uniti: non eravamo disposti a lasciare la “tradizione” nelle mani di sedentari “esperti” della materia: la “tradizione” è un insieme di opere vive che attendono di essere fecondate dall’immaginazione di coloro che vivono; non eravamo disponibili a venire tranquillamente a patti con il mondo “post-”; non rinunciavamo al pensiero critico, sebbene avessimo avvertito con qualche minuto di anticipo le scosse dell’ottavo o nono grado della scala Richter del movimento tellurico che di lì a poco avrebbe sconquassato il sapere umanistico, la sua leggibilità e la sua trasmissibilità. Oggi non so se sarebbe riproponibile un’esperienza del genere. Oggi non so neppure se la rivista letteraria sarebbe riproponibile come “genere”. Nell’introduzione da lei citata, mi soffermo su questo aspetto. E mi domando: «Perchè dunque la rivista, e in particolare la rivista letteraria, è snobbata da tutti? Ma ammettiamo che sia sempre andata in questo modo. Perché oggi perfino la marginalità dell’arte ha perduto la sua aura?».
Credo che la seconda domanda contenga la prima. Forse il problema, oggi, è esplorare in profondità il profondo desiderio dell’uomo di liberarsi del proprio passato. Ora, nessun rinascimento culturale o rigenerazione umana sono stati possibili fino ad ora senza una messa o fuoco del passato. Per mettere a fuoco il passato bisogna farsi da parte, disertare l’attualità, tradire la comunità per amore della comunità. Oggi pensiamo sia sufficiente archiviare il passato. La morale dell’archivio mette in archivio l’uomo, la sua immaginazione, la sua fede di rinascere e di rigenerarsi ai margini delle rovine. La cosa può entusiasmare molti, tutti coloro che in segreto desiderano la fine dell’uomo, non certo il sottoscritto per cui l’arte resta la custode della forma umana. E se l’uomo è il passato di cui ci si vuole liberare...
LN: Lei chiude l’introduzione al volume appena citato affermando che, mentre (negli anni Novanta) si moltiplicavano le scuole di scrittura, a cui era affidata «la missione di trasformare la letteratura in un compito per studenti alle prese con soggetti e temi preconfezionati, pronti per il mercato planetario del tempo libero», si doveva «perseverare con Octavio Paz e Haroldo De Campos nel pensare che la funzione della poesia è quella di essere un antidoto al mercato». Cosa è cambiato – sempre che qualcosa sia cambiato – da quel tempo?
MR: Alla fine della mia introduzione al volume, prima delle frasi da lei riportate, scrivevo che nel corso degli anni Novanta si moltiplicavano in Italia, con grave ritardo rispetto agli Stati Uniti e ad altri paesi europei, i «nano-istitutori che alle riviste letterarie preferivano le “scuole di scrittura”». Pressoché nessuno ha resistito al richiamo di queste sirene: quadri societari, impiegati, casalinghe, studenti, free-lancers, disoccupati, professionisti, avvocati, medici e soprattutto aspiranti “scrittori italiani” che spesso sono diventati “scrittori italiani”, grazie agli inviti ricevuti da altri “scrittori italiani” a partecipare ai corsi di creative writing. Ci si faceva e ci si fa un “nome“ – in questo senso non è cambiato nulla da dieci anni a questa parte – in Italia trasformando «la letteratura in un compito per studenti alle prese con soggetti e temi preconfezionati, pronti per il mercato planetario del tempo libero». In Italia, prima abbiamo avuto Eco, la cui assenza di talento romanzesco è inversamente proporzionale alla sua cultura letteraria, il quale, probabilmente malgré lui, ha aizzato più di una generazione a costruire modellini storico-enciclopedici (qualcuno addirittura è giunto all’interpretazione enigmistica della realtà) per lettori-modello alla ricerca di avventure nel mondo del «sapere»: si può dire che i modellini di Eco sono diventati il gioco preferito di una nuova categoria di persone, nata tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso, e diventata da allora, appunto, planetaria: i turisti del sapere! Accorrete a Ecoland, accorrete: qui ogni sapere diventa un gioco, un passatempo intelligente! Poi sono arrivati i nano-scrittori-manager con le loro scuole di scrittura. Anche la “scuola di scrittura” è un passatempo intelligente, un luogo per turisti del sapere. Niente di più, niente di meno. Fa campare “gli scrittori italiani” prima che diventino “grandi scrittori italiani”, è un luogo idoneo per intrecciare relazioni amorose o sessuali, a volte si trasforma in collana per editori dal fiato corto. Tuttavia due veri danni le scuole di scrittura provocano: primo, alimentano la metastasi del romanzo di “genere”, alimentano, cioè il Kitsch, il Male, ovvero la ripetizione delle forme; secondo, riducendo l’arte a qualcosa di trasmissibile – l’arte ridotta a corso di formazione – riducono enormemente le ambizioni dell’arte. Da qui la grottesca possibilità che i nano-scrittori di oggi risultino in avvenire dei giganti agli occhi di giovani talenti ormai spogliati di quella personalità invisibile che non coincide mai con il nostro nome e senza la quale siamo tutti dei marmocchi che pendono dalle labbra del professor Eco o di qualche altro tutor di quel corso universitario lastricato di sangue e sudore che si chiama successo letterario. Quanto all’ultima frase, quella in cui, con l’aiuto di Octavio Paz e Haroldo De Campos – qui posti idealmente uno accanto all’altro – parlo della poesia come «antidoto» al mercato, e in particolare al «mercato planetario del tempo libero», è legata a quello che ho affermato precedentemente. L’opposizione tra poesia e modernità non è accidentale, ma consustanziale. Haroldo De Campos guardava al passato, a tutto il passato poetico e umano, come una «cosa aperta». Compito del poeta è quello di integrare nel presente, di rendere contemporaneo, quell’immenso patrimonio. In una delle sue ultime opere, La otra voz, quasi un testamento letterario, Paz scrive (traduco all’impronta): «Una poesia può essere moderna per i suoi temi, per il suo linguaggio, per la sua forma, ma quanto alla sua natura profonda essa esprime una voce antimoderna. La poesia esprime realtà estranee alla modernità, mondi e strati psichici che non soltanto sono antichi ma anche impermeabili ai cambiamenti storici». Non so se siamo alla fine della modernità, già oltre, o, senza saperlo, siamo precipitati all’indietro di secoli. Quello che so è che «l’altra voce», cioè come afferma Paz, la voce che «ha mille anni, la nostra età e tuttavia non è ancora nata», quella voce che non porta il nostro nome («Nulla distingue il poeta dagli altro uomini e donne, tranne quei momenti – rari sebbene frequenti – in cui essendo se stesso egli è un altro», afferma ancora Paz), non deve estinguersi. A costo di assomigliare a una voce dell’oltretomba.
