lunedì 26 luglio 2010

Raffaele Simone: 1. Il paradigma platonico

  Raffaele Simone - giugno 2000  

Italiano scritto





Raffaele Simone - tre paradigmi di scrittura 

1. Il paradigma platonico

 Siamo nel corso di una transizione importante, questo è uno dei temi a cui si riferisce essenzialmente il testo La terza fase (Raffaele Simone, La terza fase, Bari, Laterza, 2000); una delle dimensioni fondamentali di questa transizione concerne il meccanismo della scrittura (lo scrivere, le pratiche di scrittura).
Per cercare di chiarirmi le idee e augurandomi di chiarirle anche a chi mi ascolta, ho elaborato una semplice tipologia di paradigmi di scrittura che mi pare renda conto, per lo meno in una prospettiva molto generale, di ciò che sta accadendo, e forse ci permette anche di immaginare che cosa potrà accadere nel campo della scrittura.
Ho intitolato così i tre paradigmi, anche per capirci un po' per formule: il primo il paradigma di Platone, il secondo il paradigma digitale, il terzo il paradigma multimediale. Spiegherò via via che cosa significhino queste definizioni.

Il paradigma platonico

Tanto per cominciare cerco di dire qualche cosa su quello che mi piacerebbe considerare il paradigma di Platone. Credo che la maggior parte di voi sappia che è stato Platone, in uno dei suoi dialoghi, il Fedro, a darci la prima compiuta riflessione sulla natura della scrittura. Si tratta di una lettura straordinariamente illuminante per capire che cos'è la scrittura, soprattutto se si immagina che questa riflessione ebbe luogo nel IV secolo a.c., un'età che noi consideriamo, ed è, remotissima, non molto discosta dalla presumibile origine effettiva della scrittura; e che a questo tema si dedica una delle più grandi menti che possiamo annoverare nella nostra tradizione.

Platone, nella seconda parte del Fedro, racconta un mito secondo cui il dio egizio Teuth inventò i numeri, il calcolo, la geometria, l'astronomia, il gioco del tavoliere e dei dadi, e infine anche la scrittura: è interessante vedere la mescolanza delle cose che questo dio inventa; sono cose che stanno fra la scienza, l'intrattenimento, la pratica. Poi Teuth va da Thamus, re d'Egitto, e gli dice che queste cose andavano insegnate al suo popolo: in particolare secondo il dio Teuth la scrittura sarebbe stata di grande vantaggio per il popolo, perché sarebbe stata letteralmente "il farmaco della memoria e della sapienza": la scrittura, dice il dio, "è in grado di alleggerire la memoria degli uomini che fino a quel momento hanno dovuto tenere a mente le conoscenze e le informazioni di cui avevano bisogno".

Al re Thamus questo ragionamento non piace particolarmente. Dice Thamus: "in realtà la scrittura non sarà il farmaco della memoria ma servirà soltanto a favorire l'oblio e la presunzione delle persone che la imparano, perché della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza e non la verità; divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, essi crederanno di essere conoscitori di molte cose mentre, come accade per lo più, in realtà non le sapranno". La scrittura cioè ci permette di sapere cose che non abbiamo elaborato noi stessi ma che prendiamo da altri senza insegnamento. In secondo luogo gli uomini "fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se stessi"; cioè la scrittura sposta la conoscenza dal dentro della persona che la elabora al fuori; la rende in altre parole superficiale e crea una falsa percezione di conoscenza. Il testo scritto ha un'altra debolezza importante per noi per definire il paradigma che sto chiamando platonico: il testo una volta scritto non può aiutare il lettore nell'opera di comprensione, perché si stacca dall'autore e vive per proprio conto; il parlato all'inverso, siccome è attaccato alla persona che lo emette, rimane indissolubilmente legato alla persona che lo emette e che lo può spiegare. Quindi, ed è la terza citazione, "una volta che sia scritto, un discorso rotola dappertutto nelle mani di coloro che se ne intendono come di coloro a cui non ne importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no; e se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, cioè del suo autore, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo". Insomma Platone sottolinea in questa analisi che per effetto della scrittura il discorso parlato cambia natura totalmente, non solo perché si stacca dal suo autore per passare nelle mani degli altri, ma anche per un altro motivo che a me pare di straordinaria sottigliezza: ed è che l'autore consegna al lettore un testo che non è più plasmabile dall'autore stesso, è un testo che ha raggiunto uno stato specifico a cui Platone dà per la prima volta un nome definito: bebaiotes, la stabilità, l'immutabilità. Il testo scritto è un testo fissato, è un testo che per qualche motivo ha cambiato natura e non può essere più trasformato e modificato. Lo stabilizzarsi del corpo del testo non piace a Platone, gli sembra una diminuzione delle risorse del testo, gli sembra un pericolo; il testo stabilizzandosi non è più vivo alla stessa maniera che capita alle creature della pittura: "le creature della pittura ti stanno di fronte come se fossero vive, ma, se domandi loro qualcosa, restano zitte, e così fanno anche i discorsi scritti. Tu crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma, se volendo capir bene domandi loro che cos'è che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa". Il discorso scritto non parla, non può commentare se stesso perché stabilizzandosi si è pietrificato. Naturalmente non siamo obbligati ad adottare le analisi di Platone; l'ermeneutica e una varietà di discipline contemporanee hanno dimostrato che in effetti fra il lettore e il testo scritto si stabilisce un rapporto di straordinaria complessità dinamica. Ma Platone insisteva sui rischi dello stabilizzarsi, sul fatto che il parlato nasce dal di dentro mentre lo scritto nasce dal di fuori, e quindi il parlato risponde a un bisogno di comunicazione immediato e profondo mentre invece lo scritto, come dice Platone, "è solo acqua nera poggiata su un supporto". Ora, a parte le valutazioni che Platone fa, mi pare che in queste analisi ci siano dei temi di straordinaria acutezza e profondità che servono anche a noi per cogliere talune delle specificità di un modello di scrittura al quale, per secoli e fino al giorno d'oggi, ci siamo più o meno inconsapevolmente adeguati.

