sabato 31 luglio 2010

Per Gabriel Ferrater (tradurre poesia di Massimo Rizzante)

 Massimo Rizzante

7 giugno 2010


Da quando nel 2002 ho scoperto l’opera di Gabriel Ferrater, il poeta catalano è diventato un fiume alle cui rive, come affermava una volta Milosz, «quando la vita fa male» ritorno spesso.

In Italia non è molto noto. Anzi, credo sia poco conosciuto perfino dai poeti. In Francia Ferrater è stato presentato e tradotto (Les femmes et les Jours, Editions Du Rocher, 2004) da William Cliff (1940), un altro poeta poco frequentato qui da noi (esiste, credo solo una sua antologia dal titolo Il pane quotidiano, a cura di Fabrizio Bajec, Edizioni Torino Poesia, 2008).

Artista belga francofono (di lui, nel 2002, Gallimard ha ripubblicato le prime due raccolte, Homo sum del 1973 e Ecrasez-le del 1976 e, più recentemente, nel 2007, la raccolta Immense Existence), Cliff fu iniziato alla poesia proprio da Ferrater. In Gran Bretagna la traduzione delle poesie dell’autore catalano si deve ad Arthur Terry (1927-2004). Studioso di letteratura spagnola del XVI e XVII secolo, negli anni Sessanta, in piena repressione franchista della cultura catalana, aveva vissuto un periodo a Barcellona, diventando amico di molti poeti della sua generazione. L’antologia delle poesie di Ferrater, uscita nel 2004 con il titolo Women and days (Arc Publications), possiede un’introduzione di Seamus Heaney che sempre negli anni Sessanta, a Belfast, grazie al professor Terry, aveva avuto modo di conoscere la situazione catalana (per certi versi simile a quella irlandese) e la poesia dell’autore di In memoriam.

In Catalogna e in Spagna Ferrater è un poeta di culto, tanto da essere diventato, a causa della sua vita, diciamo così “dissipata”, e del suo suicidio “programmato” (a 50 anni, in un café di Plaza Prim, a Reus, aveva confidato a un amico, Jaime Salinas, che si sarebbe ucciso prima di compiere 50 anni: «Non voglio puzzare di vecchio. Quel tanfo mi ha sempre ripugnato»), persino un personaggio romanzesco (si veda, ad esempio, Beatriz Miami di José Antonio Masoliver, Anagramma 1991 o Momentos decisivos di Félix de Azúla, Anagramma 2000).

Il fratello Joan, anch’egli uomo di lettere e curatore delle opere di Gabriel, ne traccia con discrezione un profilo: la nascita a Reus nel 1922; l’educazione solitaria; gli anni della guerra civile e l’emigrazione (1938-1941) in Francia, a Bordeaux; le letture in originale degli scrittori e dei poeti francesi; il suo interesse per le lingue (legge in inglese e tedesco) che sfocerà più tardi nella passione per gli studi di linguistica (tradurrà Chomsky e Bloomfield); il servizio militare (venticinque mesi tra il 1943 eil 1946); l’amore per la filosofia (Ortega y Gasset, Husserl, Scheler, Heidegger), la logica (Hilbert, Godel, Russel, Wittgenstein, Carnap, Ayer), la matematica (nel 1947 si iscrive alla Facoltà di Scienze Esatte di Barcellona, ma non terminerà mai gli studi) e per la pittura (alla fine degli anni Quaranta si mette a dipingere e negli anni Cinquanta scrive diversi articoli di critica d’arte); la morte del padre nel 1951; le amicizie con Carlos Barral (poeta e fondatore della casa editrice in cui Gabriel lavorerà come traduttore, fra gli altri di Kafka, e redattore cosmopolita. E’ soprattutto grazie a lui se Gombrowicz riceverà, di ritorno dall’Argentina, il Prix Formentor nel 1967) e Jaime Gil de Biedma; l’incontro con uno dei suoi maestri, Carles Riba; le donne (quasi sempre più giovani); il gin; le letture di Catullo, della poesia medievale (March), di Shakespeare e della poesia di lingua inglese (Donne, Hardy, Frost, Ransom, Graves, Auden), ma anche di Brecht (Gabriel dirà che se Shakespeare gli aveva fatto capire che in poesia «si può dire tutto», Brecht è stato colui che per primo gli aveva fatto comprendere che «la poesia può fare a meno di molti lussi»); le donne (sempre più giovani); il gin; la crisi sentimentale del 1958; l’inizio della creazione poetica; i tre libri di poesia: Da nucis pueris (1960), Menja’t una cama (1962) e Teoria dels cossos (1966), poi riuniti nel 1968 in Les dones i els dies; un serio tentativo di fuga ad Amburgo, come lettore presso la casa editrice Rowohlt; il ritorno dopo un anno a Barcellona; il matrimonio nel 1967 a Gibilterra con la giovane e bellissima Jill Jarrell (che durerà due anni); l’appartamento di Sant Cugat del Vallès (dove si suiciderà); le conferenze e gli scritti di linguistica (Sapir, il più amato, Bally, Kurylowicz, Meillet, Benveniste); la redazione di una grammatica catalana…

Il ritratto più fedele di Ferrater, è tuttavia quello che si trova nelle pagine di F., un memoir romanzesco uscito nel 2003 (Anagramma), scritto da uno degli autori più profondi della Spagna contemporanea, Justo Navarro (1953). Più fedele perché costruito come un’interrogazione su un enigma. Una sorta di rapporto investigativo sulla vita e la morte di quell’enigma longilineo dagli immancabili occhiali neri, grammatico della lingua catalana e straniero in patria, sarcastico e «partigiano della felicità», timido fino alla balbuzie e insolente fino al cinismo, disciplinato come un benedettino in letteratura e autodistruttivo come un adolescente nella vita, nemico in poesia di ogni romanticismo e smisurato nel dilapidare le sue energie nei caffè di Barcellona di nome Ferrater, il quale diceva di conoscere, senza nessuna falsa modestia (questo cane ferito sempre pronto a guaire in ogni scrittore) da dove veniva e come era giunto dove si trovava e che forse proprio per questo affermava che una poesia doveva essere costruita come una lettera commerciale: chiara, lucida, sensata, appassionata (la passione etica che caratterizza chi compie il proprio dovere immaginativo) ed anche divertente, concreta, impersonale (nel senso di storica, non confessionale), ordinaria, fisica, colloquiale, discorsiva (come gli antichi pensava che il contenuto fosse più importante o almeno tanto importante quanto la forma), critica, ironica, avversaria di ogni ideologia, foss’anche quella dell’amore, frutto, insomma, come qualsiasi altra azione umana, di un’operazione intelligente: «Si può perdonare a un poeta di mancare di qualche strumento, ma non riesco a perdonare molti poeti di oggi che riservano alla poesia i loro stupori, tanto che i loro versi offrono un’immagine tanto sciocca degli autori che non può essere quella di nessuna persona viva, poiché una vita non si conserva se non è ben attenta alle leggi del denaro e ai movimenti degli uomini e delle donne».



Post scriptum In Italia non c’è ancora un’antologia di Ferrater. Ci sarà fra un mese. Nella collana  Biblioteca di poesia   (Il Metauro),  uscirà a cura di Pietro U. Dini e con uno scritto di Jaime Salinas il volume Gabriel Ferrater, Curriculum vitae. Poesie 1960-1968.

Pietro U. Dini, forse il più importante traduttore e conoscitore della lingua e della cultura lituane – a lui si deve, ad esempio, la sola antologia poetica (Cinquantuno poesie e una lettera, In forma di parole, 2003) di Tomas Venclova (1937), un poeta che già Brodskij riconobbe come uno dei più importanti della sua generazione – da un po’ si è messo a coltivare altre lingue europee. Lingue apparentemente periferiche, come il catalano. Tuttavia, Pietro, come me, pensa che una cultura davvero universale non può fare a meno di nessuna cultura nazionale (che cosa sarebbe la storia del romanzo mondiale senza le saghe composte tra il XII e il XIV secolo in Islanda, un paese che ancora oggi conta meno di trecentomila abitanti?).

Basta che all’appello manchi un solo nome, Ferrater, ad esempio, e la poesia mondiale non è più la stessa.

Tre poesie di Gabriel Ferrater da
Curriculum vitae. Poesie 1960-1968 a cura di Pietro U. Dini

LITERATURA
Tan vehement, va dir-se un calamar,
faig el ridícul: un raig fi de tinta
ja desvia aquests monstres, ben poc crítics.
Perduda l’abundància del cor,
va descobrir la voluptat formal:
mentir-se objectivat en l’arabesc
i fer-s’hi encara veure, subjectiu.
De l’urc de no amagar-se gaire, en deia
sinceritat: de la por de trobar-se
massa exposat, sentiment de l’estil.
Lliurat a l’esperança que els espasmes
de l’aigua li anirien a favor,
deia fe en el llenguatge. Va morir
devorat: l’inefable el va temptar.

LETTERATURA
Così aggressivo, si disse un calamaro,
sono ridicolo: un fine raggio d’inchiostro
già depista questi mostri, assai poco critici.
Perduta l’abbondanza del cuore,
scoprì la voluttà formale:
mentirsi oggettività nell’arabesco
e con tutto ciò mostrarsi ancora soggettivo.
La posa orgogliosa per non celarsi troppo, la chiamò
sincerità: il timore di trovarsi
troppo esposto, sentimento dello stile.
Consegnato alla speranza che le convulsioni
dell’acqua lo favorissero,
ripose fede nel linguaggio. Morì
divorato: l’ineffabile lo tentò.


FI DEL MÓN v
Puc repetir la frase que s’ha endut
el teu record. No sé res més de tu.
Aquesta insistent aigua de paraules,
sempre creixent, va ensulsiant els marges
de la vida que vaig creure real.
La terra pedregosa i fatigosa
de caminar, i els arbres que em ferien
els ulls amb una branca delicada,
tan vivament maligna, convincent
amb la prova millor, la de les llàgrimes,
sembla que no són res. Es van donant
a l’amplària grisa, jaspiada
d’esperma pàl.lid, embafós. Tot cau
amb una fressa lenta i molla, i flota
sense figura, o s’enfonsa per sempre.
Tot fa sentit, només sentit, tot és
tal com ho he dit. Ja no sé res de tu.

