Giorgio Fontana -
7 agosto 2010Passare dall'intellettuale al pensiero
A me gli intellettuali stanno sullo stomaco. E ora che l'ho detto, vediamo di capire perché. Come faceva notare Daniele Giglioli su queste pagine il 28 luglio, è vero che un certo tipo di intellettuale non esiste più: quello di fine Ottocento così come quello di partito (Gramsci, Berlinguer), quello più o meno borghese (Calvino, Arbasino) o quello inclassificabile (Pasolini).
La causa di questa scomparsa è abbastanza semplice da ricostruire. Crisi dei grandi blocchi politici, edonismo e mercificazione del pensiero durante gli anni '80, e naturalmente il berlusconismo. Curzio Maltese, ne La bolla, la mette così: «Il non regime di Berlusconi è riuscito laddove hanno fallito i fascismi, nonostante i lager e i gulag: l'eliminazione totale dalla scena degli intellettuali. Non nel senso di chi svolge la professione, quelli rimangono e sono ben pasciuti. Mi riferisco piuttosto alla facoltà di esprimere una visione della società autonoma dal potere, che può essere svolta da chiunque».
Fin qui tutti d'accordo, ma il vero punto non è questo. Il punto è che ormai la stessa parola "intellettuale" contiene un equivoco di base. Per il senso comune, l'intellettuale è uno che pensa, esprime opinioni, legge, scrive eccetera: ma nello specifico? Come campa, qual è la sua giornata tipo? Impossibile dirlo, proprio perché il termine "intellettuale" non ha alcuna connotazione performativa (come invece "saggista", "regista", o "salumiere").
Quindi, non posso che essere d'accordo con la sintesi di Emanuele Trevi (sempre sul manifesto, il 30/7): la parola in questione "è un sinonimo di «stronzo». Aggiungerei: è sinonimo di quel «culturame» contro cui si scagliava Brunetta, e che - una volta impostata così la questione - potrebbe convincere perfino me. Dopotutto, come ho detto, gli intellettuali vecchio stile mi stanno sullo stomaco.
Soluzioni pratiche, al di là della semantica? Io credo sia necessario spostare radicalmente il peso dell'attenzione dal soggetto al contenuto. Se cominciassimo a pensare all'intellettuale come al mero creatore di una somma di buoni contenuti, tutta la fenomenologia dello "stronzo" subirebbe un duro colpo.
Il motore principale di questa rivoluzione è, naturalmente, il web. Sul web è difficile ricreare una figura del genere, e comunque tale figura è passibile di critica quotidiana e aperta a chiunque. Ovviamente, ci sono ancora molti passi da fare. La produzione e discussione intellettuale sulla rete pecca di sovraccarico informativo, di frammentazione, e di un'etica della discussione ancora imperfetta. L'invasione di parole della rete sembra infrangere la regola aurea del non multa, sed multum che ogni vero artigiano dei concetti dovrebbe tenere presente. E molto spesso i commenti dei lit-blog degenerano in litigi, valzer eterni di tu quoque, accuse ad personam e simili.
Inoltre, non bisogna cadere nel culto della connessione eterna. Essere online - come sinonimo 2.0 di condividere idee, scambiare dialogo, creare reti - è fondamentale, ma senza il buon vecchio lavoro solitario (la parte dura e offline: leggere, studiare, scrivere, tutte cose che si fanno in silenzio), la produzione intellettuale diventa solo chiacchiericcio.
Ciò nonostante, in rete si trovano pezzi di grandissimo interesse, ottimi aggregatori culturali, e dati significativi. Un esempio banale: spesso leggo su Anobii recensioni di libri che sono assai migliori di quelle che si trovano sui quotidiani. Innanzitutto perché mi danno la sensazione che questi libri siano stati letti (cosa tutt'altro che scontata nel secondo caso), e perché, be', sono fatte davvero bene. Certo, c'è anche una grande marea di schifezze: ma sebbene orientarsi sia difficile, non è per questo impossibile. Anzi.
L'alibi del populismo della rete, per cui lo spazio illimitato e a disposizione di tutti ucciderebbe la specializzazione (ma di quale specializzazione si parla, nel caso dell'intellettuale?), è a volte solo un alibi: senz'altro il rischio è forte, ma non basta per salvare ruoli ormai del tutto superati.
Allora ho una domanda: perché i classici mediatori culturali sembrano incapaci di sostenere l'urto dei dilettanti? Perché, irrimediabilmente e di fianco al disgusto, permane una certa nostalgia per la figura dell'intellettuale (di cui questo dibattito è una costola visibile)?
Chissà. Forse, nonostante tutto, è difficile staccarsi dall'idea paternalista di un riferimento forte, di un "chi" che sopravanza il "cosa": basti pensare alle varie strumentalizzazioni della figura di Roberto Saviano. Qualunque sia la ragione di questa nostalgia, in ogni caso, credo sia tempo di scuotersela di dosso. Affondare con tutto il corpo in questa marea indistinta, trarne il meglio, dare voce, trovare una sintesi e farla confluire dal web alla carta e viceversa - dall'alto al basso e viceversa.
È un compito complesso ma esaltante, e che apre finalmente degli scenari nuovi e non più novecenteschi, in tutte le loro manifestazioni: il vate, l'uomo di partito, il santo laico e il produttore marchettaro di contenuti. Terminare il compito della conversione da carisma a critica, come auspica Giglioli: non più "Umberto Eco" (con tutta la sua fenomenologia di autorità, occhiali dalla montatura spessa, eccetera), ma "le parole di Umberto Eco".
In sintesi: la vera domanda non è di quali intellettuali l'Italia ha bisogno oggi, ma di quale pensiero. Indipendentemente dalle figure che lo veicolano. Indipendentemente da occhiali dalla montatura spessa, pernod su tavolini di Parigi, o qualunque altro elemento che ci distolga dal solo punto chiave: il valore di comprendere razionalmente, liberamente, e criticamente, il reale.
Perché sì, la mia preoccupazione più grande è che il pensiero abbia un effetto sulla realtà, e che il mestiere dell'intellettuale (ah, ancora questa parola) sia un mestiere nel senso più robusto e antico del termine. Trasmettere la passione del ragionamento in una società che sta perdendo il valore dell'argomentazione.
Ma come ho detto, a me gli "intellettuali" stanno sullo stomaco: non voglio altissime figure di riferimento, voglio parole che tocchino il cuore delle cose.
Il manifesto - - - -
© Giorgio Fontana
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