Raffaella Grasso - 25 maggio 2010
Blog la giraffa Roberto Bolaño, 2666 Vol. 1
Un anno fa, mese più mese meno, in una conversazione telefonica con un amico che purtroppo non vedo mai, tra novità e aggiornamenti personali, chiacchiere sparse, disordinate e incoerenti, salta fuori la dritta, “2666, Bolaño”. Ne prendo nota su un foglietto, cosa perfettamente inutile dal momento che all’indomani della mia innocente “scoperta” mi ritrovo a inciampare nel romanzo e nell’autore in questione dappertutto, terze pagine dei principali quotidiani, recensioni su riviste che coltivano ancora qualche timida pretesa culturale, vero e proprio proselitismo sul web più agguerrito e informato. Diffidente nei confronti dei fenomeni letterari di massa, forse, più realisticamente, punta nell’orgoglio per essere arrivata a Bolaño così tardi e solo dietro suggerimento altrui, lascio sedimentare la curiosità, mi trattengo ignorandolo in libreria per un bel po’. Fino a quando mi sembra di nuovo possibile raccontare a me stessa, con un minimo di credibilità, di essere io a scegliere questo romanzo e che lui si presenta a me quando i tempi sono maturi per il nostro incontro. Un meccanismo cervellotico, che riflette a sua volta un sentimentalismo egocentrico, infantile e stucchevole, lo ammetto. D’altronde con Bolaño è la mia prima volta.
Com’è andata? Un libro complesso, difficile. Eppure senti che è importante, che non puoi arrenderti, che devi andare avanti. Anche quando il muro d’acqua di questa storia complicata ti si rovescia addosso sommergendoti, perdendosi in mille rivoli che fatichi a seguire, impegnata, come sei, a restare a galla.
Un’ossessione letteraria, la ricerca di un enigmatico scrittore di cui si sono perse le tracce da tempo. Pochi gli elementi da cui partire: voci che potrebbero rivelarsi infondate, una descrizione sommaria, neppure una foto. Tutto converge verso Santa Teresa, una città desolata dello stato del Sonora in Messico, degna di nota solo per il fatto che lì accadono strani omicidi: giovani donne rapite e assassinate, non si sa da chi, non si sa perché. Attorno il deserto, la terra di mezzo, la frontiera in cui tutto sembra destinato a rimanere irrisolto, dilatato, sospeso.
Brevi flash di una trama intricata che non provo neppure a riassumere. Ogni quadro ha vita a sé stante, in ciascuno di essi lo sguardo si perde come in una pala d’altare o in quei libri per bambini con i diorami, le figurine di cartone che saltano fuori dalla pagina. Dettagli laterali, lasciati lì quasi per caso, rivelano talvolta l’incastro. Per il resto l’unità del racconto è affidata, direi, ad una tonalità di luce, tenue e rarefatta, per niente lieve o confortante, che disegna contrasti netti lasciando le cose in penombra. Sole che non riscalda, alone opalescente che si diffonde a partire dall’ombra, via via sempre più sinistra, dello scrittore scomparso. E arrivi alla fine, che fine non è, in un crescendo nevrotico, che è parte della storia e monta in te che stai leggendo. Nessun mistero risolto, neppure una risposta agli enigmi che anzi riverberano in questo gioco continuo di lampi improvvisi, di salti apparentemente definitivi, che rivelano nessi con cose lontane o che saranno, proprio quando non te l’aspetti e poi ancora non appena ti illudi di essere sulla buona strada, a rovesciare i piani attraverso “innocenti” cambi d’angolazione.
