Franco Farinelli
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Il globo, la mappa, le metafore
Si potrebbe continuare, ma è proprio qui che si pone la grande questione, perché qui Leibniz - uno dei pochi pensatori ad aver pensato davvero in termini globali e di cui è urgente riscoprire la logica - è costretto a ridurre, a far coincidere la metafora con la proiezione; o meglio, con quella mossa che noi chiamiamo, con un termine moderno, proiezione. Per Leibniz, la pittura è ingannevole e lo è in maniera duplice.
A questo proposito fa due esempi. Innanzitutto la pittura inganna perché è impossibile percepire alcunché. Noi infatti non percepiamo, bensì giudichiamo: il mondo ci appare come una tabula incisa che ci portiamo dentro, un palinsesto interiore; noi non vediamo semplicemente, ma, ogni volta che vediamo, giudichiamo. Inoltre le immagini ingannano perché o ci fanno scambiare la causa per l'effetto - come un cane che scodinzola di fronte allo specchio e crede di vedere un altro cane -, oppure l'effetto per la causa - come se si attribuissero a un corpo le proprietà, l'influenza, l'effetto che invece è sviluppato da una figura piana. Quando parla di 'corpo', Leibniz, fa riferimento ad un globo e quando usa 'figura piana', si riferisce ad un cerchio disegnato sulla carta e riempito di colore a significare il globo. Leibniz precisa che si tratta di una metafora o metonimia e, poco più oltre, afferma ancora che si tratta di privilegiare la proiezione come forma di conoscenza, perché una cosa ne esprime un'altra soltanto quando ciò che si può dire di una cosa corrisponde in maniera sistematica e regolare a ciò che si può dire dell'altra. In altri termini, la fenomenologia della monade ha nella proiezione il discorso elettivo, e, visto che l'espressione letteraria è qualcosa che evidentemente non corrisponde in maniera sistematica, regolare e costante a questo tipo di analogia, è chiaro che, da questo punto di vista, è possibile ritenerla non dico inutile, ma assolutamente secondaria.
Dov'è il punto? Per Leibniz, come spiegava in una lettera del 1712 a des Bosses, sono sostanzialmente due maniere in cui le cose si danno: una per Dio e una per gli uomini.
Gli uomini sono in qualche maniera costretti a ciò che Leibniz chiama "scenografia", vale a dire a vedere le cose in assonometria, come più tecnicamente diremmo oggi. Se per esempio guardiamo le torri di Bologna mentre camminiamo, ci accorgiamo assonometricamente che sono molto più alte di noi e che girando intorno all'immagine il punto di vista cambia. Questa, dice Leibniz, è la forma di conoscenza che riservata agli umani. Ma ne esiste un'altra, che Leibniz chiama "icnografia", vale a dire la conoscenza geometrica, in cui il punto di vista, tecnicamente una proiezione cilindrica, è all'infinito, è statico, e in cui l'universo non è altro che una serie di serie di rette parallele: questa è la conoscenza divina.
Analizziamo il problema prendendo come esempio un corpo particolare, soltanto un po' meno complicato del globo, ovvero una ricostruzione della Torre di Babele. Proviamo a ridurre questo corpo, che vediamo come una scenografia, ad una icnografia. Non ci riusciamo. Sapete perché? Perché la Torre di Babele, anche se sembra strano, diventa, se ridotta a icnografia, il labirinto. L'origine del labirinto è il collasso al suolo di una struttura verticale. Ciò che nella struttura della Torre di Babele sono i diversi livelli, nell'icnografia diventano i lati: si perde una dimensione, e quello che vediamo - e qui risiede il problema - non è il labirinto, è l'immagine del labirinto. Per definizione, il labirinto non ha un centro, sicché nessuno lo può rappresentare, lo si può soltanto pensare. Se lo si rappresenta, necessariamente si fornisce il labirinto di un centro, cioè lo si muta nel suo esatto contrario.
Il labirinto è forse la sola figura, o sicuramente una delle prime figure, che, nella misura in cui la conoscenza occidentale riduce la conoscenza stessa a rappresentazione, sfugge alla regola. Non si può rappresentare il labirinto.
E questo è il problema di Leibniz, che non c'è corresponsione, non c'è precisa corrispondenza tra il corpo e l'icnografia, almeno in questo caso; vi è qualcosa che sfugge, qualcosa che non è possibile tradurre. In altre parole: rappresentare qualcosa su una tavola significa fornirla di proprietà spaziali. Nella quasi totalità dei casi si adopera "spazio" come metafora, mentre lo spazio è una cosa molto precisa, è un intervallo metrico, lineare, standard fra due punti. Non esiste un altro spazio, propriamente parlando. Ora, il labirinto non è lo spazio. Perché il labirinto diventi davvero spazio è necessario che vi sia un centro, esattamente prodotto, individuato.
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