Goffredo Fofi - L'Unità - 27 giugno 2010
La storia, un racconto del terrore
Roberto Bolaño, l’autore di 2666, una delle grandi opere donateci dalla letteratura a cavallo tra anni Novecento e anni Duemila, è morto nel 2003, ma eccolo tornare a noi con Amuleto, un lungo racconto del 1999, tradotto da Ilide Carmignani per Adelphi con lo stesso amore di 2666.
Gli anni di cui questo breve libro ci parla sono anni passati, soprattutto uno, il 1968, le cui speranze e fallimenti la letteratura ha appena cominciato a sfiorare. Ma Amuleto non è solo questo: è un atto d'amore per una città, Città del Messico, e per i suoi poeti, ed è a suo modo un romanzo scritto in poesia piuttosto che in prosa. Ha detto il suo autore, mettendo in bocca questa distinzione al poeta gay Ernesto San Epifanio, una sua invenzione già presente in I detective selvaggi (Sellerio) che ritorna in un alcuni dei più forti capitoli di Amuleto, che il romanzo è eterosessuale, la poesia è omosessuale, il racconto è bisessuale. Certamente Amuleto è “bisessuale”, partecipando della prosa e partecipando della poesia. Ma esso partecipa anche della storia, e non solo dell'invenzione.
È l'opera di un letterato, certamente (dire di qualcuno che è un letterato non è sempre un elogio, anche se la letteratura si fa con la letteratura, perché troppi sono i cattivi o mediocri letterati anche in tempi e contrade dominati dall’ansia di narrare e di vendere), ma nel caso di Bolaño si tratta di alta letteratura, di invenzione che parte dalla storia e fa i suoi conti con la storia, come è accaduto per alcuni dei suoi maestri, a cominciare da Cortàzar. Creatore di “doppi”, come il citato San Epifanio, e soprattutto come Arturo Belano, conosciuto in Stella distante (ancora Sellerio) che in Amuleto divide con San Epifanio uno dei capitoli più intriganti e in apparenza devianti, qui inventa una donna a fargli da portavoce, l'uruguayana Auxilio Lacouture, che nella Città del Messico del '68 ha vissuto l’avventura di restare chiusa in un cesso dell'Università nei giorni del settembre-ottobre quando la polizia la invase arrestando studenti professori bidelli, quando nella “notte di Tlatelolco” il governo ordinò il massacro degli studenti in rivolta, centinaia e centinaia di morti, si dice più di duemila (lo raccontò agli italiani Oriana Fallaci, che c’era e fu gravemente ferita).
Dice Auxilio di sé: «Io sono la madre dei poeti di Città del Messico. Io sono l’unica ad aver resistito dentro l’università nel 1968, quando entrarono i reperti antisommossa e l’esercito. Io sono rimasta da sola in facoltà, chiusa in una toilette, senza mangiare per più di dieci giorni, per più di quindici giorni, dal 18 al 30 settembre, non mi ricordo più». Auxilio si definisce la madre dei poeti della città, ma soprattutto dei più giovani, ed è una scombinata che vive come può pur di star vicina all’ambiente che ama; non scrive poesie, le legge, non è un poeta, ma ama i poeti. (Nel cesso in cui è rimasta chiusa, leggeva Pedro Garfias, poeta spagnolo, in esilio dopo la guerra civile.) Incontra poeti veri, Auxilio, e grandi artisti come Remedios Varo, pittrice, o Lilian Serpas, poetessa, e suo figlio Carlos, pittore, e tanti altri. Vive la sua e loro bohème con allegra e disperata franchezza, e racconta e commenta disordinatamente i suoi incontri, bizzarri e variamente, disperatamente vitali. Sesso poco, perché la muove anzitutto l’amore per la poesia…
Ma «questa sarà una storia del terrore», ha dichiarato Auxilio in apertura di racconto, e il libro porta in epigrafe una citazione dal Satyricon che lamenta l’impossibilità per i suoi giovani protagonisti di trovare “ausilio”. Il suo racconto-poema conclude su una strana marcia di migliaia di giovani che vanno verso una battaglia perduta in partenza, uniti solo “dalla generosità e dal coraggio”: «Camminavano verso l'abisso. (…) Ombra o massa di bambini, camminavano inesorabilmente verso l’abisso. (…) E li sentii cantare, (…) i bambini più belli dell'America latina, i bambini denutriti e quelli ben nutriti, quelli che avevano tutto e quelli che non avevano avuto niente, (…) li sentii cantare e diventai pazza, li sentii cantare e non potei fare niente per fermarli, (…) l’unica cosa che potei fare fu di alzarmi in piedi, tremante, e ascoltare fino all’ultimo sospiro il loro canto». E quel canto «è il nostro amuleto», dice infine il racconto-poema di Roberto Bolaño in cui si definisce la Storia «un breve racconto del terrore»: la Storia con la esse maiuscola come quella di Elsa Morante, del cui Mondo salvato dai ragazzini questo Amuleto sembra il complemento tragico, l’eco di una battaglia eternamente perduta e che tuttavia è eternamente da combattere.
Goffredo Fofi
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