Il testo scritto è illimitatamente manipolabile finché non è stabilizzato. Platone parla a un certo momento del fatto che i testi scritti si possono tagliare e incollare adoperando quasi la stessa metafora che si adopera oggi nel linguaggio dei calcolatori; però a un certo punto si stabilizza, acquista la proprietà che ho menzionato prima chiamarsi bebaiotes, e stabilizzandosi si stacca dal suo autore e può rotolare dappertutto, può andare ovunque si voglia e ovunque capiti, anche all'insaputa dell'autore stesso.


Questo è all'incirca il modello platonico di scrittura; però, per andare a fondo in questa analisi di paradigmi, bisogna mettere in evidenza il fatto che nei termini scrittura e scrivere si raccolgono una varietà di significati molto diversi che non sempre siamo in grado di distinguere con l'accortezza che sarebbe necessaria.

Quando noi diciamo scrivo, scrivere, sta scrivendo, sto scrivendo, si scrive alludiamo, per esempio, a una persona che sta tracciando segni su un supporto fisico; questa persona può essere per esempio colui che verga il testo con strumenti di scrittura che permettano di riconoscere il ductus, come dicono i filologi, cioè di riconoscere l'andamento della mano (per esempio il calamo o la penna dove c'è una mano che guida) e il prodotto di questa operazione di scrittura è un segno grafico che può essere tanto di testi propri quanto di testi altrui. Quindi chi scrive in questa accezione, è soltanto il vergatore di un segno grafico. Può essere anche come, in un altro caso, chi comanda l'impressione del testo, per esempio digitandolo su strumenti di scrittura che, a differenza della penna o del calamo, non permettono di riconoscere ductus e non danno come prodotto il tracciato della mano che si muove sul supporto. Pensate a una tastiera, tanto di macchina da scrivere quanto di calcolatore, dove dal tocco non possiamo riconoscere chi è l'autore della scrittura. Questa è già una persona che scrive; però c'è dell'altro nel concetto di scrittura: scrive anche chi concepisce ed elabora il testo che viene scritto anche se questa persona non compie le operazioni nel primo significato della parola scrivere, questa persona è un autore, uno scrittore, un redattore, ma non è detto che l'autore di un testo scritto sia anche la persona che traccia con la mano i segni grafici o digita: posso scrivere un romanzo senza toccare tastiera o penna, posso ad esempio dettarlo a qualcun altro. Questa terza possibilità, quella del dettatore, non ha propriamente un nome: io posso dettare un testo altrui e in quel momento posso dire che sto scrivendo qualche cosa, che qualcuno sta scrivendo sotto la mia dettatura. Scrive anche chi sottoscrive il testo che viene scritto senza rientrare in nessuna delle categorie precedenti. Quando firmiamo un contratto sottoscriviamo un testo che non abbiamo scritto in nessuno dei sensi precedenti, ma che appare come se lo avessimo scritto; quel testo è nostro, perché quel testo descrive le nostre volizioni. Non abbiamo scritto il testo in nessuno dei sensi precedenti ma, sottoscrivendolo, è come se lo avessimo scritto. È un caso abbastanza paradossale che apre una tematica di grande interesse filosofico e giuridico, la teoria della sottoscrizione (la teoria della firma), che nel momento in cui viene apposta ci rende autori di ciò che le sta immediatamente sopra. Chi sottoscrive il testo scrive segni grafici personali, la firma e la sottoscrizione devono avere, e hanno per lo più, la caratteristica peculiare di essere autochiri: è un termine che ho inventato ma che rende credo abbastanza bene il valore specifico di questa circostanza. Non posso, come talvolta ci invitano a fare negli uffici postali, firmare con il nome di mia moglie; è un'abitudine tipica della burocrazia italiana, che però contravviene a un principio giuridico fondamentale: il sottoscrittore di un documento è la persona che si assume le responsabilità che derivano da quel documento e quindi il segno dev'essere autochiro, dev'essere tracciato con la sua mano stessa; altrimenti quel tipo di funzione scrittoria non esiste. Infine scrive chi ricopia o riporta il testo che viene scritto: per esempio il tipografo, il digitatore, il compositore scrivono un testo del quale può non interessare loro assolutamente niente, di cui magari non capiscono assolutamente nulla, però anche in quel caso stanno scrivendo.