LN: Ha fatto parte del “Seminario sul romanzo europeo” diretto da Milan Kundera ed è redattore de “L’Atelier du Roman”, una rivista francese sulla quale hanno scritto personaggi del calibro di Fernando Arrabal o lo stesso Kundera. Qual è, se si può condensare in una risposta, lo stato di salute del romanzo italiano? Quali sono gli autori più promettenti?
MR: L’avventura dell’“Atelier du roman” – avventura che è giunta in questi giorni al numero 50 – è nata alla fine del 1993 all’interno del “Seminario sul romanzo europeo” diretto da Milan Kundera. Tuttavia, Kundera ha partecipato all’impresa solo all’inizio. Poi, grazie all’infaticabile lavoro del suo direttore, Lakis Proguidis, e di sua moglie Doris, la rivista è andata per il mondo con le sue gambe. Oggi “L’Atelier du roman” si realizza a Montréal, è edito e stampato a Parigi da Flammarion, ha fondato una collana di saggi, è distribuito in molti paesi, e in Grecia, alla fine di settembre, organizza ogni anno un Incontro Internazionale sul romanzo. I quattro princîpi, se così si può dire, a cui la rivista si attiene sono: originalità degli interventi; indifferenza alle rassegne stampa: nello stesso numero si possono trovare un saggio su Rabelais, uno su Onetti o Roa Bastos, e una critica a un romanzo di uno sconosciuto; priorità agli artisti piuttosto che agli «specialisti»; sguardo sovranazionale per cui vengono accolti testi di autori di tutto il mondo, del presente e del passato. I quattro principi discendono inevitabilmente da quello che les élèves apprendevano durante i seminari: la «pedagogia» kunderiana ci ha insegnato a pensare il romanzo come «un’arte» autonoma, con una sua data di nascita e una sua storia, ad avvicinarci alle opere «in modo concreto», studiandone cioè minuziosamente i problemi formali, ma senza mai dimenticare che lo studio della «forma» è finalizzato a cogliere gli «aspetti sconosciuti dell’esistenza». Infine, a porre in secondo piano le lingue e le letterature nazionali rispetto al valore estetico unico e insostituibile di ogni opera. Ciò significa comparare le opere romanzesche sotto un unico cielo: la storia dell’arte del romanzo. Qualcosa di pressoché inconcepibile nelle università come nei salotti letterari italiani, e non solo italiani! Non so precisamente quanti romanzieri, nel corso di questi anni, hanno partecipato all’impresa atelieresca. Credo più di duecento, fra i quali, gli artisti viventi più importanti, noti e meno noti: Oe, Kundera, Saramago, Sabato, Ph. Roth, Bellow, Martin Amis, Rushdie, Grass, Piglia, Vila-Matas, Arrabal, Houellebecq, etc. Grazie all’“Atelier du roman” ho scoperto autori ancora non molto conosciuti, ma di grande valore: Angel Wagenstein, Benoît Dutertre, François Taillandier, Michel Host, Ghiannis Kiurtsakis, Takis Teodoropulos, Marek Bienczyk, Ph. Muray, etc. E, fra i critici letterari e saggisti, alcuni fra i migliori in circolazione: Guy Scarpetta, Lakis Proguidis, James Wood, François Ricard. La mia formazione, soprattutto per quanto riguarda il romanzo moderno e contemporaneo, non è, come si può dedurre da quanto ho detto, molto italiana. Non so perciò certificarle lo stato di salute del romanzo del Belpaese. Un amico, di recente, mi rimproverava il fatto di alzare una scaletta d’oro tra me e quanto bolle in pentola qui da noi. Ma quale scaletta d’oro? Avrei bisogno di una gru per riuscire a innalzarmi sopra la marea di Kitsch che inonda i nostri cantieri letterari! Remy de Gourmont, un artista e critico francese degli inizi del secolo scorso, ha scritto qualcosa che sarebbe stata teorizzata tempo dopo da Bachtin: «Ogni volta che vedete un movimento letterario, cercate al di fuori di quella letteratura la forza che lo anima». Esempi per la poesia: Baudelaire che legge Poe; Eliot che legge Laforgue. E per il romanzo: García Márquez che legge Kafka; Fuentes che legge Broch. Ma i nostri romanzieri, in piena globalizzazione del canone, cercano davvero «fuori» chi potrebbe dare loro «la forza»? Cercano davvero chi potrebbe rianimarli? Hanno ancora il senso della grandezza? O l’hanno perduto ed è rimasto loro solo il cinismo per deridere i naif come me? Quello che mi stupisce in molti scrittori italiani è il conformismo, il loro essere lettori del XIX secolo. E la sottomissione quasi assoluta alla dimensione «epica», voglio dire alla «storia», al «plot». E, perciò, la loro disarmante mancanza di libertà formale. Comunque, voglio rispondere. Negli ultimi tempi ho letto diverse cose che mi sono piaciute, fra le quali due opere d’esordio: Lezioni di tenebra di Helena Janeczek e Il paese dove non si muore mai di Ornela Vorpsi. Guarda caso, la prima è tedesca, con residenza a Milano, la seconda è albanese e vive a Parigi. Entrambe scrivono in una lingua d’adozione. Di recente, e ancora inedito, ho letto con grande piacere Anni luce di Lucio Klobas, il quale – di certo non un esordiente e con all’attivo molte opere importanti – è nativo dell’Istria e vive a Bergamo. Il mio amico direbbe che ancora una volta ho trovato il modo di alzare una scaletta tra me e il mio paese...
LN: Torniamo a Milan Kundera: lei se ne è molto occupato, sia dal punto di vista critico che della traduzione. Come mai questa scelta, e che cosa le interessa di più della scrittura dell’autore ceco?