FINE DEL MONDO
Posso ripetere la frase che s’è portata via
il tuo ricordo. Non so più nulla di te.
Questa insistente acqua di parole,
sempre crescente, va sgretolando i margini
della vita che credetti reale.
La terra pietrosa e faticosa
per il camminare, e gli alberi che mi ferivano
gli occhi con un ramo delicato,
tanto vivacemente maligno e convincente
grazie alla prova migliore, quella delle lacrime,
pare non siano nulla. Si arrendono
all’ampio grigiore screziato
di sperma pallido, stomachevole. Tutto cade
con un rumore lento e molle, e fluttua
informe, o s’inabissa per sempre.
Tutto ha senso, soltanto senso, tutto è
così come ho detto. Non so già nulla di te.


DIUMENGE
Els ocells de la llum se’n van a jóc
i ens deixen a les branques un subtil
tremolor de petites veritats.
Cal perdre l’ànima d’arbust. Un altre
sentiment transitori s’ha gastat.
Ens aixequem, i amb por de no saber
retrobar a temps qui som i què volem,
anem tornant ben poc a poc. La tarda,
la brasa imatge nostra, nerviosa
però abnegada mare de la cendra,
s’apaga, i es respira la pudor
del tabac refredat. Hem estat sols,
però ara embussem els colls d’embut
(colzes amb colzes, passos que es fan nosa)
per vessar dins el poble l’imprecís
record d’uns camps trencats, al.luvials
deixes de camions, d’uns camins curts
com un alè cansat, i uns arbres vius
que ja se n’ha fet llenya. Ens confonem
amb els que s’han quedat, i que ara surten
dels balls i de las coves de penombra
gelatinosa, i tots trepitgem besos
que la tarda ha endurit, i ara es parteixen
en dues valves, com un musclo, i cauen.
Un nen que se li ha rebentat el globus
llança un plor viperí. Tots ens mirem
i riem satisfets. Cap de nosaltres
no es veu amunt per l’escala dels éssers.

DOMENICA
Gli uccelli della luce se ne vanno a dormire
e ci lasciano sui rami un sottile
tremito di piccole verità.
Bisogna perdere l’anima d’arbusto. Un altro
sentimento transitorio si è sciupato.
Ci alziamo e, con il timore di non saper
ritrovare in tempo chi siamo e che cosa vogliamo,
ce ne torniamo molto lentamente. A sera,
la brace a nostra immagine, nervosa,
ma coscienziosa madre della cenere,
si spegne, e si respira un cattivo odore
di tabacco stantio. Siamo stati soli,
ma ora ingorghiamo i colli d’imbuto
(gomito a gomito, passi che si ostacolano)
per riversare dentro al paese l’impreciso
ricordo di campi spezzati, di alluvionali
resti di camion, di sentieri corti
come un respiro stanco e di alberi vivi
già diventati legna. Ci confondiamo
con quelli che son rimasti e che ora escono
dai balli e dalle tane di penombra
gelatinosa, e tutti calpestiamo baci
che la sera ha indurito, e che ora si aprono
in due come le valve di un mollusco, e cadono.
Un bambino al quale è scoppiato il palloncino
lancia un pianto viperino. Tutti ci guardiamo
e ridiamo soddisfatti. Nessuno di noi
si vede in alto nella scala degli esseri.



pubblicato su Absolute Ville nella rubrica tradurre poesia   - - - -

© Massimo Rizzante - "tradurre poesia" 


Massimo Rizzante (1963) è poeta, saggista e traduttore. Ha fatto parte dal 1992 al 1997 del Seminario sul Romanzo Europeo diretto da Milan Kundera.
Dal 1993 al 1996 è stato redattore della rivista letteraria Baldus. Dal 1994 è redattore della rivista L’Atelier du roman. Nel 1999 ha pubblicato la raccolta di poesie Lettere d’amore e altre rovine, Biblioteca cominiana. Dal 2004 dirige la collana Biblioteca di poesia, Il Metauro. Nel 2005 ha tradotto Il sipario di Milan Kundera, Adelphi. Nel 2007 è uscito il saggio L’albero, Marsilio e ha pubblciato la seconda raccolta poetica, Nessuno, Manni. Nel 2008 ha tradotto Un incontro di Milan Kundera, Adelphi e curato l’antologia poetica di O. V. de L. Milosz, Sinfonia di novembre e altre poesie, Adelphi. Nel 2009 è uscito il saggio Non siamo gli ultimi, Effigie. Nel 2010 ha curato la raccolta poetica di M. Crnjanski, Lamento per Belgrado, Ponte del Sale e ha pubblicato la novella Ricordi della natura umana, La Camera Verde.
Insegna all’Università di Trento.

le  opere di Massimo Rizzante



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