lunedì 24 maggio 2010

Tra parentesi

Enzo di Mauro ,   Alias de Il manifesto -  gennaio 2010



Sarà opportuno e forse necessario chiudere a questa altezza i conti – di sicuro in forte attivo per il lettore italiano che li aveva, incuriosito e ammirato, aperti una dozzina di anni fa con un libro sorprendente che si intitolava La letteratura nazista in America link interno – col cileno Roberto Bolaño, classe 1953, morto in Spagna, a Barcellona, nel 2003. Chiuderli, si intende dire, proprio mentre la crudele, inarrestabile acribia del mito ne ha precipitato l’ombra e l’opera nel recinto, angusto e inesplicabile, abitato dagli autori cosiddetti di culto – ipotizzandosi intanto, tra le possibili cause, la consueta pachidermia editoriale che bene s’è venuta a incastrare col cospicuo lascito dello scrittore, così provocando un effetto si sazietà e di indeterminatezza, ossia qualcosa di simile a una nuvola che (sebbene adamantina e gloriosa), mentre si allontana alzandosi, sottrae allo sguardo i suoi contorni e le sfumature.

 
Ma Bolaño – occorre ripeterlo con insistenza – è innocente, ormai purtroppo del tutto estraneo alla dinamica infernale che, volendolo beatificare, in realtà finisce quasi con l’esorcizzarlo e per renderlo innocuo, dunque sospetto, lui che invece precisamente del sospetto fu un maestro al punto da assumerlo, nei suoi romanzi e nei racconti, a cifra stilistica, ad andatura sintattica. Era come se dal suo scrigno segreto di scrittore fuoriuscisse un fumo acre respirando il quale il popolo dei personaggi non potesse aspettarsi nulla di buono, ovvero un destino da impostori e da ingannati, da stelle spente la cui luce tuttavia ancora brillava a intermittenza per un tempo difficile da calcolare.
Che nella letteratura praticata da Bolaño non vi sia traccia di redenzione appare ovvio, e a giochi conclusi è anzi facile situarla piuttosto in un pianeta del risentimento e dell’irrisione o persino in una sfera di vitalissima, luciferina astuzia critica sempre pronta a colpire ogni benché minimo istinto alla riconciliazione e alla rinuncia. Ed è allora giusto, e assai produttivo, chiudere il cerchio con un libro non narrativo di Bolaño che somiglia – come capita spesso agli scrittori di forte personalità quando vengono raccolti in volume i loro saggi, articoli, discorsi, conferenze e interviste – a una vera e propria autobiografia intellettuale, benché egli detestasse le autobiografie. Tra parentesi (“Saggi” Adelphi, a cura di Ignacio Echevarría, traduzione di Maria Nicola, pagg. 379, euro 29,00) si presenta fin da subito come un susseguirsi di giornate di lettura, cioè a dire come un autoritratto involontario, come uno zibaldone di gusti e disgusti, di passioni e idiosincrasie. La brillantezza sfrontata di Bolaño, anche qui, non si fa pregare. E stata una delle sue virtù, ma anche un vizio e un limite da cui difendersi magari ricorrendo a strutture complesse, ampie e a volte estenuanti (come in 2666 link interno, opera di un picaro ostinato e disperato).
Denso, libero, spietato e preciso nei giudizi, nelle formule e nelle analisi – dopo avere riconosciuto a due libri, L’assassina letterata di Enrique Vila-Matas e al primo romanzo di Javier Marías (Los dominios del lobo), il merito di aver segnato il punto di partenza della sua generazione – Bolaño spesso e volentieri mostra i pugni e i denti innanzitutto (sarà stata, viene da supporre, una sorta di preveggenza che riguarderà appunto la sua straordinaria fortuna postuma) ai danni di autori esentati dalla solitudine, sfiorati dal fiato spesso della venerazione e del successo.
