mercoledì 6 agosto 2008

Il demone roditore

Massimo Rizzante -

6 aprile 2008

bisogna continuare a essere “attenti”, sebbene la frontiera tra attenzione e distrazione sia ormai ceduta. Bisogna vigilare in ogni caso sulla “distrazione” delle persone colte, che contribuisce in modo devastante – molto più devastante della distrazione delle masse di persone semplici – alla mistificazione dei valori, al relativismo dei valori, al nichilismo dei valori, e infine al tormento, alla noia, all’irritazione di fronte all’assenza di ciò che è grande.
[Massimo Rizzante]

Il demone roditore


Sette pensieri sul mio tempo, sette note sulla critica
e un post scriptum sull’eterna scommessa del romanziere


1
Definire le parole, le parole che ci stanno a cuore, le nostre parole-chiave. Ecco l’unico compito che dovremmo avere!

Ma definire i contorni delle parole è diventato un compito difficile, soprattutto da quando il cuore delle parole si trova sempre più ai confini del senso. E non c’è niente di più difficile, delicato e disperante che operare con parole che sono continuamente sottoposte a pericolosi trapianti chirurgici.

La ricerca dei nostri temi, delle nostre parole-chiave (senza le quali non si dà arte) avrà bisogno sempre più dell’etimologia come di una forma preparatoria della conoscenza.

Una volta Italo Svevo scrisse: «Un ignorante è un escluso dalla scienza, un morto; in arte, invece, dice la sua parola che può anche avere un valore».
Nella mia profonda ignoranza scientifica mi chiedo: «Come può un romanzo aiutarmi a leggere un altro romanzo?». O meglio: è possibile per la critica letteraria prendere a prestito concetti e criteri dal romanzo?
Ma in un romanzo non ci sono concetti. O meglio: la riflessione romanzesca è sempre ironica, legata alle situazioni dei personaggi. C’è una bella differenza tra il «romanzo pensato» di Musil e i suoi pensieri sulla stupidità.
La differenza non è solo formale. O meglio: la differenza è radicalmente formale. Per questo è ontologica: nell’
‘Uomo senza qualità il pensiero è sempre presente, sempre all’opera; un personaggio ignorante o stupido, oppure un mostro, ci dice sempre qualcosa, ci può rivelare qualche aspetto sconosciuto della realtà che era sfuggito alla colta e intelligente comunità dell’Azione parallela. Il saggio sulla stupidità di Musil, invece, ci dimostra che ogni uomo, per quanto colto si creda, possiede invariabilmente un 50% di intelligenza e un 50% di stupidità. Per cui, infine, è del tutto inutile stabilire criteri certi per la comprensione delle cose. Per quanto sagace, la verità che Musil ci porta a sondare nel suo saggio è una verità non ironica: è questa e nessun’altra!

 
2
Un problema del nostro tempo è la proliferazione vertiginosa dei saperi, delle immagini, dei codici che formano la nostra inevitabile vegetazione, il nostro décor. Un altro problema è quello del tempo che ci è necessario per incamerare questi saperi, queste immagini e questi codici perché ci si possa sentire all’altezza del nostro tempo (sempre che questo sia «il nostro tempo»). Un altro problema ancora è la rapida perdita di significato degli eventi storici.

Al tempo cronologico, al tempo della Storia e alla durée individuale – al loro conflitto permanente e fertile – si sovrappone ora il tempo dell’informazione planetaria, un tempo dell’uniformizzazione, dell’assenza, dell’oblio, un tempo in cui tutto è permanentemente «in liquidazione».

Naturalmente, prima di ogni tempo, c’è il tempo geologico della terra, di cui solo recentemente si sono incominciati a intravedere i primi segnali di invecchiamento, e il tempo biologico con i suoi passi pachidermici che risuonano nella notte della specie.

Avverrà una selezione naturale di Homo sapiens sulla base delle sue capacità di selezionare i dati e le informazioni di cui avrà bisogno? Ma come scegliere? Come sapere quello che ci serve? Basterà adattare il tempo biologico al tempo uniforme dell’informazione? Ma ciò non significherà ridurre l’essere dell’uomo, la sua essenza storica, all’eterno presente del suo essere biologico, alla sua essenza animale?

Homo politicus e Homo poeticus stanno già per diventare i nostri predecessori?
Ernesto Sabato: «Il romanzo è un tipo di creazione spirituale nella quale, a differenza di quella scientifica o filosofica, le idee non appaiono allo stato puro, ma mescolate ai sentimenti e alle passioni dei personaggi». E ancora: «Il romanzo è un tipo di creazione nella quale, a differenza della scienza e della filosofia, non si cerca di provare nulla: il romanzo non dimostra, mostra».


3
Sempre più spesso dovremo ricorrere a enciclopedie, a dizionari, a classificazioni, perché il cammino a ritroso nel tempo e nello spazio (nel tempo sempre più spazializzato che sarà il nostro tempo) si farà sempre più difficile e brumoso. Si dovrà ripartire sempre da zero, perché le radici del passato saranno sempre più spesso tagliate dall’albero del tempo, e la volontà di lasciare tracce dovrà fare i conti, come mai è avvenuto prima, con l’estrema aleatorietà del loro rinvenimento.

