Simona Maggiorelli , Terra, 12 febbraio 2010
Dopo la prematura scomparsa dello scrittore cileno Roberto Bolano, i suoi archivi hanno rivelato migliaia di pagine inedite. Da cui Adelphi ha tratto una appassionante raccolta di saggi e di pagine autobiografiche Si sono spesso scomodati nomi di autori già "classici" come Borges, e narratori di tendenza, scuri e seducenti come Villa Matas o Gutierréz per raccontare la prosa visionaria, senza margini quanto onnivora di generi letterari di Roberto Bolaño (Santiago del Cile, 1953 - Barcellona, 2003). Anche se il paragone, per quanto lusinghiero per lo scrittore cileno che ha attraversato come una meteora l'orizzonte del secondo Novecento lasciando una scia di migliaia di pagine, riesce a chiarire solo in parte la sua figura di outsider. Con Borges, è vero, Bolaño ha in comune una sterminata cultura, ma non ne ha ereditato la geometrica freddezza, l'andatura labirintica e claustrofobica.
Ad avvicinare Bolaño al cubano Juan Gutièrrez (l'autore de La trilogia sporca dell'Avana), invece, sono la scrittura ruvida e l'amore incondizionato per le donne, ma anche il successo tardivo nonché una miriade di lavori umili per campare. Ma nella torrenziale scrittura del cileno non c'è traccia di quel furor sordo e rabbioso che ha meritato a Gutierrèz l'etichetta di Bukowski dell'Avana. E ancora. Con lo spagnolo Enrique Vila Matas, l'autore di 2666 (Adelphi) e di Notturno cileno (Sellerio) ha in comune la capacità di raccontare piccole sovversioni quotidiane, il gusto di mescolare commedia e tragedia, di scegliere come personaggi inconsapevoli funamboli della vita. Ma Bolaño non ama il non sense, il gesto surrealista fine a stesso come il disincantato collega spagnolo. Una profonda fiducia nell'umano e nel valore positivo dell'arte non abbandonano mai il suo lavoro. E si potrebbe continuare a lungo in questo gioco di avvicinamenti e prese di distanza perché l'universo letterario di Bolaño è sotterraneamente abitato da tutti gli autori che ha letto e amato.
A molti di loro ha dedicato anche appassionate note letterarie, articoli, brevi saggi che, grazie alla cura di Ignacio Echevarrìa, ora si possono leggere tutti di un fiato nella raccolta Tra parentesi edita da Adelphi. Un imprevedibile zibaldone di note autobiografiche, pezzi di critica letteraria, tuffi nel mondo dell'arte e riflessioni sulla scrittura e sul senso della letteratura.
Ma vi si scovano anche pagine di storia personale, quasi diaristiche, in cui racconta rocambolesche vicende come quelle che lo portarono ad attraversare mezza America latina per raggiungere, con mezzi di fortuna, il suo paese natale, il Cile. Bolaño vi fece ritorno nel '73 per appoggiare le riforme socialiste di Salvador Allende. Ma riuscì ad arrivare solo alcuni giorni dopo il colpo di stato di Pinochet. Senza esitare Bolaño decise di unirsi alla Resistenza ma fu subito arrestato. Riuscì a uscire di prigione otto giorni dopo grazie a un vecchio compagno di scuola fra le guardie di vigilanza. Una vicenda che racconta della sua passione civile, della sua generosità, ma anche di quella disarmante curvatura picaresca che assunsero alcune vicende cardine della sua vita. E che colora tutta la sua vicenda letteraria, dai primi esperimenti di avanguardia al Café dell'habana di Città del Messico dove Bolaño fondò il movimento infrarealista, al torrenziale romanzo, 2666 che lo scrittore cileno, (scomparso prematuramente a cinquant'anni) non riuscì a portare a termine.
Uscito postumo 2666 è diventato quasi subito un caso editoriale a livello internazionale. Protagonista di quelle mille e passa pagine è il misterioso Benno von Arcimboldi, già personaggio sullo sfondo di un altro libro cult di Bolaño, I detective selvaggi. Ma, come se i testi dello scrittore cileno fossero pezzi di un'unica grande trama, vi si possono ritrovare rimandi anche ad Anversa (Sellerio), l'esordio in prosa di un Bolaño allora ventisettenne e in fuga da una feroce dittatura, finito in Spagna, a Barcellona, senza permesso di soggiorno. Anversa si presenta come un'opera rapsodica, frammentaria, scritta quasi di spigolo, tanto quanto 2666 è, invece, generoso e vitale.
Ma entrambe appaiono contrassegnate da una cifra visionaria, da continui cut up. Bolaño scrive mosso da un'urgenza profonda, come se avvertisse che non ha tempo da perdere. Odia le maschere, i manierismi, gli infingimenti. E anche se scrive divinamente non ama la bella scrittura: "Non significa nulla scrivere bene - annotava - perché questo può farlo chiunque, e neppure scrivere meravigliosamente bene, perché anche questo può farlo chiunque. Allora cos'è la qualità della scrittura? È quello che è sempre stato: saper cacciare la testa nel buio... sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso".
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