lunedì 28 febbraio 2011

2 - 3 - Metaromanzo di ritorno

Matteo Di Gesù        -

13 febbraio 2011
2 - 3 - Metaromanzo di ritorno

Per i proseliti del postmoderno letterario (sempre che ce ne sia ancora rimasto in giro qualcuno) sembrano imminenti le giornate del riscatto. Riabilitazione tardiva, certo; postuma, a dirla tutta; nondimeno dovuta. L'indizio più rilevante di questa inversione di tendenza è il ritorno in auge di un genere a lungo proscritto dalle sentinelle dei realismi vecchi e nuovi: il metaromanzo (attenendosi ai manuali: narrazione che assume come oggetto la narrazione stessa); nonché, più in generale, una inaspettata apertura di credito verso le scritture metaletterarie. Qualche esempio: uno degli esordi migliori del 2010 (ma l'autore aveva già scritto insieme a Fabio Viola Italia 2, un bellissimo reportage narrativo) è stato quello di Cristiano de Majo: Vita e morte di un giovane impostore scritta da me, il suo migliore amico (Ponte alle Grazie) è, sin dal titolo, un romanzo che ha per oggetto l'atto stesso del narrare – l'impostore è per l'appunto uno scrittore mancato – ed è un romanzo del quale si potrebbe dire che è anche uno dei più interessanti saggi italiani di teoria letteraria degli ultimi anni; Roberto Bolaño e David Foster Wallace, freschi di canonizzazione tra i classici contemporanei, rientrano indubbiamente nella categoria dei metanarratori, quantomeno per 2666 e per Notturno cileno il primo, per Infinite jest il secondo; il critico Filippo La Porta, in passato tenace avversatore dei "travestimenti" letterari, nel suo recente Meno letteratura, per favore (Bollati Boringhieri), concede giudizi benevoli, suffragati da osservazioni incisive: «Attraverso la metaletteratura si può raccontare il dolore del mondo». Se poi si estende la ricognizione, è facile reperire ulteriori prove a sostegno: l'ultimo Michel Houellebecq, La carta e il territorio (Bompiani), è anche un racconto speculare e un saggio di mise en abîme; l'incipit memorabile di Troppi paradisi (Einaudi), «Mi chiamo Walter Siti, come tutti», per non dire del resto del romanzo (Casadei ha parlato di «stilizzazione dell'(in)autentico»), rompe il patto narrativo tra autore e lettore e impone di riformularlo; Gianni Celati, curatore fittizio dell'edizione dei postumi Sonetti del Badalucco nell'Italia odierna di Attilio Vecchiatto (Feltrinelli), rientra di diritto tra i metaletterari. E, dando giusto uno sguardo indietro, aggiungere al novero: Nicola Lagioia, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (minimumfax, 2001); Domenico Starnone, Prima esecuzione (Feltrinelli, 2007), nonché, pur con qualche prudenza, Tommaso Pincio, Lo spazio sfinito (minimumfax).

A tutto ciò è concomitante il declino che sembra patire quello che, sommariamente e attingendo liberamente a un suffisso a scelta, si è chiamato neo/neo-, post-, tardo-realismo, insieme al suo robusto corredo di dibattiti a margine; per di più parrebbe che i Wu Ming siano rientrati dalla loro estenuante tournée nelle più chic università del mondo e nei più prestigiosi centri sociali d'Italia per propagandare il loro New Italian Epic.
Se non di un fenomeno, dunque, si tratta quantomeno di un sintomo. E comunque di un'occasione propizia per avventurarsi in qualche considerazione sull'idea di letteratura con la quale abbiamo commerciato negli ultimi anni. Forse non è pleonastico farlo ripassando la lezione che vorrebbe per l'appunto la metanarrazione alle origini del romanzo moderno, almeno alla stessa stregua della mimesi: Don Chisciotte è anche, nella seconda parte, un metaromanzo; Tristram Shandy è l'illustre precursore della categoria, come del resto molti romanzi del Settecento. La linea procede ben riconoscibile, pur nelle sue oscillazioni, lungo due secoli e mezzo di storia letteraria, e ciascuno potrebbe segnarvi le tacche che predilige: Bouvard e Pécuchet, Borges, il Nabokov della Doppia vita di Sebastian Knight, l'ultimo Calvino, molto Arbasino, tutto Manganelli o quasi.
La narrativa postmoderna, a ben vedere, per questo aspetto non è stata che la più recente rielaborazione di una forma originaria. Una questione di virgolette, volendo; se Nabokov ammoniva che «realtà è una parola che bisognerebbe sempre scrivere tra virgolette», Umberto Eco, postillando Il nome della rosa, rilanciava: «Penso all'atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle "ti amo disperatamente", perché lui sa che lei sa (e lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala.
Tuttavia c'è una soluzione. Potrà dire: "come direbbe Liala, ti amo disperatamente"». Eco ragionava sulle possibilità residue di rifuggire, in letteratura, dalla falsa innocenza: dunque non proprio di oziose questioni di bello stile. Tuttavia, una ostinata riluttanza da parte di quasi tutta la critica italiana, fattasi presto senso comune, ha decretato il confino della letteratura di secondo grado a pratica poco commendevole. Il romanzo postmoderno, subentrando alle gloriose epopee dell'impegno, recava gli stigmi dell'estetica del riflusso: un lezioso esercizio letterario, uno stucchevole lambiccamento per teorici da accademia, una futile merce per lettori disimpegnati. Roba noiosa, insomma.
Sembra di poter dire che molte credenze sulla letteratura italiana degli ultimi trent'anni discendano più o meno direttamente da quell'unisono sussulto di storicistico estremo: le contumelie verso il Calvino di Se una notte d'inverno un viaggiatore e di Palomar, algido alchimista di una letteratura priva di referente, al quale andava contrapposto il corpo di Pasolini, brandito come un trofeo o una reliquia; la definizione liquidatoria di Manganelli «scrittore nichilista»; il ridimensionamento di Sciascia a provocatorio editorialista, mentre della sua ricerca di verità nell'ostinato esercizio dell'artificio e della finzione letteraria si è persa memoria. Ma l'equivoco più increscioso ingenerato da quell'ostracismo è forse proprio il famigerato «ritorno alla realtà». Due saggi, per molti aspetti affatto dissimili, usciti nel 2010 in Italia, hanno del resto contribuito a sgomberare il campo da questo tenace fraintendimento, rimettendo in gioco, fin dal titolo, la nozione di realtà in letteratura: Il romanzo e la realtà di Angelo Guglielmi (Bompiani) e Fame di realtà di David Shields (Fazi).
Se un sintomo va interpretato, la voga del metaromanzo rivela allora l'urgenza di rinegoziare idee, estetiche e finanche categorie letterarie. E di recuperare, finalmente senza sensi di colpa, una nozione banale: oltre che nei suoi contenuti, l'arcano della letteratura risiede nella formalizzazione, nella resa linguistica, nello scarto, nella differenza, nella sua costruzione artificiale e artificiosa. Solo a queste condizioni si dispiega tutto il suo potenziale davvero politico e addirittura eversivo

Il sole 24 ore   - - -

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