Gianni celati - 12 settembre 2009
Alias del manifesto - - - - Frontiere erranti della letteratura
Fine dell’umanesimo.
Un filosofo contemporaneo, Peter Sloterdijk, si è chiesto che ne è di tutto quello che l’umanesimo ci ha lasciato in eredità. (Regole del parco umano, in Non siamo ancora stati salvati, Bompiani, 2004). Questa eredità è soprattutto quella dei libri, della lettura, dello studio, come un vaccino contro la ferocia e la barbarie. Sloterdijk considera i grandi testi greci (Omero e Platone innanzi tutto) come lettere inviate ad amici ignoti: lettere che hanno prodotto nell’occidente latino una fioritura di comunità di pensiero, unite dall’amore per i grandi testi e orientate verso l’umanizzazione dell’homo inumanus. Questi aspetti resteranno alla base della forma scritta, dal Convivio di Dante (che è un manifesto per togliere l’uomo dal suo stato ferino) fino alle soglie della nostra epoca.
Ma Sloterdijk si chiede se il vaccino dell’umanesimo abbia ancora un senso. I libri sono entrati in un conflitto con le nuove forme di comunicazione a distanza, e hanno dovuto adeguarsi alla cultura televisiva. Ora i prodotti dello scrivere sono affidati a manager, il cui lavoro consiste nel trattare i libri come neutri oggetti di profitto. Questa è la cultura del presente assoluto, senza memorie d’un passato o d’una tradizione.
Pochi hanno affrontato questa perdita di memoria senza mascherarla con valanghe di citazioni erudite. Massimo Rizzante è tra quelli che hanno più vivamente percepito la perdita d’una memoria e il vuoto che s’è formato al suo posto. E il suo ultimo libro pone questa domanda: dov’è finita l’eredità che ci collegava a Omero? Cos’è successo all’arte dello scrivere, per arrivare a produrre una letteratura composta da nani che non sanno più arrampicarsi sulle spalle dei giganti del passato?
Comunità di pensiero e passeurs.
Il libro di Rizzante è una raccolta di testi scritti in francese per la rivista parigina “L’Atelier du Roman”, tradotti e rielaborati dall’autore per l’occasione. Si apre con una bella prefazione di Lakis Proguidis, fondatore della stessa rivista, attorno alla quale negli ultimi 15 anni si sono riuniti autori di varissima provenienza. Basato sull’amicizia tra Milan Kundera, Lakis Proguidis, Massimo Rizzante e altri, “L’Atelier du Roman” è uno degli ultimi esempi d’una comunità di pensiero, dove niente ha l’impersonalità delle nuove pratiche letterarie. È uno spazio apolide, ispirato alle grandi figure di esuli moderni, come Josif Brodskij, Milan Kundera, Witold Gombrowicz, Danilo Kiš.
Il capitolo iniziale di Non siamo gli ultimi rivendica il ruolo fondamentale avuto dalle riviste fino alle soglie della nostra era, ricordandoci che tutta l’opera Fernando Pessoa è nata su piccole riviste portoghesi, collegate tra di loro. Ora divenute fuori moda, le riviste hanno avuto per secoli un ruolo speciale: quello d’aprire o riaprire sentieri poco battuti, creando tramiti tra sparsi gruppi di pensatori o poeti o narratori.
Nel paragrafo dedicato a “L’Atelier du Roman”, Rizzante evoca figure che hanno avuto molta importanza nella fondazione e crescita di comunità letterarie, i cosiddetti passeurs. Come dice la parola ora in disuso, i passeurs erano individui dediti a far passare nuove idee o scoperte, nelle riviste o nelle case editrici, creando tramiti e canali di comunicazione: “scrittori, critici letterari, direttori di riviste capaci di trasmettere le idee, le opere, le intuizioni da una celletta all’altra dell’alveare culturale europeo o mondiale”.
Questa specie di visionari è esistita anche in Italia, con Roberto Bazlen, Elio Vittorini, Luciano Foà, Giambattista Vicari. Ma in anni recenti è stata sostituita da manager, votati a un professionismo che ha come meta maggiore il profitto finanziario. Rizzante dice: la fine dei passeurs resterà l’indizio d’una nuova epoca, dove i libri che ci hanno aiutato a vivere prenderanno la forma d’un décor – l’addobbo scenico d’un vuoto d’esistenza – ornamento “destinato a confortare il benessere dei figli dell’eterno presente”.
Deficit d’ascolto e morte del passato.
