Massimiliano Parente - il giornale - 25 novembre 2009
La leggenda buffa dello scrittore ribelle e maledetto
Non ha fatto in tempo a vedere la propria fama mondiale, è morto a cinquant’anni, nel 2003, e nessuno, lì presso il Circolo Pickwick di Stoccolma, ha mai pensato a dargli un Nobel, anzi cinque anni prima lo hanno dato a Dario Fo, che non ha mai scritto un romanzo.
Ora il cileno Roberto Bolaño ha quel che si merita, meglio tardi che mai e, considerati i tempi della letteratura, neppure così tardi. Negli Stati Uniti, negli anni successivi alla morte, è diventato perfino un bestseller, benché sia stato necessario cucirgli addosso il mito di scrittore ribelle, alcolista e bohémien dalla vita sregolata, «il Kurt Cobain della letteratura latinoamericana». Eppure basterebbe andarsi a leggere i suoi libri per comprendere quanto poco c’entri con la leggenda del ribelle, e quanto abbia ragione il suo amico scrittore Horacio Castellanos Moya; altro che avvicinarlo alla poetica della Beat Generation, Moya lo sapeva, Bolaño è «più vicino a Balzac o Proust», e non esagerava. Andate a comprarvi, per esempio, 2666 (suo capolavoro, insieme a I detective selvaggi edito da Sellerio insieme ad altre opere minori non meno scintillanti), che Adelphi ha appena mandato in libreria in un’attraente edizione economica, mille pagine di un romanzo incredibile e a soli ventidue euro, cioè un universo intero a soli tre euro in più del bicchierino d’acqua di Veltroni.
Il libro è diviso in cinque parti («La parte dei critici», «La parte di Amalfitano», «La parte di Fate», «La parte dei delitti», «La parte di Arcimboldi»), che nel progetto dello scrittore sarebbero dovute uscire separatamente. Comincerete a seguire le tracce di quattro critici, il francese Jean-Claude Pelletier, l’italiano Piero Morini, lo spagnolo Manuel Espinoza, e una donna inglese, Liz Norton, tutti e quattro a loro volta sulle tracce di un misterioso scrittore tedesco, Benno von Arcimboldi, introvabile, una specie di Thomas Pynchon ma conosciuto solo dagli addetti ai lavori. I quattro si sposteranno in Europa, tra Inghilterra, Spagna, Italia, alla ricerca di Arcimboldi e anche alla ricerca di se stessi, in un quadrilatero sentimental-sessuale senza confini geografici e mentali, fino a approdare in Sudamerica, ultima tappa di Arcimboldi, e precisamente a Santa Teresa, in Messico, dove incontreranno un collega, il professor Amalfitano, e ascolteranno storie di decine di donne assassinate da un serial killer, dettaglio che spalancherà la terza violenta parte del libro.
Benché ogni sezione del libro sembri separata dall’altra, molti fili invisibili le tengono legate, e ogni parte spalanca a sua volta altre storie e personaggi mai secondari neppure quando sembrano marginali. Alla fine non tutti i nodi vengono al pettine, anche se scopriremo la vera storia di Arcimboldi, attraversando la Germania nazista, e quella di Hans Reiter (preludio del Terzo Reich, che uscirà incompiuto e postumo nel 2011), approdando all’identità del serial killer. Ma altri indizi, personaggi, percorsi narrativi, resteranno irrisolti, come è anche nella vita, come la parola «quasi» che chiude il Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda.
La scrittura di Bolaño contiene lo straniamento di Kafka e l’espressionismo di Faulkner nella potenza affabulatoria delle Mille e una notte e perfino di un feuilleton di Dumas. 2666 è anche, per molti aspetti, più vicino all’Infinite Jest di David Foster Wallace (dove al posto di Arcimboldi c’è il regista James O. Incandenza), che alla pur seducente metaletteratura di Borges o Perec o Queneau, poiché come ogni grande capolavoro affonda la sua avanguardia dentro la narrazione anziché giocherellare con la retroguardia dell’antinarrazione o, al contrario, con la narrazione fine a se stessa del resto dei romanzi che non resteranno. Filosoficamente più vicino al Cosmo di un altro gigante, Witold Gombrowicz (il quale visse per anni esule in Argentina, non distante dal Bolaño bambino), 2666 è anche un romanzo del caos e dell’impossibilità di dare un ordine al mondo senza rinunciare al tentativo di guardare nell’abisso, e il lettore in pantofole e poltrona, trascinato da una vicenda all’altra, da un personaggio all’altro, da un abisso all’altro, si sentirà simile alla signora Bubis, la donna «con un fisico alla Marlene Dietrich» incontrata dai quattro critici erranti, «una donna che malgrado gli anni conservava intatta la propria determinazione, una donna che non si aggrappava ai bordi dell’abisso ma cadeva nell’abisso con curiosità ed eleganza, una donna che cadeva nell’abisso seduta». Perché nel brulicare terribile dell’universo e dei segni che non significano ciò che vorremmo, nessun atto ha davvero un senso assoluto e oggettivo, né l’amicizia né l’amore né un assassinio né un quadro dipinto, come il pittore descritto nel romanzo Edwin Johns, che un giorno si taglia la mano con cui dipinge realizzando, attraverso questo gesto, il suo capolavoro, il readymade della sua mano amputata. Come quando Marcel Duchamp rinunciò per sempre alla pittura dipingendo un ultimo quadro e trafiggendolo, intitolandolo Tu m’infastidisci (e Duchamp, e la sua poetica del readymade e del caso, è infatti il centro de «La parte di Amalfitano»).
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