sabato 6 agosto 2011

Stefano Zangrando  -   




recensione de

L'ultimo lettore 
di Ricardo Piglia




Se si esclude il caso di Roberto Bolaño, introdotto in Italia da Sellerio fin da quel “falso” d’esordio, solo in parte borgesiano, che è La letteratura nazista in America (1996), non si può certo dire che negli ultimi decenni l’editoria italiana si sia mostrata sensibile ai migliori esiti della narrativa latinoamericana posteriore al «Boom» degli anni Sessanta, incarnato da autori come Cortazar e Marquez. Sergio Pitol, ad esempio, che esordì in quello stesso periodo e la cui carriera poetica è culminata nel 2005 con il premio Cervantes, è presente a tutt’oggi con due soli libri tradotti, una parte minima della sua produzione. Un destino simile è toccato a Ricardo Piglia, nato a Buenos Aires nel 1941, forse il maggior scrittore argentino della sua generazione, i cui romanzi Respirazione artificiale (1980) e Soldi bruciati (1997), apparsi rispettivamente all’inizio e alla fine dello scorso decennio, sono ormai reperibili soltanto in biblioteca. 

Da questo punto di vista è forse prematuro sperare in un cambio di rotta per la recente uscita, nella collana «I narratori» di Feltrinelli, di un ibrido formale tanto esigente quanto avvincente come L’ultimo lettore (trad. di Alessandro Gianetti), pubblicato da Piglia nel 2005. Nondimeno il pubblico italiano dispone ora, oltre che di una «storia immaginaria dei lettori» quale si annuncia nel primo capitolo, di una chiave d’accesso all’opera ulteriore, romanzesca e non, dello stesso autore. Parente non lontano di quell’ironico e proteiforme atto di fede nella letteratura che è Il mal di Montano del catalano Enrique Vila-Matas (uscito anch’esso da Feltrinelli), L’ultimo lettore è forse, con le parole di Piglia stesso, «il più personale e il più intimo» tra i suoi libri. La sua forma è una calibrata commistione di acume critico e perizia narrativa, di saggio e racconto, e il suo oggetto unico e vario è la figura “eroica” del lettore, «costruttore di senso», «ultimo» perché «sempre inattuale» ed «estremo», come Don Chisciotte che forgia la realtà sulla propria illusione cavalleresca solo dopo aver letto tutto, o come Amleto che, entrando in scena con un libro in mano, segna il passaggio dal mondo arcaico e feudale a quello della ragione e della coscienza moderna. Muovendo da episodi biografici o scene minori e trattando alla stregua di personaggi tanto i suoi autori prediletti quanto le loro creazioni, da Borges a Kafka, da Anna Karenina a Molly Bloom, Piglia dà un nome e un’individualità a questa figura altrimenti anonima, di cui già il Benjamin de Il narratore riconobbe la solitudine, l’isolamento silenzioso dalla comunità. E se una simile chiave permette da un lato di gettare una luce inedita sulla vicenda poetica e sentimentale di Kafka o di svelare il procedimento costruttivo che soggiace all’Ulysses joyciano, dall’altro essa trova il suo culmine euristico nell’anatomia del genere poliziesco attraverso Dupin e Marlowe e nella “preistoria” di Ernesto Guevara, dove la costruzione del mito del Che è decostruita e riletta come nascita di una nuova soggettività politica dalle ceneri di un’ambizione letteraria.


© Stefano Zangrando


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