Un paragrafo iniziale del libro si apre così: “Io affermo la fine della Repubblica delle Lettere e dell’opera letteraria come luogo di apprendimento per la vita”. Sono parole che accennano alla fine del dialogo letterario – “questa antica forma di vivente circolazione dei pensieri” – che era una necessità vivissima per Calvino e la casa editrice Einaudi della mia gioventù. Il dialogo abbracciava autori e lettori da un punto all’altro dell’occidente, per i quali “Boccaccio e Laclos, Rabelais e Dostoevskij, Cervantes e Kafka, Sterne e Svevo” erano un campo d’interessi comuni, un continuum che dal passato portava a noi.
La scomparsa del dialogo e della riflessione collettiva, sostituite dalle novità dei libri di successo e dalla grancassa pubblicitaria che li impone sul mercato, hanno dato luogo a ciò che Rizzante chiama un “deficit d’ascolto”. Questo deficit appartiene ormai allo stile standard dei modi di lettura attuali, che presuppongono una “liberazione” dai libri del passato e una cieca fiducia nei nuovi prodotti di successo. Tre anni fa, al festival letterario di Berlino, notavo che i giovani autori di successo rispondevano alle domande dei critici parlando soltanto di se stessi, come se ripudiassero tutti i vecchi autori e vedessero la letteratura concentrata nell’ultra-individualismo della loro personalità.
Il deficit d’ascolto nasce dai processi di velocizzazione dell’attualità, con l’adesione a un immediato presente, in cui non c’è tempo per le pause del pensiero – come nelle news televisive americane, dove è impossibile riflettere sulle raffiche di frasi trasmesse. Questo è il tempo compresso del sistema comunicativo attuale, tempo reale “dell’immediatezza dei dati”: tempo dell’assenza di tempo, proprio della nostra epoca.
Un confronto tra alcuni recenti romanzi di successo scritti da giovani autori di varie nazionalità, chiarisce l’argomento. Rizzante nota in questi libri di successo la tendenza ad adeguarsi a una “cultura audiovisiva e del tempo reale” (il tempo dell’attualità). Si direbbe che tutti siano stati scritti con stretti canoni audiovisivi, perché destinati in partenza a un adattamento cinematografico, che poi avviene puntualmente. Ma Rizzante indica qualcos’altro in questo comportamento: indica un totale disinteresse per la specificità di un’arte, per cui il medium usato ha scarsa importanza. Ha importanza invece entrare in concorrenza con la frenesia dell’informazione, dove esiste soltanto il presente assoluto dell’attualità. E a lettura finita, quei libri lasciano un unico effetto sul lettore: “uno stato di ebbrezza mentale, non dovuto alla profondità del testo, alla esplorazione del mondo presente, ma alla velocità frenetica con cui il mondo presente era stato messo in scena”.
Questo è il prodotto d’una sterminata pubblicità del nuovo, a cui niente resiste. Ed è come nel dialogo di Leopardi, dove Madama Moda e Madama Morte sono dedite a spazzare via tutto ciò che è vecchio, caduco, mortale. Ma la Moda ha anche spazzato via l’illusione che qualcosa possa resistere nella memoria dei posteri, per meriti speciali, e così ha sparso la morte totale su tutte le cose del mondo. Il trionfo della Moda è questo eterno presente dove il nuovo può diventare un lancio continuo di cadaveri sul mercato, ma cadaveri vestiti all’ultima moda. Ed è il dominio assoluto dell’attualità, dove ha valore solo la novità del giorno, che diventa uno scarto non appena spunta la “nuova” novità del giorno. Rizzante definisce tutto ciò “la morte del passato”. È la corsa frenetica verso un presente che non può diventare passato senza precipitare nel regno degli scarti, delle cose inutili, sorpassate e senza riscatto. Come succede con le nostre vite.
Frontiere erranti della letteratura.
Gli interventi di Rizzante su “L’Atelier du Roman” sono un pellegrinaggio: in cerca di autori di varia provenienza (Russia, Cecoslovacchia, Serbia, Grecia, Messico, Cile, Spagna, Islanda) che non hanno accettato la “morte del passato”. Nelle sue ricerche per scoprire membri di questa compagnia, Rizzante abbandona un principio tradizionale dell’umanesimo: Gli autori non sono più chiamati a rappresentare una lingua nazionale; bensì l’eterogeneo brulichio delle lingue, le frontiere erranti della letteratura.
Questa ricerca del tempo perduto si colloca sullo sfondo di “uno dei più importanti fenomeni della seconda metà del XX secolo, l’emigrazione in massa di milioni di persone”. È la memoria fondamentale dei nostri tempi, ed è lo sfondo della scomparsa di intere comunità in campi di concentramento. Rizzante parla di una “scomparsa della morte”, come l’evento in cui intere famiglie sono sparite nel nulla, ma anche come ripudio, cancellazione dei segni della morte dalla vita quotidiana – divieto di parlare di nostra sorella morte, la quale resta comunque il maggior legame tra i vivi.
Di qui inizia il lavoro per ritrovare un tempo dove il passato non è più uno scarto, una cosa inutile e sorpassata, ma un continuum che ci collega ai nostri morti. È il caso di Danilo Kiš, figura centrale di questa letteratura che non accetta la “morte del passato”. Autore in serbo-croato, cresciuto tra quattro o cinque lingue slave, Kiš ricostruisce la vicenda di suo padre, ebreo ungherese morto nei campi nazisti, a partire da un’unica sua lettera. Un altro suo libro mostra la ricostruzione d’una vita ignota, a partire da nessun documento, nessuna memoria vivente, per creare una tomba o cenotafio letterario per un uomo scomparso assieme alla propria morte - Boris Davidovič.
Un racconto dell’autore greco Alexandros Papadiamantis, Il morto viaggiatore (1910), rappresenta per Rizzante un’anticipazione di questa linea di pensiero, in cui ogni morto ha bisogno d’un punto di sepoltura, per rientrare nel continuum tra vivi e morti. Rizzante dice: “Ciò che accomuna Papadiamantis a Kiš, è la scomparsa della morte fra coloro che continuano a vivere”. Il che comporta un lavoro per sottrarre la morte all’indiscrezione, di medici, poliziotti, amministratori che non hanno alcuna fede nei cadaveri del passato. Gli autori che capiscono meglio questa necessaria fedeltà ai morti sono gli esuli o gli espatriati; perché ogni esilio ci porta verso la dispersione del naufrago, lontano dalle proprie tombe di famiglia, e nell’incertezza d’ogni ritorno.
Ma l’esilio può anche insegnarci un altro modo di concepire la continuità tra vivi e morti. Rizzante segnala un saggio pubblicato su “L’Atelier du Roman” nel 1994, della scrittrice praghese Vera Linhartovà – che sostiene la possibilità di non subire il proprio esilio, ma di trasfigurarlo, andando verso “un altrove, sconosciuto per definizione, aperto a tutte le possibilità”. Il che fa pensare alle lettere che si scrivono quando si è espatriati: non più lettere d’amicizia diplomatica perché si vive nello stesso territorio, ma lettere d’amore per la lontananza, dove l’affetto per il prossimo e per ciò che ci è vicino nella normalità quotidiana diventa amore per la vita sconosciuta, per l’ignoto possibile.
Coda.
Questo è il senso dello scrivere libri come lettere inviate ad amici sconosciuti. La lontananza trasforma l’affetto per il prossimo e la tristezza per la sua morte in un amore per la vita, come flusso che ci porta a destinazione. Come il misterioso morto viaggiatore di Papadiamantis, che dopo dieci giorni in balia delle onde va ad arenarsi proprio davanti al cimitero sulla sua isola. Si tratta di “prendere distanza dalla prigione dell’attualità”, dice Rizzante, e “non perdere fiducia nel dialogo con il passato e con i morti”.
Non siamo gli ultimi è un libro che affronta i problemi della critica con una specie di diario di idee, letture, viaggi, incontri. Ma oltre alla varietà di idee e ai richiami ad autori varissimi, c’è una chiara linea di sviluppo che va dalla recente trasformazione del sistema letterario all’avvento d’una letteratura senza territorio, con frontiere erranti, con autori per lo più esuli o espatriati. Una letteratura sganciata dal grande pubblico e dalle cosche nazionali, dove i libri che scriviamo ridiventano lettere inviate ad amici ignoti.
Recensione a Non siamo gli ultimi. La letteratura tra fine dell’opera e rigenerazione umana, di Massimo Rizzante, Effigie edizioni, Milano, 2009
© Massimo Celati
in una intervista dell'ottobre 2007 Massimo Rizzante afferma:
"Forse il problema, oggi, è esplorare in profondità il profondo desiderio dell’uomo di liberarsi del proprio passato. Ora, nessun rinascimento culturale o rigenerazione umana sono stati possibili fino ad ora senza una messa o fuoco del passato. Per mettere a fuoco il passato bisogna farsi da parte, disertare l’attualità, tradire la comunità per amore della comunità. Oggi pensiamo sia sufficiente archiviare il passato. La morale dell’archivio mette in archivio l’uomo, la sua immaginazione, la sua fede di rinascere e di rigenerarsi ai margini delle rovine. La cosa può entusiasmare molti, tutti coloro che in segreto desiderano la fine dell’uomo, non certo il sottoscritto per cui l’arte resta la custode della forma umana. E se l’uomo è il passato di cui ci si vuole liberare..."
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