Claudio Gatti , Il sole 24 ore - 22 maggio 2010
CIUDAD JUAREZ.- Sono le 13 e 30 di un martedì come tanti. Avenida Juárez, centro della città. Il traffico scorre intenso. Decine di persone camminano sui marciapiedi. Una scena di routine. Nulla che annunci un pericolo fuori dell'ordinario. Ma è Ciudad Juárez, e la normalità può essere sospesa in qualsiasi momento. Improvvisamente da un'auto in movimento parte una raffica di mitraglietta.
Tra i passanti c'è chi si getta a terra, chi si nasconde dietro un'auto ferma, chi si rifugia in un negozio. Il bersaglio, un uomo che aveva appena parcheggiato la sua Chevrolet azzurra davanti a un ristorante, stramazza a terra. Ai piedi di un cartello pubblicitario rosso e giallo che offre un'enchilada per 25 pesos. Un euro e cinquanta. Prezzo stracciato. Come quello dell'omicidio appena consumato. Si calcola che i sicari siano stati pagati tra gli 80 e i 100 dollari. La vita si compra a buon mercato a Juárez. Anche per questo, quello stesso martedì sono stati commessi altri 14 omicidi.
Ci sono luoghi che finiscono con l'identificarsi con il nichilismo urbano. Negli anni 80 c'è stato il South Bronx. Negli anni 90 Mogadiscio. Nel primo decennio del 2000 Baghdad. Adesso la capitale irachena è stata superata da Ciudad Juarez . Con una popolazione di 6,5 milioni di abitanti, nel 2009 Baghdad ha registrato 1.545 morti ammazzati. Con una popolazione che non raggiunge il milione e mezzo, Juárez ne ha avuti oltre 2.600. Quattro volte meno abitanti, il 70% di omicidi in più. E al 20 maggio 2010 si è già raggiunta quota 996. Per lo più vittime della guerra per il controllo della maggiore porta di ingresso al mercato nord-americano, con oltre 20 milioni di veicoli che transitano nelle due direzioni. A combatterla sono i maggiori cartelli di narcos, quello di Sinaloa guidato da Joaquin Guzman Loera, detto el Chapo, e quello di Juárez, al cui vertice c'è Vicente Carillo Fuentes.
«Fino a un paio di anni fa bastava tenersi lontano dal business della droga per non correre rischi», ci spiega Felix, quarantenne di Veracruz trasferitosi a Juárez oltre 25 anni fa. «Ora viviamo nel terrore. La notte nessuno esce più. Il giorno la vita sembra normale, ma si può finire nel mezzo di una sparatoria a qualsiasi ora e in qualsiasi angolo di strada». Per non parlare del rischio di imbattersi in un cadavere impiccato, un corpo smembrato o decapitato.
Pensare che fino a solo una decina di anni fa, Juárez era una tipica cittadina di provincia del Messico settentrionale. Povera e corrotta come tante altre nei paesi in via di sviluppo. Con una sola peculiarità: a Juárez la povertà messicana confinava direttamente con l'abbondanza yankee. Bastava attraversare uno dei cinque ponti sul Rio Grande (che nonostante il nome è poco più di un fiumiciattolo) e si era a El Paso. La città gemella, anzi la sorella siamese al di là del fiume. In Texas, Usa. Adesso Juárez è un inferno al confine del paradiso. «Non c'è equivalente», ci spiega Jay Abbott, Special Agent dell'Fbi di El Paso. «Da nessuna altra parte del mondo c'è un conglomerato urbano separato in due, la cui metà del nord è nel meglio dell'Occidente e la metà del sud nel peggio del Terzo mondo».
Ma il caos rimarrà circoscritto a Juárez? Sia da una parte del fiume che dall'altra abbiamo ricevuto la stessa risposta: se non si interverrà sulle sue cause, il caos si diffonderà. Ma non a nord, come ci si aspetterebbe, bensì a sud. Insomma, la buona notizia per gli Usa è che il rischio che il cancro si estenda dall'altro lato del confine è limitato. La cattiva notizia per il Messico è che la probabilità che si propaghi al resto del paese è alta.
Omicidi a parte, Juárez è diventata il regno del crimine. Nel 2009 più di 16mila furti di auto e 1.900 rapimenti. Per non parlare delle estorsioni e delle rapine in banca. Certamente ha contribuito la crisi (le fabbriche hanno licenziato 60mila operai), ma nell'ultimo anno è stata anche la violenza a spingere oltre 10mila imprese a chiudere e oltre 100mila persone ad abbandonare la città. «I ricchi si sono trasferiti dall'altro lato del Rio Grande, a El Paso», ci dice Felix. «I poveri sono tornati in massa al sud, da dove erano arrivati dalla seconda metà degli anni 90, quando sono nate le prime maquilladoras (le fabbriche di assemblaggio)».
Basta percorrere l'Avenida la Torres per vedere decine di maquilladoras, aperte dopo la firma del Nafta, l'accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico. Proseguendo verso fuori, si arriva a Villa Salvarcar, un quartiere di casette monofamiliari costruito dal governo per gli operai di quelle fabbriche. Aveva rappresentato il Mexican Dream per decine di migliaia di contadini che avevano lasciato la miseria delle loro capanne nel Chapas o nell'Oaxaca. Una casa di mattoni e cemento, con tanto di porte di legno e finestre di vetro.
Ora Villa Salvarcar è il simbolo della tragedia di Juárez. Perché quasi la metà delle abitazioni sono abbandonate: senza più porte, vetri o infissi, distrutti dai vandali o portati via dagli sciacalli. Ma anche per quello che è successo tre mesi fa a un gruppo di ragazzi che avevano organizzato una serata. In un blitz di una dozzina di sicari armati fino ai denti, due auto hanno bloccato la via d'accesso mentre un gruppo di uomini faceva fuoco sui giovani massacrandone 15. Una mattanza che ha fatto scalpore persino in una città in cui la barbarie è quotidiana. «Ci è stato spiegato che uno dei ragazzi era legato ai narcos. Ma non è pensabile che a Villa Salvarcar si sia usata quella potenza di fuoco per uccidere un ragazzino», ci dice Luz del Carmen Soza, cronista di nera de El Diario, il principale quotidiano di Juárez. «Lì sono andati per commettere una strage. Io credo sia stato un vero e proprio atto di terrorismo contro lo stato».
La tragica realtà è che c'è motivo di credere che Juárez sia solo l'inizio. «Ci sono fattori endogeni - in primis l'adiacenza con quell'enorme mercato della droga che sono gli Stati Uniti - che spiegano come mai il caos sia cominciato prima a Juárez», sostiene l'economista Lucinda Vargas, direttore dell'associazione civile Plan Estratégico de Juárez. «Ma le due cause alla radice di tutto - la corruzione delle istituzioni e l'impunità - affliggono il paese intero. Ecco perché penso che Juárez rappresenti il futuro del Messico. Qualche tempo fa il presidente Calderon ha detto: "Siamo tutti Juárez". Beh, potrebbe essere più vero di quanto non pensi».
A Juárez i complici, o addirittura gli stessi sicari dei narcos, sono reclutati nella polizia. E «meno dell'1% dei reati sono perseguiti», come conferma Jay Abbott. L'agente dell'Fbi spiega anche come sia possibile che un paese cattolico non certo noto per la brutalità del suo popolo possa produrre un grado di ferocia come quello raggiunto a Juárez. «Per via della straordinaria impunità, qui c'è gente che è arrivata a compiere il cinquantesimo omicidio. E il senso del valore della vita si è eroso sempre di più». Ma non teme che la violenza possa sconfinare nel suo territorio? Abbott risponde con i dati: «Tra il 2004 e il 2008, El Paso è stata la quinta città di media grandezza più sicura d'America. L'anno scorso la seconda. Dopo Honolulu». Come lo spiega? «Qui le forze dell'ordine svolgono la propria funzione e i narcos sanno che la certezza della punizione è quasi assoluta». Anche Abbott tempe un'espansione a sud della violenza: «Juárez è una cartina di tornasole per l'intero Messico»
© Claudio Gatti
Ciudad Juarez
Sergio González Rodríguez
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