Per quanto libertino e animato da spirito ludico, il critico letterario, se può ridere della realtà, non può assolutamente prendere alla leggera la realtà dell’opera d’arte.
Hermann Broch: «Un artista può essere un farabutto, ma il critico deve essere un uomo onesto».
Il castigo del critico è la serietà. Un’onesta serietà.
Strano destino quello del critico letterario: deve riflettere e meditare onestamente e seriamente su un’opera di immaginazione e pensiero che, per essenza, sconfina in un altro territorio, dove la disonestà, la mistificazione, l’azzardo, l’improvvisazione, la forza del paradosso e l’invenzione ludica conducono tutte insieme e ciascuna per proprio conto una vita da pascià. E dove si osteggia sistematicamente una spiegazione di ciò che si è creato (la qual cosa non esclude per niente che l’artista non possa essere un onesto e serio critico della propria opera).

L’arte e la critica: serietà e non serietà dell’uomo!
Tutti sanno per esperienza o per sentito dire, che
post coitum animal triste. Ciò che subentra (soprattutto nel genere maschile) dopo l’atto sessuale è una sorta di apatia fisica, una perdita di tonicità muscolare che solo a volte sono compensate da qualche raro trasporto emotivo. E’ come se la nostra presenza fisica si fosse volatilizzata per qualche minuto, come se il nostro corpo avesse trovato un impiego temporaneo presso un altro proprietario di corpi e che noi non avessimo più la forza di cercarlo e meno che mai quella di reclamarne la restituzione.

La situazione del critico è paragonabile a un perpetuo stato
post coitum. Bisogna essere seri e onesti: il pensiero del critico è un pensiero non erotico.

Ma Gombrowicz, in una pagina del suo
Diario, ha scritto: «Non credo in una filosofia non erotica. Non mi fido di un pensiero desessualizzato». L’affermazione di Gombrowicz non fa che confermare quanto ho detto. Quando mai un romanziere si è fidato davvero dei critici?


4
La nostra αισθησις, la nostra percezione del mondo, ovvero la nostra estetica, modificata dalla quantità, dalla velocità di riproduzione e dalla presentificazione dei saperi, delle immagini e dei codici lotterà a lungo prima di soccombere, prima di lasciare il posto all’αναισθησις, sua sorella distratta e dimentica delle illusioni che vengono dai sensi e dall’arte. Chi non è troppo pessimista sta all’erta fin d’ora in due modi: rallentando i processi quotidiani di apprendimento o ergendosi come bastione del buon senso contro la grande marea di astrazioni e realtà disincarnate che ogni giorno gli precipitano addosso.

La sola etica di quest’uomo è quella di formare se stesso e i suoi amici all’αισθησις.
Baudelaire: «Quanto più una critica è personale tanto più è universale»


5
E’ evidente: non siamo all’altezza di quello che abbiamo edificato. Il principale meccanismo di difesa dell’uomo contemporaneo lo dimostra. Cosa succede?

Di fronte alla proliferazione vertiginosa dei saperi, delle immagini e dei codici, l’uomo, essere discreto che ha bisogno di continuità, si difende cercando di bloccare il flusso che lo investe. Purtroppo, la frontiera tra attenzione e distrazione è stata definitivamente abbattuta. Come un pesce sulla sabbia, impegnato com’è a dimenarsi per sopravvivere, egli perciò non ha più tempo per evocare in tranquillità le sue emozioni marine. Altre sirene lo chiamano. Tutta la realtà si dà sotto forma liquida e attende di essere liquidata. Un giorno anche lui dovrà essere liquidato, ma per ora, dimenandosi, si difende grazie alla forza di riduzione, una forza irriducibile, che vuole ridurre tutto a elementi irrelati, a “frammenti”.

Di fronte alla proliferazione vertiginosa dei saperi, delle immagini e dei codici, e alla loro velocità di presentificazione, l’uomo è contemporaneamente troppo libero e incapace di libertà: è un uomo che non può scegliere a causa di una sovrabbondanza di possibilità che si offrono tutte nello stesso tempo, nello stesso presente. Ciò che gli viene meno è il tempo del giudizio, il tempo di comprendere il tutto a partire da “dettagli”, il tempo di respirare, il tempo di trasformare il suo sistema respiratorio.

L’originalità, una volta svestita dal suo corpetto romantico, presuppone un sapere artigianale, la τεχνη. Ora, nell’arte, come in tutto ciò che è umano, non c’è nulla di totalmente originale. Questo significa che l’apprendimento artistico è infinito.