Così, in alcune pagine acute e penetranti dedicate al paesaggio della letteratura argentina, è il pur simpatico e generoso Osvaldo Soriano – “un buon romanziere minore”, lo si definisce non a torto – viene assunto nel cielo dei populisti e dei sentimentali: “Grazie a Soriano gli scrittori argentini scoprono di potercela fare, anche loro, a guadagnare bene. Non c’è bisogno di scrivere libri originali, come Cortázar o Bioy, né romanzi totali come Cortázar o Marechal, né racconti perfetti, come Cortázar o Bioy”. Basterà, aggiunge, un pizzico di umorismo, molta solidarietà, amicizia porteña, un po’ di tango, pugili suonati e un Marlowe "vecchio ma ancora ben saldo” e tanto, tantissimo calcio, specie di quello di una volta. Si capisce per chi batte il cuore del cileno esule che fece in tempo a conoscere le prigioni di Pinochet (la patria, per lui, era la sua biblioteca e i libri che amava o, più tardi, poco prima di morire, il volto e i gesti dei suoi due figli).
“Una scrittrice è Silvina Ocampo. Una scribacchina è Marcela Serrano” e Angeles Mastretta, o Isabel Allende col suo “glamour da sudamericana in California” e Antonio Skármeta il quale “non lo salva nemmeno Dio”, o Paulo Coelho, “una specie di Barbuse o Anatole France in versione telenovela carioca”. Bolaño ama Rodolfo J. Wilcock e Borges, Philip K. Dick e Turgenev, gli amici Pedro Lemebel e Javier Cercas (Bolaño compare, tra l’altro, come personaggio nel romanzo Soldati di Salamina) e Witold Gombrowicz (“non tutto è perduto, ferdydurkisti” è uno dei suoi motti). Anche per quanto riguarda gli scrittori cileni, la sua lama non è meno tagliente – così annota, ad esempio, come “nel gran teatro di Lezama, Bioy, Rulfo, Cortázar, García Márquez, Vargas Llosa, Sábato, Benet, Puig, Arenas, l’opera di Doloso scivola automaticamente in secondo piano e impallidisce”; oppure, a proposito di Canto generale di Neruda, è niente affatto banale indicarla come l’opera che in forme eclatanti segnala “il momento in cui l’insegnamento di Whitman si ritorce in modo cruciale contro la poesia sudamericana”.
Bolaño, com’è ovvio, è un lettore metodico che rifugge dal metodo. E’ appassionato, viscerale, fortemente reattivo, spesso ellittico. Quando si confronta con quelli che considera maestri assoluti, i pezzi temono al medaglione, al ritratto, un po’ alla maniera di Borges o, se si vuole, di Lytton Strachey – come nel caso di Dick o dell’invitto Burroughs (si prenda l’attacco davvero memorabile: “Per alcune persone della mia generazione William Burroughs fu l’uomo incrollabile, il pezzo di ghiaccio che non si scioglieva, l’occhio che non si chiudeva mai. Dicono che ebbe tutti i vizi del mondo, però io credo che fu un santo cui si accostarono tutti i viziosi del mondo perché aveva la delicatezza e l’imprudenza di non chiudere mai la porta”). Ecco: che si tratti del “veloce, ardito, mallealibile” Roberto Arlt, cioè dell’”eterno sopravvissuto”, o del non rimuovibile Borges, tanto simile a un inglese, a “un personaggio di Chesterton, o di Shaw o di Stevenson”, se non addirittura a una creatura nata dalla fantasia di Kipling, ciò che al fondo Bolaño ammira soprattutto è la verticalità, il rigore, il sacrificio, lo stoicismo, il coraggio. Presa in sé la brillantezza non è nulla, e nulla è la pedanteria (Esperienza di Martin Amis è questo, sostiene: non è poco e insieme non è abbastanza). “Se dovessi rapinare la banca più sorvegliata d’America”, scrive, “nella mia banda vorrei solo poeti. La rapina si concluderebbe in modo disastroso, probabilmente, ma sarebbe bellissima”.
Un altro dei suoi motti, non a caso, è quello che meglio lo rappresenta e ne significa la posizione, la trincea morale non contrattabile, ovvero “Et in Sparta ego”. Tra parentesi bisogna leggerlo, dunque, anche come un indicatore di elementi di disturbo alla cattiva educazione che ogni mito o culto, grande o piccolo che sia, produce e induce. Un contro veleno al troppo Bolaño che abbiamo attraversato.



l'articolo su Archivio Bolaño  link interno

Nessun commento: