sabato 31 luglio 2010

Vera Linhartová: PER UNA ONTOLOGIA DELL’ESILIO

  Vera Linhartová - 10 dicembre 1993  

SUD nr 8   - - - -

PER UNA ONTOLOGIA DELL’ESILIO

traduzione di
Francesco Forlani e Paolo Trama

Per venticinque anni, finché la questione sembrava d’attualità, mi sono sempre astenuta dall’affrontare l’argomento dell’‘esilio’. Non soltanto mi pareva secondario rispetto alla mia situazione, ma per di più ero da sempre convinta che si trattasse di una nozione inadeguata e superata. 

La mia convinzione è del resto immutata. Se, nonostante tutto, ho accettato di rifl ettere oggi sulla questione, è innanzitutto perché presumo che, nel pensiero umano, non ci siano argomenti proibiti, ma, sopra ogni altra cosa, perché considero che una messa a fuoco potrebbe tornare utile. A mio avviso, si interpreta troppo spesso il termine ‘esilio’ con sentimento o passione, senza tentare di analizzarlo in modo critico. 

Diciamo, per cominciare, che la nozione d’esilio non ha senso che in certe società sedentarie, visto che non avrebbe alcuna ragione d’essere presso i nomadi. E anche se, ai nostri giorni, la maggior parte delle nostre società appartengono alla prima categoria, all’interno di queste stesse società, accanto alle persone che restano attaccate tutta la loro vita a un solo e unico luogo, e non riescono nemmeno a concepire che ce ne potrebbe essere un altro, ne esistono altre che preferiscono lasciare la relativa sicurezza di un luogo immutabile per percorrere il mondo o più semplicemente per trasportare i loro penati altrove. La stessa antica distinzione tra sedentari e nomadi non è per niente abolita, ma ha semplicemente assunto forme differenti, per cui, invece di applicarsi a comunità intere, diventa la scelta di singoli individui. Prima d’ogni altra cosa si tratta dunque di un’opzione essenzialmente personale che, in seguito, determina tutto un modo di vivere. Un nomade cambia luogo su questa terra, senza preoccuparsi degli usi e delle convenienze, perché la scelta dei luoghi è per lui una questione di preferenze e di necessità intima, non di obbligo. Va da sé che le mie simpatie vanno a questi uccelli migratori. Eppure, un tale modo di vita è contrario all’interesse generale delle comunità stabilite. 

Che vuol dire la parola ‘esilio’? D’origine latina, exilium, significa letteralmente: «fuori di qui», «fuori da questo luogo». Implica dunque l’idea di un luogo privilegiato tra tutti, d’un luogo ideale e senza pari. Nella Grecia antica, questo luogo ideale era rappresentato dalla polis e, presso i romani, dall’urbs, o dalla civitas: la società organizzata, più che del luogo geografico, rappresentava un valore supremo rispetto al quale ogni individuo, nel proprio interesse, doveva restare legato tutta la vita. Ed è proprio in tali società che l’esilio era considerato come un castigo particolarmente severo. Essere banditi dalla comunità, perdere il diritto alla protezione che essa assicurava ai cittadini – o ai sudditi – in cambio ell’obbedienza alle sue leggi, perdere il luogo familiare per essere consegnato all’ignoto: in questo doveva consistere la tragedia degli esuli. 

Conformemente a questa prima accezione, l’esilio è rimasto un castigo, uno strumento di repressione, lungo tutta la storia dell’Europa fino all’epoca moderna. Paradossalmente – e il fatto è assai recente – questa antica misura di punizione ha finito col diventare un crimine. Il ribaltamento di visione è sopravvenuto nel momento in cui l’esilio, da forzato, è divenuto volontario. Sotto ogni dittatura o presso altri regimi totalitari, l’individuo è considerato come proprietà dello stato, e tra le numerose altre costrizioni cui soggiace, non ha alcun diritto di decidere in quale paese abbia intenzione di vivere. Lasciare il territorio nazionale volontariamente, e senza l’approvazione delle autorità è dunque assimilato a un atto d’ostilità dichiarato. Misure punitive sono adottate all’indirizzo di quei disertori che sono gli esuli volontari. E poiché il castigo dell’essere banditi ha perso ogni efficacia, queste misure consistono oggi nella condanna in contumacia alla prigionia, alla perdita della nazionalità e dei diritti civili, e alla confi sca dei beni personali. Fa seguito anche l’impossibilità di rientrare un giorno nel paese che si è lasciato, perché per questo tipo di crimini non è prevista la prescrizione. 

Ciò che cerco di dire sin dall’inizio è che, a mio avviso, il termine ‘esilio’ non è che una comoda etichetta che si attribuisce, in modo superfi ciale e indistinto, a tutto un insieme di situazioni e comportamenti diversi. In realtà, la parola si riferisce a fenomeni differenti. Abbiamo già visto come una distinzione d’ordine storico debba essere fatta tra esilio forzato ed esilio volontario. A sua volta, l’esilio volontario può essere concepito in due modi differenti. 

Nel primo, esso verrà concepito come una fuga davanti all’avversità e una minaccia immediata, per cui sarà allora vissuto come un tempo sospeso, provvisorio, in attesa di un ritorno improbabile verso il luogo e il tempo prima della rottura. Oppure è compreso come un punto di partenza verso un ‘altrove’ incognito, per definizione, aperto ad ogni possibilità; e in questa ottica, sarà vissuto come un tempo pieno, come un inizio senza scopo definito e soprattutto senza la speranza speciosa del ritorno. 

Ora, è evidente, che per questa seconda opzione il termine stesso ‘esilio’ diventa particolarmente inappropriato, dal momento che per colui che è partito senza rimpianti e senza il desiderio di tornare sui propri passi, il luogo che ha appena lasciato ha una ben minore importanza rispetto a quello in cui si arriverà. Non vivrà più ormai ‘fuori da questo luogo’ ma s’impegnerà sul cammino che porta verso un ‘non luogo’, verso quell’altrove che dimora per sempre fuori di ogni attesa. Proprio come il nomade, lui sarà ‘a casa sua’ dovunque metterà piede. Nel quadro di determinate istituzioni, nel mezzo di circostanze socio- politiche tutto sommato esterne, l’esilio volontario è sempre un grido di rivolta. Eppure questo grido risuona una sola volta, nello spazio di un istante, nel momento stesso in cui la decisione è presa: è un ‘no’ senza condizioni e irrevocabile. Non lo si può né prolungare, né ripetere, perché è stato lanciato una volta per tutte. 

Eppure, ci è impossibile vivere nella negazione pura. Inoltre, la vita concreta di un essere umano non si svolge nei limiti di un certo quadro istituzionale e di determinate circostanze socio-politiche. La vita è un affare privato. Una volta defi nita la nostra posizione di principio davanti alle circostanze che ci condizionano e che non abbiamo scelto, ci restano da fare molte altre cose. 

Siamo allora di fronte ad un nuovo bivio, dove una strada conduce all’esilio subìto, l’altra verso un esilio trasfi gurato. Per quanto concerne l’esilio subìto, la sua principale caratteristica consiste nell’aspettativa che il tempo sospeso abbia fine e nella speranza di ritrovare lo status quo precedente, immutato. Eppure, l’esilio liberamente scelto è un’occasione straordinaria, che bisogna cogliere al volo, di cui approfittare senza tergiversare. Sono sempre stata convinta che nella vita di un uomo il dovere verso la terra di appartenenza o verso i legami di sangue non sia un fattore determinante. 

La mia prima sensazione in seguito alla partenza è stata quella di una grande leggerezza, di una non-appartenenza a quale che sia la comunità, a quale che sia il paese. Avevo il sentimento, o piuttosto la certezza, che da quel momento in avanti quello che avrei fatto e quello che sarei stata non sarebbe dipeso da altri che da me. Una morte e una resurrezione. L’esercizio quotidiano della libertà è una cosa rischiosa. Doppiamente rischiosa per chi viene da un paese dove tutto ciò che non è imposto è proibito. In un mondo disseminato di divieti, l’orientamento è facile, perché resta poco spazio alle decisioni individuali, poche fessure in cui aprirsi un cammino verso la luce. L’eccesso di libertà, si sa, può essere fatale per soggetti a lungo abituati a un’oppressione costante, ma può anche essere salutare.