6
Il demone dell’oggettività scientifica assomiglia a un vorace roditore, amante di sillogismi. Questo demone possiede una proprietà essenziale: essendo la sua forza soprattutto analitica, esso tende a scomporre la totalità in parti. Ora, questa forza, se non è ben controllata, riduce i dettagli, cioè parti che per esistere hanno bisogno di intuizione e sintesi, a frammenti, ovvero a particelle che, al contrario, non aspirano a ricomporsi in una totalità, ma rivendicano ciascuna la propria autonomia. La differenza tra dettaglio e frammento, a mio avviso implica due estetiche e due concezioni del mondo. Dal dettaglio al tutto, dunque, ma con molte pause! È impossibile trasgredire e progredire senza digredire: non si arriva alla definizione di niente senza una digressione su tutto.

Ma il nostro progresso ignora il tempo della digressione. É un progresso che rosicchia sempre lo stesso osso. Per questa ragione è condannato a regredire, a essere un progresso ad usum infantis, un progresso infantocratico.

Un artista è tale se sa fare un buon uso dell’intelletto tra l’inizio e la fine di un’opera. All’inizio e alla fine di un’opera quello che conta è l’intuizione, la sensibilità, il gusto, il talento. Per il critico letterario le cose stanno diversamente. Intuizione, sensibilità, gusto e talento sono al servizio dell’intelletto. Se quest’ultimo l’abbandona, anche solo un istante, il critico si ritrova all’inizio o alla fine, ma mai al centro dell’opera.

7
Un pensiero non pessimista dovrà usare le parole del non-pensiero (il non-pensiero non è assenza di pensiero, ma una forma di pensiero che ha smesso di avere fiducia nella totalità, fiducia che il pensiero aveva mantenuto malgrado i suoi molti detrattori fino a qualche tempo fa: il significato della parola «pensiero» dovrà includere anche la parola «non-pensiero». Allo stesso modo l’arte, vista la perdita di fiducia decretata paradossalmente dagli stessi artisti nei confronti dell’illusione estetica, dovrà includere la nozione di “non-arte”).
Quando dico «usare», questo significa: torcergli il collo.

Il critico letterario non costruisce, ma smonta e ricostruisce a partire da una casa già edificata. Dietro la meditazione critica non c’è un sistema, ma la ricerca di un’architettura. Dietro questa meditazione c’è una conoscenza delle tecniche e una passione per la forma. Non c’è, al limite, un pensiero.


Post scriptum
Milan Kundera: «La loro vita, le loro creazioni, le loro mostre di pittura, i loro quartetti, i loro amori, le molteplici manifestazioni della loro vita hanno avuto un’importanza incomparabilmente più grande della macabra commedia dei loro carcerieri. Questa fu la loro scommessa. Tale dovrebbe essere la nostra».
É vero: la parola scritta è un bambino che dorme e soltanto quando si entra in dialogo con lei, il bambino apre gli occhi.

Di recente, dopo una discussione con un amico, ho riletto un articolo di Kundera (qui sopra ne riporto uno stralcio) sul campo di concentramento di Terezinstadt, la cui vita culturale venne esibita al mondo dalla propoganda nazista come un alibi alle sue nefandezze. Ho riletto, parallellamente, qualche pagina di Austerlitz, l’ultimo romanzo di W.G. Sebald. In particolare sono ritornato su quel passaggio dove il protagonista è sulle tracce della madre scomparsa.

Il fardello della memoria, per chi è direttamente toccato dall’orrore della scomparsa dei propri cari in un campo di concentramento, è così angosciante che, nel corso di qualsiasi azione della vita quotidiana (allacciarsi le scarpe, lavare una tazza da tè), il corpo può improvvisamente accasciarsi e la mente precipitare nel disordine della follia. Tuttavia Austerlitz, il protagonista, cosciente di questo rischio e del progressivo cedimento della nostra capacità mnemonica, vuole salvare «il legame vitale» con i morti.
Io penso che non ci sia nulla di più urgente da fare. Solo che, per mantenere un «legame vitale» con i morti di Terezinstadt, per essere davvero loro eredi, cioè per sentirsi coloro che vengono dopo e non gli ultimi di una specie caduta in disgrazia, non dobbiamo dimenticare che questi morti hanno vissuto, non dobbiamo dimenticare quello che Milan Kundera chiama la loro «scommessa». In caso contrario, noi, i vivi, tradiremmo l’orrore della loro scomparsa.

Kundera, in quanto romanziere, relativizza quello che l’umanità dà come Assoluto. Temo che proprio per questo sarà trattato come un traditore. Egli, infatti, ha il coraggio di sottrarre alla sete di Assoluto dell’umanità (il suo demone più vorace) qualche goccia di piacere per la vita, di strappare alle ombre un sorriso.
Il romanziere è sempre stato un traditore. Da secoli. Dai tempi di Boccaccio.

Nel Decameron non si descrive solo la peste e la sua terribile realtà, ma soprattutto «le molteplici manifestazioni» della vita di coloro che hanno compreso che c’è qualcosa di molto più importante della peste.
Far comprendere all’umanità che la memoria della peste non è tutta la memoria è l’eterna scommessa del romanziere.


Nazione Indiana 6 aprile 2008   - - - -
© Massimo Rizzante

 

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