MR: A questa domanda potrò rispondere solo con le opere. C’è una cosa, tuttavia, che vorrei sottolineare. A causa forse del tema principale di un suo libro, La vita è altrove, Kundera si è fatto una fama di nemico della poesia. Ma non è affatto così. Egli stesso è stato poeta, ha sempre parlato con amore dei poeti cechi Skácel, Nezval, Blatny, è stato un grande amico di Octavio Paz, ed anche recentemente ha dedicato un breve saggio a Oscar de L. Milosz, un poeta lituano di lingua francese fin troppo presto cancellato dalla memoria letteraria europea e mondiale (di cui sto preparando per Adelphi la prima antologia in italiano, che dovrebbe vedere la luce l’anno prossimo). Ora, per Kundera esiste una poesia del romanzo, ma non è quella del poeta affascinato dal proprio io. La «poesia antilirica» che per Kundera è il romanzo moderno non è nemica della poesia, ma combatte fin dalle origini il “lirismo”: lo sguardo lirico desidera, infatti, fondersi con il mondo, ma così rinuncia ad osservarlo, ad analizzarlo, a comprenderlo. Ecco, vorrei che ogni mia poesia fosse in grado di contenere una goccia di «romanzo», nel senso kunderiano di «poesia antilirica»: una poesia in grado di mantenere una «salutare distanza» (Petr Král) dall’«io».
LN: Ultimamente ha partecipato a un incontro organizzato da Andrea Inglese intitolato “La poesia di ricerca oggi in Italia”. Vorrei sapere se ritiene la sua una scrittura di ricerca, e se sì, in quale filone e a quali modelli si richiama. Vorrei anche chiederle che cosa pensa del fenomeno della spettacolarizzazione della poesia: reading, poetry slam, performance pubbliche, festival e rassegne…
MR: Sì, su invito di Andrea Inglese, ho partecipato a un incontro tra poeti a Milano. Ho letto in pubblico qualche poesia. C’erano diversi amici, Tutto si è svolto in un’atmosfera conviviale. Quando ho saputo che si sarebbe trattato di un incontro di «poesia di ricerca», ho subito telefonato all’organizzatore e gli ho domandato all’incirca: «Perché ancora la litania della poesia di ricerca?». Non ho mai personalmente compreso questa nozione. Non mi appartiene, non fa parte del mio vocabolario. Per me non c’è una distinzione tra poesia «tradizionale» e «poesia di ricerca». Si tratta di una nozione ideologica, che ha una sua storia e una sua giustificazione storico-critica, ma che è stata ed è – oggi ancor più che negli anni Sessanta e Settanta – un’arma spuntata. Rispetto alla nozione di «scrittura», poi, la mia reazione è addirittura fisica. Quando qualcuno mi chiede: «Come va? La scrittura procede?», «Come la mettiamo con la scrittura?», spunta un eczema, che mi riempie tutto il corpo di piccoli ideogrammi rosa. Le persone che mi pongono le domande sono innocenti. Tuttavia, la parola che pronunciano non lo è – così come ben sapeva colui che coniò tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta la parola «écriture». Ormai la nozione di «écriture» di Barthes (soprattutto il suo legame con l’ethos storico dell’autore) non ha più corso (ciò non significa, a miei occhi, che Barthes non permanga il maggior colpevole). Quello che è rimasto è una parola passe-partout, che ha soppiantato la tradizionale distinzione tra le diverse arti. Romanzo, poesia, saggio: tutto è scrittura. Ci sono, come è noto, le scuole di scrittura (non conosco “Scuole di romanzo”). Non si scrive qualcosa. Si scrive e basta. Ci si mette a scrivere. Tanto che, come ha detto Lakis Proguidis, direttore de “L’Atelier du roman”, scrivere ha smesso di essere «un verbo transitivo». Perché me la prendo tanto? Perché questa parola, duttile, senza spigoli, usata fino all’insignificanza, è il peggior nemico dell’opera. Riduce l’opera a occupazione, a pura attività, a spreco di forze. La trasforma in verbigerazione, grafomania. Quanto alla «spettacolarizzazione» o «festivalizzazione» delle arti che in Italia ha assunto negli ultimi anni traguardi notevoli, per me non è un fatto nuovo. Quando ero in Francia, nel 1997 uscì un romanzo di Philippe Muray (Muray è morto da poco e un intero numero dell’“Atelier du roman” gli è stato dedicato. Bisognerebbe far conoscere la forza corrosiva dei suoi saggi, i suoi «esorcismi» contro quello che chiamava «l’Impero del Bene», ai lettori italiani) intitolato On ferme (Si chiude), in cui il personaggio protagonista si chiama Homo festivus. Homo festivus è l’uomo in festa per 365 giorni all’anno. L’uomo che, grazie alla festa, si è liberato dal Male, dalla Storia, dal Passato. Ed è felice. E’ felice soprattutto di «inventarsi» ogni giorno una ragione per festeggiare la sua emancipazione da ogni vincolo, storico, sociale, politico. Homo festivus: la versione post-storica di homo sapiens. Penso che Muray abbia rivelato qualcosa che ci sta sotto gli occhi – è questo che compiono di solito i veri romanzi. Rispetto alla lettura pubblica di poesia, ho personalmente un atteggiamento ambiguo. Da una parte sto con José Emilio Pacheco, un grande poeta messicano contemporaneo – non solo poeta, non solo messicano – che in una breve poesia intitolata Contra los recitales dice «Se leggo in pubblico i miei versi/tolgo il suo unico senso alla poesia/ far delle mie parole la tua voce/per un istante almeno» (riprendo da J. E. Pacheco, Gli occhi dei pesci Poesia 1958-2000, Medusa, Milano, 2006, a cura di Stefano Bernardinelli, che non conosco ma a cui va tutta la mia stima per aver finalmente fatto conoscere ai lettori italiani questo classico). Dall’altra non posso dimenticare – per averle lette non so quante volte – le parole di Seferis che, nella sua Introduzione a T.S. Eliot alla sua stessa traduzione integrale di Waste Land e di alcune altre poesie dell’autore anglosassone, pubblicata nel 1936, parlando della differenza tra prosa e poesia, scrive: «La poesia è innanzitutto una letteratura orale. In questa oralità si trova la sua fonte, il suo ascendente, l’estrema origine [...] La poesia utilizza il silenzio, è fatta di parole e silenzio, cesella il silenzio, per così dire. La prosa, invece, è un’arte silenziosa, si svolge nel silenzio. Di solito la prosa che tende al verso recitato, la prosa poetica, è una cattiva prosa. La poesia che non esige la voce è una cattiva poesia».
LN: Frequenta blog e/o siti di poesia? Se sì, quali? Come valuta il rapporto tra poesia e internet?
(MR): Faccio parte del sito letterario "Nazione Indiana", che, a quanto mi dicono, va per la maggiore. Non è un sito di poesia. Raccoglie un gruppo eterogeneo di scrittori e artisti che a distanza e attraverso i vari post cercano di dialogare tra loro e con un pubblico di internauti, a volte molto esigente, a volte silenzioso, a volte deficiente (moltissimi commenti non hanno alcuna attinenza con i testi postati). Il rapporto tra poesia e internet? La vulgata afferma che internet è uno strumento estremamente democratico, talmente democratico che nessun poeta è in grado di esimersi dall’utilizzarlo. Lo spazio virtuale è immenso, infinito. Penso che, in quanto spazio infinito, assoluto, sia lo spazio ideale per il poeta.
LN: Ultima domanda: mi farebbe i nomi di tre poeti e tre critici fondamentali del ‘900? E di tre poeti e critici di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno?
MR: Rispondo solo alla prima parte della domanda. Non voglio essere polemico. Eliot, Seferis, Brodskij per la poesia. Eliot, Seferis, Brodskij per il saggio.
Massimo Rizzante (MR): Ho studiato a Urbino nel corso degli anni Ottanta. Per un certo periodo frequentavo un palazzo, Palazzo Benedetti, dove vivevano alcune amiche. Sulla parete di una stanza c’era disegnato – non sono mai riuscito a sapere da chi – un drago. Ho trascorso molte notti in quella stanza. Si può dire che una parte di me, la mia parte poetica vi abbia residenza fissa. Lì è iniziata la mia personale lotta con il drago che, a differenza del santo della tradizione cristiana, non conduce a nessuna liberazione dal male. Non posso sconfiggere il drago. Primo, perché il male sta nel volersi liberare dal male. Secondo, perché così facendo dovrei accettare un’altra sconfitta, quella della creazione poetica. Poi, agli inizi degli anni Novanta, sono uscito dalla stanza del drago (una parte di me, soltanto una parte...). Sono andato a Roma, a Leuven, nelle Fiandre, un breve soggiorno a Nimega in Olanda, un altro a Klagenfurt (da adolescente Vienna – prima di Roma, prima di Milano – è stata la grande città che ho visitato e dove sono ritornato spesso fino ai vent’anni). Poi di nuovo nella piccola patria veneziana (sono e resterò sempre un “provinciale cosmopolita”). Infine a Parigi, dove sono rimasto alcuni anni. A Parigi ho fatto molti incontri importanti. Il più importante di tutti è stato quello con Milan Kundera. Tra il 1992 e il 1997 – anno in cui Kundera chiuse i battenti del “Seminario sul romanzo europeo” – ero l’unico italiano che una volta alla settimana andava e veniva dalla piccola aula del sesto piano dell’Ecole des Hautes Etudes di Boulevard Raspail. Lì, in modo spesso semiclandestino a causa del timor panico che Kundera aveva degli «agelasti», si riuniva un ristretto gruppo di lettori di romanzi. Sì, ciò che legava quelle persone (vorrei ricordare almeno, fra coloro che frequentavo di più, Lakis Proguidis, Marek Bienczyk, François Ricard, Guy Scarpetta, Benoît Dutertre, etc.), oltre la loro non appartenenza alla genia degli «agelasti» – categoria di persone a cui con il cordone ombelicale hanno tagliato per sempre il senso del comico – era la passione per la bellezza prosaica del mondo, una bellezza che solo il romanzo, secondo quanto ci convincevamo sempre più, può scoprire ed esplorare. Paradosso fondamentale: sulla soglia della stanza del drago c’è un maturo usciere maligno, pieno di lusinghe, tentazioni, tesori di esperienza, ricordi osceni, imprevedibili banalità. In altre parole il custode della stanza del drago è un uomo prosaico. Nel mio breve cammino di poeta ho incontrato quasi esclusivamente grandi romanzieri non italiani. Questo la dice lunga sul nocciolo prosaico della mia poesia, sul fatto che io non mi ritengo un puro facitore di versi (una parte di me, solo una parte...), sul mio contrastato rapporto con l’Italia (“vivaio di gerarchetti e pater nostri/paradiso terrestre per chiunque cammini a quattro zampe”, come recita un mio verso tratto da una poesia della seconda raccolta, Nessuno, Manni, Lecce, 2007). Sono un poeta che legge soprattutto romanzi e scrive saggi. Non so, perciò, se sono in grado di rispondere alla sua domanda davvero impegnativa sulle eventuali differenze tra la poesia italiana e quella di altri paesi. Posso dirle questo: oltre che una storia, c’è una geografia nei miei versi. Voglio dire che la mia poesia ambirebbe a coniugare il «senso storico» – riuscire a descrivere un orizzonte dove tutto il passato è presente – all’«investigazione dei luoghi», una sorta di scoperta poetica dei luoghi (che è spesso, naturalmente, scoperta di voci poetiche). Imitazioni, omaggi, traduzioni, commenti hanno proprio questa funzione: estinguere quel ridicolo monarca chiamato “io”, estinguere quella specie di monarchia chiamata “letteratura nazionale”. Resto eliotiano (sebbene di un Eliot illuminato e “tradotto” da Seferis, un poeta-chiave per me): «Il sentimento dell’arte è impersonale». E resto gombrowicziano: nel suo Diario, scritto tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso quasi interamente durante il suo esilio in Argentina, affermava che la cultura polacca doveva, per emanciparsi dalla sua «polacchità», abbandonare ogni culto nazionale. Jorge Luis Borges, non proprio un poeta e scrittore amato da Gombrowicz, nella stessa epoca pronunciava una conferenza – “Lo scrittore argentino e la tradizione” – nella quale si domandava: «Qual è la tradizione argentina? ... Credo che la nostra tradizione sia l’intera cultura occidentale». Queste parole furono pronunciate nel 1953. Non crede che più di cinquant’anni dopo, nel nostro mondo che si vuole così emancipato e multiculturale, hanno assunto ancor più significato? Sylvie Richterova, poetessa, scrittrice e saggista ceca, che mi onora della sua amicizia, alla fine della sua “Lettera a un poeta”, che fa da Prefazione al mio primo libro di poesie, Lettere d’amore e altre rovine (Biblioteca Cominiana, Padova, 1999), scrive: “Cultura: certo, ma hai letto anche Holan, Crnjanskij, Milosz. Hai frequentato scuole italiane, università francesi, muri parigini, paesi bassi, paesaggi belgi, finlandesi, sovietici, atlantici, serbi e bosniaci”. Ora, non tutti i viaggi dell’immaginazione poetica sono veri (ad esempio, non sono mai stato in Finlandia). Holan, Crnjanskij, Czeslaw Milosz sono alcuni nomi di poeti del XX secolo che ho cercato di «imitare» (senza «imitazione» non c’é «variazione», e quindi neppure «originalità»: che cosa si può ereditare se non si imita?). Le potrei fare altri nomi. Mi limito a quell’area culturale che mi ostino a chiamare Europa centrale. Oltre a quelli citati, mi vengono in mente Herbert, il cui ethos e «senso storico» sento vicini (senza il «signor Cogito» non so se il giovane signor Telemaco, il personaggio principale della mia seconda raccolta, sarebbe così com’è). Sempre in ambito polacco, Rozewicz, testimone del XX secolo (Rozewicz è, a mio avviso, l’altra possibilità del «fare poesia dopo Auschwitz» rispetto a Celan, la possibilità per così dire «non metaforica», realistica, ordinaria) di cui fra qualche mese uscirà la prima antologia in lingua italiana a cura di Silvano De Fanti nella collana “Biblioteca di poesia” di Metauro (Pesaro). E poi la vena surrealista boema, da Jiri Kolar a Ivan Wernisch; e quella ironica, stupita, profonda, da Jan Skácel (uno dei miei preferiti. Ecco alcuni versi nella traduzione di Annalisa Cosentino: “Abbiamo voglia soprattutto di dormire/e meditiamo come rivolgerci alla morte/Senza di lei non ci sarebbe l’infanzia/la regione della cava libertà dei fili d’erba” ) a Petr Král (che mi regala da diversi anni la sua amicizia e che ha scritto la Postfazione al secondo libro). Ecco: quello che cerco e non trovo nella poesia italiana è una certa immaginazione che flirta con il grottesco, con i rampicanti della follia (in verità, c’è la poesia di Angelo Maria Ripellino che della follia russa e ceca si è nutrito, e che, non a caso, è guardato dai «poeti italiani» come fosse un giardino eccentrico – un orto botanico o una serra tropicale – curato da pochissimi intimi, a cui va tutta la mia stima).
La poesia italiana è lirica e dolente o è mentale. Oppure, sperimentale! In essa non trovo nemmeno una vera vena ironica (Giudici? No, grazie. Sanguineti? Nein, danke schön. I love Philip Larkin!) in grado di compatire gli uomini e di fermarsi davanti al mistero racchiuso nei dettagli triviali, osceni, prosaici del mondo (il regno fiammingo dei dettagli, il regno russo dei dettagli, il regno centroeuropeo dei dettagli, il regno di Dio nei dettagli!). Nella poesia italiana mi manca la coscienza della distanza che si misura con la devastazione che il troppo sapere o la brutale assenza di sapere provoca in una natura umana: una coscienza che è respiro naturale e che con un soffio fa crollare il castello di carta della cultura.
LN: Ha fatto parte di “Baldus”, rivista letteraria fondata da Mariano Bàino, Biagio Cepollaro e Lello Voce, che ha rappresentato un luogo fondamentale per il dibattito poetico di fine Novecento. Da poco è uscita, a sua cura e di Lello Voce, un bel volume (Baldus. Antologia completa, Maledizioni – No Reply, 2007) che presenta in formato CD-rom la digitalizzazione di tutti i dieci numeri dal 1990 al 1996. A distanza di undici anni, come giudica l’esperienza baldusiana? Secondo lei, nel 2007 sarebbe possibile riproporre una rivista di quel tipo?
MR: Ho incontrato Lello Voce alla fine del 1990, a Roma. Poi, in seguito, ci siamo visti spesso a Treviso. Ho conosciuto Biagio Cepollaro a Milano, l’anno dopo, e Mariano Baino a Napoli. A Milano, e durante diversi incontri di redazione a Treviso, ho conosciuto chi fin dall’inizio aveva illustrato, o meglio, commentato con i suoi disegni, le pagine della rivista. Sto parlando di Andrea Pedrazzini, un artista unico, eccezionale. Ho partecipato attivamente alla rivista soltanto a partire dalla fine del 1993, quando “Baldus” iniziò una nuova serie. Voleva prendere un’altra strada. Allargò i suoi interessi e fece entrare gradualmente forze nuove, persone molte diverse tra loro: Antonio Paghi, Massimo Castoldi, Giampaolo Renello, Francesco Forlani, Gian Mario Villalta, Andrea Inglese. Da quel momento, finita la bisboccia d’opinioni dei presunti «numi tutelari» del Gruppo 63 con relativo controaltare dei presunti «nembi» del perbenismo lirico italiano, la rivista sembrò, come un’auto usata, perdere qualche colpo. In realtà eravamo entrati nel cono d’ombra dopo il passaggio frettoloso dei riflettori ideologici e mediatici. Era tempo di lavorare. E infatti uscirono dal 1994 al 1996, alcuni numeri importanti, tutti con un parte monografica su un poeta e scrittore contemporaneo. Ricordo quelli su Ernesto Calzavara, Andrea Zanzotto e Haroldo de Campos. La strada intrapresa dalla Nuova Serie aveva uno spettro molto ampio e rifletteva la molteplicità degli interessi della redazione: poesia, romanzo, saggio, filologia, nuove tecnologie, filosofia, arte. Come penso sia giusto. Nella diversità tre elementi ci tenevano uniti: non eravamo disposti a lasciare la “tradizione” nelle mani di sedentari “esperti” della materia: la “tradizione” è un insieme di opere vive che attendono di essere fecondate dall’immaginazione di coloro che vivono; non eravamo disponibili a venire tranquillamente a patti con il mondo “post-”; non rinunciavamo al pensiero critico, sebbene avessimo avvertito con qualche minuto di anticipo le scosse dell’ottavo o nono grado della scala Richter del movimento tellurico che di lì a poco avrebbe sconquassato il sapere umanistico, la sua leggibilità e la sua trasmissibilità. Oggi non so se sarebbe riproponibile un’esperienza del genere. Oggi non so neppure se la rivista letteraria sarebbe riproponibile come “genere”. Nell’introduzione da lei citata, mi soffermo su questo aspetto. E mi domando: «Perchè dunque la rivista, e in particolare la rivista letteraria, è snobbata da tutti? Ma ammettiamo che sia sempre andata in questo modo. Perché oggi perfino la marginalità dell’arte ha perduto la sua aura?».
Credo che la seconda domanda contenga la prima. Forse il problema, oggi, è esplorare in profondità il profondo desiderio dell’uomo di liberarsi del proprio passato. Ora, nessun rinascimento culturale o rigenerazione umana sono stati possibili fino ad ora senza una messa o fuoco del passato. Per mettere a fuoco il passato bisogna farsi da parte, disertare l’attualità, tradire la comunità per amore della comunità. Oggi pensiamo sia sufficiente archiviare il passato. La morale dell’archivio mette in archivio l’uomo, la sua immaginazione, la sua fede di rinascere e di rigenerarsi ai margini delle rovine. La cosa può entusiasmare molti, tutti coloro che in segreto desiderano la fine dell’uomo, non certo il sottoscritto per cui l’arte resta la custode della forma umana. E se l’uomo è il passato di cui ci si vuole liberare...
LN: Lei chiude l’introduzione al volume appena citato affermando che, mentre (negli anni Novanta) si moltiplicavano le scuole di scrittura, a cui era affidata «la missione di trasformare la letteratura in un compito per studenti alle prese con soggetti e temi preconfezionati, pronti per il mercato planetario del tempo libero», si doveva «perseverare con Octavio Paz e Haroldo De Campos nel pensare che la funzione della poesia è quella di essere un antidoto al mercato». Cosa è cambiato – sempre che qualcosa sia cambiato – da quel tempo?
MR: Alla fine della mia introduzione al volume, prima delle frasi da lei riportate, scrivevo che nel corso degli anni Novanta si moltiplicavano in Italia, con grave ritardo rispetto agli Stati Uniti e ad altri paesi europei, i «nano-istitutori che alle riviste letterarie preferivano le “scuole di scrittura”». Pressoché nessuno ha resistito al richiamo di queste sirene: quadri societari, impiegati, casalinghe, studenti, free-lancers, disoccupati, professionisti, avvocati, medici e soprattutto aspiranti “scrittori italiani” che spesso sono diventati “scrittori italiani”, grazie agli inviti ricevuti da altri “scrittori italiani” a partecipare ai corsi di creative writing. Ci si faceva e ci si fa un “nome“ – in questo senso non è cambiato nulla da dieci anni a questa parte – in Italia trasformando «la letteratura in un compito per studenti alle prese con soggetti e temi preconfezionati, pronti per il mercato planetario del tempo libero». In Italia, prima abbiamo avuto Eco, la cui assenza di talento romanzesco è inversamente proporzionale alla sua cultura letteraria, il quale, probabilmente malgré lui, ha aizzato più di una generazione a costruire modellini storico-enciclopedici (qualcuno addirittura è giunto all’interpretazione enigmistica della realtà) per lettori-modello alla ricerca di avventure nel mondo del «sapere»: si può dire che i modellini di Eco sono diventati il gioco preferito di una nuova categoria di persone, nata tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso, e diventata da allora, appunto, planetaria: i turisti del sapere! Accorrete a Ecoland, accorrete: qui ogni sapere diventa un gioco, un passatempo intelligente! Poi sono arrivati i nano-scrittori-manager con le loro scuole di scrittura. Anche la “scuola di scrittura” è un passatempo intelligente, un luogo per turisti del sapere. Niente di più, niente di meno. Fa campare “gli scrittori italiani” prima che diventino “grandi scrittori italiani”, è un luogo idoneo per intrecciare relazioni amorose o sessuali, a volte si trasforma in collana per editori dal fiato corto. Tuttavia due veri danni le scuole di scrittura provocano: primo, alimentano la metastasi del romanzo di “genere”, alimentano, cioè il Kitsch, il Male, ovvero la ripetizione delle forme; secondo, riducendo l’arte a qualcosa di trasmissibile – l’arte ridotta a corso di formazione – riducono enormemente le ambizioni dell’arte. Da qui la grottesca possibilità che i nano-scrittori di oggi risultino in avvenire dei giganti agli occhi di giovani talenti ormai spogliati di quella personalità invisibile che non coincide mai con il nostro nome e senza la quale siamo tutti dei marmocchi che pendono dalle labbra del professor Eco o di qualche altro tutor di quel corso universitario lastricato di sangue e sudore che si chiama successo letterario. Quanto all’ultima frase, quella in cui, con l’aiuto di Octavio Paz e Haroldo De Campos – qui posti idealmente uno accanto all’altro – parlo della poesia come «antidoto» al mercato, e in particolare al «mercato planetario del tempo libero», è legata a quello che ho affermato precedentemente. L’opposizione tra poesia e modernità non è accidentale, ma consustanziale. Haroldo De Campos guardava al passato, a tutto il passato poetico e umano, come una «cosa aperta». Compito del poeta è quello di integrare nel presente, di rendere contemporaneo, quell’immenso patrimonio. In una delle sue ultime opere, La otra voz, quasi un testamento letterario, Paz scrive (traduco all’impronta): «Una poesia può essere moderna per i suoi temi, per il suo linguaggio, per la sua forma, ma quanto alla sua natura profonda essa esprime una voce antimoderna. La poesia esprime realtà estranee alla modernità, mondi e strati psichici che non soltanto sono antichi ma anche impermeabili ai cambiamenti storici». Non so se siamo alla fine della modernità, già oltre, o, senza saperlo, siamo precipitati all’indietro di secoli. Quello che so è che «l’altra voce», cioè come afferma Paz, la voce che «ha mille anni, la nostra età e tuttavia non è ancora nata», quella voce che non porta il nostro nome («Nulla distingue il poeta dagli altro uomini e donne, tranne quei momenti – rari sebbene frequenti – in cui essendo se stesso egli è un altro», afferma ancora Paz), non deve estinguersi. A costo di assomigliare a una voce dell’oltretomba.
LN: Ha fatto parte del “Seminario sul romanzo europeo” diretto da Milan Kundera ed è redattore de “L’Atelier du Roman”, una rivista francese sulla quale hanno scritto personaggi del calibro di Fernando Arrabal o lo stesso Kundera. Qual è, se si può condensare in una risposta, lo stato di salute del romanzo italiano? Quali sono gli autori più promettenti?