Insomma finisce il libro ma non hai la benché minima idea di come vada a finire la storia, il che forse è normale dal momento che il volume in questione raccoglie solo le prime tre parti del romanzo fiume di Bolaño, a cui seguono le ultime due (?) raccolte in un altro tomazzo che devo prontamente comprare. Sarà…la mia sensazione è che molto poco “si concluderà” nel senso tradizionale del termine e che continuerò a godermi quest’opera straordinaria con la frustrazione di non aver risposta alcuna, di continuare a rimbalzare da un piano all’altro, di ipotesi in ipotesi, di dubbio in dubbio, accompagnata solo da questa luce fredda e inclemente che getta nuovi squarci su tutto e tutti. Il peso di questa insoddisfazione e il fastidio, epidermico e tutto personale, per i romanzi eccessivamente lunghi e complicati sono tuttavia compensati dall’incanto dei dettagli – personaggi indimenticabili, che si affacciano e non tornano più, dialoghi, descrizioni, singole frasi – dallo stupore del “come ha fatto? non si può spostare una virgola, non si può dire meglio!” che molto spesso, quasi distrattamente, Bolaño regala. Quell’esperienza inconfondibile che si prova leggendo chi è capace di scrivere.
Chiunque cerchi svago, divertimento, riflessione sì, ma condita da un velo d’ironia, una strizzatina d’occhio ogni tanto, può tenersi alla larga da questo romanzo.
2666 è un’opera mastodontica, eccessiva, implacabile, per certi versi mostruosa. Non di meno, se, al termine della lettura del primo volume e dopo il breve interludio di Stella distante, mi ero convinta che i romanzi brevi di Bolaño fossero meglio, quanto meno per prendere le misure, ora ho cambiato parere. Di 2666 si continuerà a parlare, ognuna delle sue 1105 pagine continuerà a parlare ancora per molto, di qui bisogna passare prima o poi. Tanto vale cimentarsi e accada quel che accada!
Per me è stata dura, ne esco stremata come dopo una lunga apnea, trasformata anch’io nel bambino-alga che salta fuori a un certo punto del racconto, quasi a ricordarmi chi sono mentre leggo, quale parte ho nella narrazione, che tutto era previsto, nulla affidato al caso, compreso il mio bisogno impellente di venir fuori a prendere aria, la disperazione ingolfata, scomposta, paonazza che mi coglie quasi subito all’inizio del secondo volume, che, poco a poco, si fa serena, a tratti persino piacevole. E alla fine (ma solo alla fine) vorrei ricominciasse daccapo. «Ancora una volta!» come le favole ascoltate da piccoli, i racconti del terrore o le dipendenze, tutte un po’ tossiche, sviluppate qualche anno più in là.
C’è un che di perverso in questa narcosi del lettore nel romanzo, e un che di prodigioso. Bello non è l’aggettivo appropriato per un libro del genere, che forse non è neppure un romanzo ma cinque, e forse non è neppure un romanzo ma una storia universale, dal percorso accidentato, faticoso, a tratti snervante, una selva di incastri, di digressioni narrative, didascaliche, enciclopediche che non vanno da nessuna parte, perché è precisamente lì che devono andare, come nei canti omerici o nell’epopea di Gilgamesh.
Torna a riproporsi la metafora dell’acqua, del racconto fiume che travolge, a ondate e reflussi, in cui è difficile stare a galla. Ne La parte dei delitti, che apre il secondo tomo, mi sono letteralmente impantanata e ho temuto di non sortirne più. I femminicidi di Santa Teresa - città di frontiera nel nord del Messico trasposizione letteraria di Ciudad Juarez dove i fatti in questione accadono davvero, sfondo narrativo della sezione precedente - occupano la scena, diventano oggetto principale del racconto. Oggetto non a caso, dal momento che di ogni singolo evento delittuoso viene offerto un quadretto sintetico e dettagliato, più consono ai toni devitalizzati, professionali e asettici, dei verbali di polizia, dei referti autoptici, delle pagine di cronaca nera. Di bozzetti, contenenti ogni tipo di atrocità, se ne affastellano un bel po’, uno dopo l’altro, centinaia fino a perdere il conto. Tanti che non do più peso alle aberrazioni che leggo, quasi non me ne accorgo, quasi non riconosco più (io, una donna) nell’ennesima morta una mia simile, un’altra donna.