Non sarebbe esatto dire che una delle prime ‘lezioni’ che ho potuto ricevere dalla mia nuova situazione, è stata la modestia. Certo, sono diventata modesta, ma non era che la conseguenza di una scoperta ben più essenziale: quella della relatività delle cose, di quanto queste siano poco importanti. È facile acquisire la notorietà in un paese che, preso nella sua totalità, conta tanti abitanti quanti quelli di una metropoli di un altro paese. È facile farsi passare per uno scrittore in una città dove gli scrittori si contano nel numero di una qualche decina e sono, di fatto, costantemente esposti, ben visibili sulla scena pubblica. E non mi si fraintenda: non si tratta qui di un concorso di superiorità tra i grandi e i piccoli paesi. Quel che mi importa è un cambiamento radicale di prospettiva, come è stato espresso prima di me in questi termini: «preferisco essere un pesce minuscolo nell’oceano, piuttosto che una grossa carpa in uno stagno». 


Ho dunque scelto il luogo dove volevo vivere, ma ho anche scelto la lingua che volevo parlare. Spesso si pretende che, più di ogni altro, lo scrittore non sia libero nei suoi movimenti, perché resta legato alla sua lingua in un vincolo indissolubile. Credo che si tratti ancora di uno di quei miti che servono da scusa a gente timorata, li riconforta in una vita di cui fi nalmente, per evitare ogni diffi coltà, si sono accontentati. Qui mi si opporrà senza dubbio una qualsivoglia idea preconcetta sulla responsabilità dello scrittore rispetto al proprio paese. Ora, a mio avviso, nessun popolo, nessun paese al mondo costituisce una comunità unica, isolata dagli altri. Nessuno merita che gli si sacrifi chi la propria vocazione, perché ci sono cose che nessuno farà o dirà al posto mio. Quale che sia il luogo dove agirò, quale che sia la lingua che adotterò per parlare, il benefi cio per la comunità umana sarà lo stesso. Lo scrittore non è prigioniero di una sola lingua. Perché prima di essere scrittore, è innanzitutto un uomo libero, e l’obbligo di preservare la sua indipendenza contro ogni ostacolo passa sopra ogni altra considerazione. E non parlo qui di quelle diffi coltà insensate che un potere senza legittimazione cerca di imporre, ma di restrizioni, tanto più diffi cili da superare in quanto intenzionali e in quanto richiamano al sentimento del dovere e di lealtà verso il paese di origine. 

Come ho detto all’inizio di questo mio intervento, le mie simpatie vanno ai nomadi: non mi sento nell’anima una sedentaria. Sono allora in diritto di dire che il mio esilio è venuto a colmare quello che, da sempre, era il mio augurio più caro: vivere altrove. La mia decisione era stata presa molto prima della mia partenza, e il concorso di circostanze – che non qualifi cherei come felici o infelici, ma semplicemente neutre – non ha fatto che indirizzarmi lungo una strada che, anche in altre circostanze, avrei preso ugualmente. 

Da sempre sono convinta che un destino individuale compiuto coinvolge l’umanità tutta intera. E credo anche che la nostra aspirazione alla pienezza, quale che sia la maniera in cui questa si realizza non saprà accontentarsi di un ritorno sui propri passi. In questa ottica, la questione del luogo in cui abbiamo scelto di vivere è – e non c’è da dubitarne – trascurabile. Andrò più lontano. Per chi è partito sui sentieri tortuosi di un pellegrinaggio senza fi ne, la questione dell’esilio è priva di senso, perché qualsiasi cosa accada, egli vive in un ‘non luogo’, che è un perpetuo punto di partenza aperto in tutte le direzioni.

Intervento al convegno “Parigi-Praga, intellettuali in Europa”, 10 dicembre 1993

 
© Vera Linhartová  

 

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