MR: L’avventura dell’“Atelier du roman” – avventura che è giunta in questi giorni al numero 50 – è nata alla fine del 1993 all’interno del “Seminario sul romanzo europeo” diretto da Milan Kundera. Tuttavia, Kundera ha partecipato all’impresa solo all’inizio. Poi, grazie all’infaticabile lavoro del suo direttore, Lakis Proguidis, e di sua moglie Doris, la rivista è andata per il mondo con le sue gambe. Oggi “L’Atelier du roman” si realizza a Montréal, è edito e stampato a Parigi da Flammarion, ha fondato una collana di saggi, è distribuito in molti paesi, e in Grecia, alla fine di settembre, organizza ogni anno un Incontro Internazionale sul romanzo. I quattro princîpi, se così si può dire, a cui la rivista si attiene sono: originalità degli interventi; indifferenza alle rassegne stampa: nello stesso numero si possono trovare un saggio su Rabelais, uno su Onetti o Roa Bastos, e una critica a un romanzo di uno sconosciuto; priorità agli artisti piuttosto che agli «specialisti»; sguardo sovranazionale per cui vengono accolti testi di autori di tutto il mondo, del presente e del passato. I quattro principi discendono inevitabilmente da quello che les élèves apprendevano durante i seminari: la «pedagogia» kunderiana ci ha insegnato a pensare il romanzo come «un’arte» autonoma, con una sua data di nascita e una sua storia, ad avvicinarci alle opere «in modo concreto», studiandone cioè minuziosamente i problemi formali, ma senza mai dimenticare che lo studio della «forma» è finalizzato a cogliere gli «aspetti sconosciuti dell’esistenza». Infine, a porre in secondo piano le lingue e le letterature nazionali rispetto al valore estetico unico e insostituibile di ogni opera. Ciò significa comparare le opere romanzesche sotto un unico cielo: la storia dell’arte del romanzo. Qualcosa di pressoché inconcepibile nelle università come nei salotti letterari italiani, e non solo italiani! Non so precisamente quanti romanzieri, nel corso di questi anni, hanno partecipato all’impresa atelieresca. Credo più di duecento, fra i quali, gli artisti viventi più importanti, noti e meno noti: Oe, Kundera, Saramago, Sabato, Ph. Roth, Bellow, Martin Amis, Rushdie, Grass, Piglia, Vila-Matas, Arrabal, Houellebecq, etc. Grazie all’“Atelier du roman” ho scoperto autori ancora non molto conosciuti, ma di grande valore: Angel Wagenstein, Benoît Dutertre, François Taillandier, Michel Host, Ghiannis Kiurtsakis, Takis Teodoropulos, Marek Bienczyk, Ph. Muray, etc. E, fra i critici letterari e saggisti, alcuni fra i migliori in circolazione: Guy Scarpetta, Lakis Proguidis, James Wood, François Ricard. La mia formazione, soprattutto per quanto riguarda il romanzo moderno e contemporaneo, non è, come si può dedurre da quanto ho detto, molto italiana. Non so perciò certificarle lo stato di salute del romanzo del Belpaese. Un amico, di recente, mi rimproverava il fatto di alzare una scaletta d’oro tra me e quanto bolle in pentola qui da noi. Ma quale scaletta d’oro? Avrei bisogno di una gru per riuscire a innalzarmi sopra la marea di Kitsch che inonda i nostri cantieri letterari! Remy de Gourmont, un artista e critico francese degli inizi del secolo scorso, ha scritto qualcosa che sarebbe stata teorizzata tempo dopo da Bachtin: «Ogni volta che vedete un movimento letterario, cercate al di fuori di quella letteratura la forza che lo anima». Esempi per la poesia: Baudelaire che legge Poe; Eliot che legge Laforgue. E per il romanzo: García Márquez che legge Kafka; Fuentes che legge Broch. Ma i nostri romanzieri, in piena globalizzazione del canone, cercano davvero «fuori» chi potrebbe dare loro «la forza»? Cercano davvero chi potrebbe rianimarli? Hanno ancora il senso della grandezza? O l’hanno perduto ed è rimasto loro solo il cinismo per deridere i naif come me? Quello che mi stupisce in molti scrittori italiani è il conformismo, il loro essere lettori del XIX secolo. E la sottomissione quasi assoluta alla dimensione «epica», voglio dire alla «storia», al «plot». E, perciò, la loro disarmante mancanza di libertà formale. Comunque, voglio rispondere. Negli ultimi tempi ho letto diverse cose che mi sono piaciute, fra le quali due opere d’esordio: Lezioni di tenebra di Helena Janeczek e Il paese dove non si muore mai di Ornela Vorpsi. Guarda caso, la prima è tedesca, con residenza a Milano, la seconda è albanese e vive a Parigi. Entrambe scrivono in una lingua d’adozione. Di recente, e ancora inedito, ho letto con grande piacere Anni luce di Lucio Klobas, il quale – di certo non un esordiente e con all’attivo molte opere importanti – è nativo dell’Istria e vive a Bergamo. Il mio amico direbbe che ancora una volta ho trovato il modo di alzare una scaletta tra me e il mio paese...
LN: Torniamo a Milan Kundera: lei se ne è molto occupato, sia dal punto di vista critico che della traduzione. Come mai questa scelta, e che cosa le interessa di più della scrittura dell’autore ceco?
MR: A questa domanda potrò rispondere solo con le opere. C’è una cosa, tuttavia, che vorrei sottolineare. A causa forse del tema principale di un suo libro, La vita è altrove, Kundera si è fatto una fama di nemico della poesia. Ma non è affatto così. Egli stesso è stato poeta, ha sempre parlato con amore dei poeti cechi Skácel, Nezval, Blatny, è stato un grande amico di Octavio Paz, ed anche recentemente ha dedicato un breve saggio a Oscar de L. Milosz, un poeta lituano di lingua francese fin troppo presto cancellato dalla memoria letteraria europea e mondiale (di cui sto preparando per Adelphi la prima antologia in italiano, che dovrebbe vedere la luce l’anno prossimo). Ora, per Kundera esiste una poesia del romanzo, ma non è quella del poeta affascinato dal proprio io. La «poesia antilirica» che per Kundera è il romanzo moderno non è nemica della poesia, ma combatte fin dalle origini il “lirismo”: lo sguardo lirico desidera, infatti, fondersi con il mondo, ma così rinuncia ad osservarlo, ad analizzarlo, a comprenderlo. Ecco, vorrei che ogni mia poesia fosse in grado di contenere una goccia di «romanzo», nel senso kunderiano di «poesia antilirica»: una poesia in grado di mantenere una «salutare distanza» (Petr Král) dall’«io».
LN: Ultimamente ha partecipato a un incontro organizzato da Andrea Inglese intitolato “La poesia di ricerca oggi in Italia”. Vorrei sapere se ritiene la sua una scrittura di ricerca, e se sì, in quale filone e a quali modelli si richiama. Vorrei anche chiederle che cosa pensa del fenomeno della spettacolarizzazione della poesia: reading, poetry slam, performance pubbliche, festival e rassegne…
MR: Sì, su invito di Andrea Inglese, ho partecipato a un incontro tra poeti a Milano. Ho letto in pubblico qualche poesia. C’erano diversi amici, Tutto si è svolto in un’atmosfera conviviale. Quando ho saputo che si sarebbe trattato di un incontro di «poesia di ricerca», ho subito telefonato all’organizzatore e gli ho domandato all’incirca: «Perché ancora la litania della poesia di ricerca?». Non ho mai personalmente compreso questa nozione. Non mi appartiene, non fa parte del mio vocabolario. Per me non c’è una distinzione tra poesia «tradizionale» e «poesia di ricerca». Si tratta di una nozione ideologica, che ha una sua storia e una sua giustificazione storico-critica, ma che è stata ed è – oggi ancor più che negli anni Sessanta e Settanta – un’arma spuntata. Rispetto alla nozione di «scrittura», poi, la mia reazione è addirittura fisica. Quando qualcuno mi chiede: «Come va? La scrittura procede?», «Come la mettiamo con la scrittura?», spunta un eczema, che mi riempie tutto il corpo di piccoli ideogrammi rosa. Le persone che mi pongono le domande sono innocenti. Tuttavia, la parola che pronunciano non lo è – così come ben sapeva colui che coniò tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta la parola «écriture». Ormai la nozione di «écriture» di Barthes (soprattutto il suo legame con l’ethos storico dell’autore) non ha più corso (ciò non significa, a miei occhi, che Barthes non permanga il maggior colpevole). Quello che è rimasto è una parola passe-partout, che ha soppiantato la tradizionale distinzione tra le diverse arti. Romanzo, poesia, saggio: tutto è scrittura. Ci sono, come è noto, le scuole di scrittura (non conosco “Scuole di romanzo”). Non si scrive qualcosa. Si scrive e basta. Ci si mette a scrivere. Tanto che, come ha detto Lakis Proguidis, direttore de “L’Atelier du roman”, scrivere ha smesso di essere «un verbo transitivo». Perché me la prendo tanto? Perché questa parola, duttile, senza spigoli, usata fino all’insignificanza, è il peggior nemico dell’opera. Riduce l’opera a occupazione, a pura attività, a spreco di forze. La trasforma in verbigerazione, grafomania. Quanto alla «spettacolarizzazione» o «festivalizzazione» delle arti che in Italia ha assunto negli ultimi anni traguardi notevoli, per me non è un fatto nuovo. Quando ero in Francia, nel 1997 uscì un romanzo di Philippe Muray (Muray è morto da poco e un intero numero dell’“Atelier du roman” gli è stato dedicato. Bisognerebbe far conoscere la forza corrosiva dei suoi saggi, i suoi «esorcismi» contro quello che chiamava «l’Impero del Bene», ai lettori italiani) intitolato On ferme (Si chiude), in cui il personaggio protagonista si chiama Homo festivus. Homo festivus è l’uomo in festa per 365 giorni all’anno. L’uomo che, grazie alla festa, si è liberato dal Male, dalla Storia, dal Passato. Ed è felice. E’ felice soprattutto di «inventarsi» ogni giorno una ragione per festeggiare la sua emancipazione da ogni vincolo, storico, sociale, politico. Homo festivus: la versione post-storica di homo sapiens. Penso che Muray abbia rivelato qualcosa che ci sta sotto gli occhi – è questo che compiono di solito i veri romanzi. Rispetto alla lettura pubblica di poesia, ho personalmente un atteggiamento ambiguo. Da una parte sto con José Emilio Pacheco, un grande poeta messicano contemporaneo – non solo poeta, non solo messicano – che in una breve poesia intitolata Contra los recitales dice «Se leggo in pubblico i miei versi/tolgo il suo unico senso alla poesia/ far delle mie parole la tua voce/per un istante almeno» (riprendo da J. E. Pacheco, Gli occhi dei pesci Poesia 1958-2000, Medusa, Milano, 2006, a cura di Stefano Bernardinelli, che non conosco ma a cui va tutta la mia stima per aver finalmente fatto conoscere ai lettori italiani questo classico). Dall’altra non posso dimenticare – per averle lette non so quante volte – le parole di Seferis che, nella sua Introduzione a T.S. Eliot alla sua stessa traduzione integrale di Waste Land e di alcune altre poesie dell’autore anglosassone, pubblicata nel 1936, parlando della differenza tra prosa e poesia, scrive: «La poesia è innanzitutto una letteratura orale. In questa oralità si trova la sua fonte, il suo ascendente, l’estrema origine [...] La poesia utilizza il silenzio, è fatta di parole e silenzio, cesella il silenzio, per così dire. La prosa, invece, è un’arte silenziosa, si svolge nel silenzio. Di solito la prosa che tende al verso recitato, la prosa poetica, è una cattiva prosa. La poesia che non esige la voce è una cattiva poesia».
LN: Frequenta blog e/o siti di poesia? Se sì, quali? Come valuta il rapporto tra poesia e internet?
(MR): Faccio parte del sito letterario "Nazione Indiana", che, a quanto mi dicono, va per la maggiore. Non è un sito di poesia. Raccoglie un gruppo eterogeneo di scrittori e artisti che a distanza e attraverso i vari post cercano di dialogare tra loro e con un pubblico di internauti, a volte molto esigente, a volte silenzioso, a volte deficiente (moltissimi commenti non hanno alcuna attinenza con i testi postati). Il rapporto tra poesia e internet? La vulgata afferma che internet è uno strumento estremamente democratico, talmente democratico che nessun poeta è in grado di esimersi dall’utilizzarlo. Lo spazio virtuale è immenso, infinito. Penso che, in quanto spazio infinito, assoluto, sia lo spazio ideale per il poeta.
LN: Ultima domanda: mi farebbe i nomi di tre poeti e tre critici fondamentali del ‘900? E di tre poeti e critici di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno?
MR: Rispondo solo alla prima parte della domanda. Non voglio essere polemico. Eliot, Seferis, Brodskij per la poesia. Eliot, Seferis, Brodskij per il saggio.
© a cura di Luigi Nacci
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