La mia sensibilità si risveglia in certi intermezzi ambientati in carcere. La violenza tra maschi, descritta con dovizia di particolari, mi sembra atroce, insopportabile. Anche questo deve essere voluto, frutto di estrema maestria nella composizione e nel dosaggio, come il gusto per l’elenco, la catalogazione degli orrori, il ritmo ricorsivo, cadenzato, ipnotico, con cui Bolaño ammucchia cadaveri femminili rendendomeli indifferenti. E, tuttavia, è pur sempre noia quella che provo, e della peggior specie, d’una qualità oscena, una noia che non “dovrei” provare.
Torno a prender fiato ne La parte di Arcimboldi. Proprio quando il bambino-alga comincia ad immergersi, per me ha inizio la risalita.
Dentro questo ragazzino schivo e allampanato, che diventa uomo, gigante, sotto i miei occhi, ci stanno due guerre, una generazione, un secolo, i Mari del Nord Europa, le steppe siberiane, il deserto del Sonora, il mondo intero. Tutto condensato in un unico personaggio, un filamento flessibile, esile, lungo e stretto che proprio in virtù della sua adattabilità, del suo anonimato riesce a strisciare, a insinuarsi in situazioni incredibili, costellate da coincidenze siderali, assurde, impensate, che però non puzzano mai di finto, di forzoso o artefatto. Un anonimato il suo che non è mancanza di personalità, ma filtro, amore per il sedimento.
Con i suoi piedi enormi attraverso lande mai viste, per sbucare all’improvviso su incroci già noti, vicoli ciechi che avevo abbandonato e che ora rivelano un passaggio.
Imparo ad amare il timido omaccione, intriso di disciplina prussiana e furore rumeno, fiumi di vodka russa e gelo polare, anche per questo, perché grazie a lui tutto sembra trovare un senso, una precisa collocazione, perché in sua compagnia sembra possibile tornare indietro, rifare la strada, che è costata tanta fatica, evitando, ’sta volta, dubbi e smarrimenti.
Una bugia meravigliosa e tremenda, di cui sono saldamente convinta alla fine, tanto da aver voglia di rituffarmi subito in una seconda lettura. Il trucco finale, l’ultima ironia raffinata e crudele di Bolaño, che racconta un uomo, una storia, il mondo, ma non spiega l’arcano, che di nuovo mi porta, questa volta dolcemente, sfruttando a pieno l’incantamento del racconto, faccia a faccia con l’oscenità e l’abisso.
Chi è l’assassino di tutte quelle donne? Ora che conosco Arcimboldi, che so tutto di lui, posso veramente escludere che c’entri qualcosa? O non accade piuttosto che, avendolo visto da vicino, semplicemente non mi interessa più se sia o meno un assassino, che a viver fianco a fianco a un omicida la questione perda importanza, non significhi nulla perché, come si dice a un certo punto, anche “un assassino, in fondo, è buono”?
Questo al fondo mi sembra il nucleo duro dell’opera di Bolaño, che la letteratura è capace di tali e altre simili atrocità.
Com’è andata? Un libro complesso, difficile. Eppure senti che è importante, che non puoi arrenderti, che devi andare avanti. Anche quando il muro d’acqua di questa storia complicata ti si rovescia addosso sommergendoti, perdendosi in mille rivoli che fatichi a seguire, impegnata, come sei, a restare a galla.
Un’ossessione letteraria, la ricerca di un enigmatico scrittore di cui si sono perse le tracce da tempo. Pochi gli elementi da cui partire: voci che potrebbero rivelarsi infondate, una descrizione sommaria, neppure una foto. Tutto converge verso Santa Teresa, una città desolata dello stato del Sonora in Messico, degna di nota solo per il fatto che lì accadono strani omicidi: giovani donne rapite e assassinate, non si sa da chi, non si sa perché. Attorno il deserto, la terra di mezzo, la frontiera in cui tutto sembra destinato a rimanere irrisolto, dilatato, sospeso.
Brevi flash di una trama intricata che non provo neppure a riassumere. Ogni quadro ha vita a sé stante, in ciascuno di essi lo sguardo si perde come in una pala d’altare o in quei libri per bambini con i diorami, le figurine di cartone che saltano fuori dalla pagina. Dettagli laterali, lasciati lì quasi per caso, rivelano talvolta l’incastro. Per il resto l’unità del racconto è affidata, direi, ad una tonalità di luce, tenue e rarefatta, per niente lieve o confortante, che disegna contrasti netti lasciando le cose in penombra. Sole che non riscalda, alone opalescente che si diffonde a partire dall’ombra, via via sempre più sinistra, dello scrittore scomparso. E arrivi alla fine, che fine non è, in un crescendo nevrotico, che è parte della storia e monta in te che stai leggendo. Nessun mistero risolto, neppure una risposta agli enigmi che anzi riverberano in questo gioco continuo di lampi improvvisi, di salti apparentemente definitivi, che rivelano nessi con cose lontane o che saranno, proprio quando non te l’aspetti e poi ancora non appena ti illudi di essere sulla buona strada, a rovesciare i piani attraverso “innocenti” cambi d’angolazione.
Insomma finisce il libro ma non hai la benché minima idea di come vada a finire la storia, il che forse è normale dal momento che il volume in questione raccoglie solo le prime tre parti del romanzo fiume di Bolaño, a cui seguono le ultime due (?) raccolte in un altro tomazzo che devo prontamente comprare. Sarà…la mia sensazione è che molto poco “si concluderà” nel senso tradizionale del termine e che continuerò a godermi quest’opera straordinaria con la frustrazione di non aver risposta alcuna, di continuare a rimbalzare da un piano all’altro, di ipotesi in ipotesi, di dubbio in dubbio, accompagnata solo da questa luce fredda e inclemente che getta nuovi squarci su tutto e tutti. Il peso di questa insoddisfazione e il fastidio, epidermico e tutto personale, per i romanzi eccessivamente lunghi e complicati sono tuttavia compensati dall’incanto dei dettagli – personaggi indimenticabili, che si affacciano e non tornano più, dialoghi, descrizioni, singole frasi – dallo stupore del “come ha fatto? non si può spostare una virgola, non si può dire meglio!” che molto spesso, quasi distrattamente, Bolaño regala. Quell’esperienza inconfondibile che si prova leggendo chi è capace di scrivere.
Roberto Bolaño, 2666, secondo volume
2666 è un’opera mastodontica, eccessiva, implacabile, per certi versi mostruosa. Non di meno, se, al termine della lettura del primo volume e dopo il breve interludio di Stella distante, mi ero convinta che i romanzi brevi di Bolaño fossero meglio, quanto meno per prendere le misure, ora ho cambiato parere. Di 2666 si continuerà a parlare, ognuna delle sue 1105 pagine continuerà a parlare ancora per molto, di qui bisogna passare prima o poi. Tanto vale cimentarsi e accada quel che accada!
Per me è stata dura, ne esco stremata come dopo una lunga apnea, trasformata anch’io nel bambino-alga che salta fuori a un certo punto del racconto, quasi a ricordarmi chi sono mentre leggo, quale parte ho nella narrazione, che tutto era previsto, nulla affidato al caso, compreso il mio bisogno impellente di venir fuori a prendere aria, la disperazione ingolfata, scomposta, paonazza che mi coglie quasi subito all’inizio del secondo volume, che, poco a poco, si fa serena, a tratti persino piacevole. E alla fine (ma solo alla fine) vorrei ricominciasse daccapo. «Ancora una volta!» come le favole ascoltate da piccoli, i racconti del terrore o le dipendenze, tutte un po’ tossiche, sviluppate qualche anno più in là.
C’è un che di perverso in questa narcosi del lettore nel romanzo, e un che di prodigioso. Bello non è l’aggettivo appropriato per un libro del genere, che forse non è neppure un romanzo ma cinque, e forse non è neppure un romanzo ma una storia universale, dal percorso accidentato, faticoso, a tratti snervante, una selva di incastri, di digressioni narrative, didascaliche, enciclopediche che non vanno da nessuna parte, perché è precisamente lì che devono andare, come nei canti omerici o nell’epopea di Gilgamesh.
Torna a riproporsi la metafora dell’acqua, del racconto fiume che travolge, a ondate e reflussi, in cui è difficile stare a galla. Ne La parte dei delitti, che apre il secondo tomo, mi sono letteralmente impantanata e ho temuto di non sortirne più. I femminicidi di Santa Teresa - città di frontiera nel nord del Messico trasposizione letteraria di Ciudad Juarez dove i fatti in questione accadono davvero, sfondo narrativo della sezione precedente - occupano la scena, diventano oggetto principale del racconto. Oggetto non a caso, dal momento che di ogni singolo evento delittuoso viene offerto un quadretto sintetico e dettagliato, più consono ai toni devitalizzati, professionali e asettici, dei verbali di polizia, dei referti autoptici, delle pagine di cronaca nera. Di bozzetti, contenenti ogni tipo di atrocità, se ne affastellano un bel po’, uno dopo l’altro, centinaia fino a perdere il conto. Tanti che non do più peso alle aberrazioni che leggo, quasi non me ne accorgo, quasi non riconosco più (io, una donna) nell’ennesima morta una mia simile, un’altra donna.
La mia sensibilità si risveglia in certi intermezzi ambientati in carcere. La violenza tra maschi, descritta con dovizia di particolari, mi sembra atroce, insopportabile. Anche questo deve essere voluto, frutto di estrema maestria nella composizione e nel dosaggio, come il gusto per l’elenco, la catalogazione degli orrori, il ritmo ricorsivo, cadenzato, ipnotico, con cui Bolaño ammucchia cadaveri femminili rendendomeli indifferenti. E, tuttavia, è pur sempre noia quella che provo, e della peggior specie, d’una qualità oscena, una noia che non “dovrei” provare.
Torno a prender fiato ne La parte di Arcimboldi. Proprio quando il bambino-alga comincia ad immergersi, per me ha inizio la risalita.
Dentro questo ragazzino schivo e allampanato, che diventa uomo, gigante, sotto i miei occhi, ci stanno due guerre, una generazione, un secolo, i Mari del Nord Europa, le steppe siberiane, il deserto del Sonora, il mondo intero. Tutto condensato in un unico personaggio, un filamento flessibile, esile, lungo e stretto che proprio in virtù della sua adattabilità, del suo anonimato riesce a strisciare, a insinuarsi in situazioni incredibili, costellate da coincidenze siderali, assurde, impensate, che però non puzzano mai di finto, di forzoso o artefatto. Un anonimato il suo che non è mancanza di personalità, ma filtro, amore per il sedimento.
Con i suoi piedi enormi attraverso lande mai viste, per sbucare all’improvviso su incroci già noti, vicoli ciechi che avevo abbandonato e che ora rivelano un passaggio.
Imparo ad amare il timido omaccione, intriso di disciplina prussiana e furore rumeno, fiumi di vodka russa e gelo polare, anche per questo, perché grazie a lui tutto sembra trovare un senso, una precisa collocazione, perché in sua compagnia sembra possibile tornare indietro, rifare la strada, che è costata tanta fatica, evitando, ’sta volta, dubbi e smarrimenti.
Una bugia meravigliosa e tremenda, di cui sono saldamente convinta alla fine, tanto da aver voglia di rituffarmi subito in una seconda lettura. Il trucco finale, l’ultima ironia raffinata e crudele di Bolaño, che racconta un uomo, una storia, il mondo, ma non spiega l’arcano, che di nuovo mi porta, questa volta dolcemente, sfruttando a pieno l’incantamento del racconto, faccia a faccia con l’oscenità e l’abisso.
Chi è l’assassino di tutte quelle donne? Ora che conosco Arcimboldi, che so tutto di lui, posso veramente escludere che c’entri qualcosa? O non accade piuttosto che, avendolo visto da vicino, semplicemente non mi interessa più se sia o meno un assassino, che a viver fianco a fianco a un omicida la questione perda importanza, non significhi nulla perché, come si dice a un certo punto, anche “un assassino, in fondo, è buono”?
Questo al fondo mi sembra il nucleo duro dell’opera di Bolaño, che la letteratura è capace di tali e altre simili atrocità.
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