Dunque nello scrivere ci sono una varietà di significati e di figure che talvolta è bene distinguere. Quando parliamo di scrittura normalmente ci collochiamo in un punto intermedio fra l'operazione di scrivere materialmente e quella di concepire il testo (anche se materialmente non ne è l'esecutore): quando noi diciamo "sto scrivendo una tesi di laurea, sto scrivendo una tesi di dottorato, un lavoro da pubblicare", alludiamo normalmente alla concezione del testo: ne siamo autori e per lo più stiamo anche realizzando fisicamente il testo del quale siamo autori. In questa doppia posizione si possono distinguere due dimensioni nelle quali Platone aveva già visto molto chiaramente, cioè la dimensione del processo dello scrivere e la dimensione del prodotto dello scrivere. Il processo è l'insieme delle fasi attraverso cui passiamo dal non aver scritto nulla all'aver scritto qualche cosa, è un processo che richiede del tempo e che ha una serie di fasi che possono essere descritte, e approda a una fase finale che è il prodotto dello scrivere. Quando noi diciamo "ho finito, questo è il testo finito ", e lo consegniamo a qualcuno che lo sta aspettando per qualche motivo, in realtà stiamo dichiarando che la fase del processo è compiuta e che il testo è approdato alla sua forma di prodotto, alla sua forma finale. Era quella forma di prodotto che stava a cuore a Platone, ed era quella forma di prodotto l'oggetto nel quale Platone vedeva la proprietà della bebaiotes, cioè della stabilità testuale che costituisce un punto di non ritorno, di non mutevolezza del testo scritto.

Ora immaginando il fondale così com'è descritto da Platone: possiamo vedere in questo paradigma tre o quattro proprietà che a me paiono di notevole interesse per definire il primo dei paradigmi che sto citando. Il primo è il tratto della pubblicità: Platone aveva visto con grande chiarezza che il testo scritto si stacca dal suo autore e rotola dappertutto, anche se è soltanto una lettera privata, può circolare, ha lo statuto fisico, ontologico, si potrebbe dire parlando un po' con il gergo filosofico, che le permette di circolare indipendentemente dal suo autore. Si rivolge così a destinatari che possono non essere presenti nello spazio e nel tempo: quindi il testo scritto non è ancorato al momento in cui viene prodotto, è un oggetto pantopico e pancronico; ciò che riferisce non è legato a un'epoca o a un sito preciso; può, come diceva Platone, rotolare dappertutto.

In secondo luogo, una volta distinto tra processo e prodotto, si nota che la scrittura si svolge in un ambiente operativo totalmente diverso da quello in cui si svolge il parlato. Platone aveva intuito questo fatto sottolineando la differenza tra i discorsi che nascono dal di dentro (quelli parlati) e i discorsi che nascono dal di fuori (quelli scritti); il parlato per esempio ha una proprietà che la teoria linguistica ha battezzato evanescenza (fading): nel momento stesso in cui viene prodotto si dissolve, non c'è più, salvo che noi non lo registriamo; ma non registriamo tutto quello che viene detto o che diciamo al mondo. Per questo motivo il parlato non può essere annullato una volta che l'abbiamo prodotto mentre invece lo scritto sì: possiamo modificare illimitatamente la scrittura mentre quando abbiamo detto una cosa, quella cosa non può essere più modificata.

Un'altra proprietà rilevante dei testi scritti rispetto a quelli parlati è il fatto che i testi scritti tendono a ricadere entro una stretta gamma di tipi testuali, tendono cioè a tipizzarsi. Questo fatto ricorre in tutte le culture ed è uno degli aspetti più singolari nella storia della scrittura talmente fondamentale che l'utente, chiunque esso sia, anche un bambino, se ne accorge immediatamente in modo assai precoce. Per esempio se noi ci mettiamo a raccontare una favola a un bambino, lui capisce che la favola è composta di un certo numero di meccanismi che già conosce, e si aspetta che noi implementiamo questi meccanismi, non accetta che trasformiamo il meccanismo cammin facendo.

I testi scritti sono ancora più tipizzati dei testi parlati, e questa è una percezione che ciascuno di noi ha nel momento in cui si mette a scrivere: la prima cosa che dobbiamo domandarci è in che tipo siamo, poniamo nel tipo lettera, e in quel caso dobbiamo scegliere tra lettera soggettiva e non soggettiva, nel tipo rapporto impersonale, nel qual caso il pronome io deve essere bandito, nel tipo narrazione, nel tipo x o y o z; cioè abbiamo una biblioteca, una libreria, come oggi si tende a dire di tipi nella mente che abbiamo acquisito attraverso la nostra tradizione culturale ed educativa, e ciascuno di questi tipi ha delle regole che costituiscono la sua grammatica. La tipizzazione della scrittura è un'esperienza che facciamo immediatamente quando ci accorgiamo che non possiamo scrivere una tesi di laurea come se fosse una lettera a un professore e viceversa quando ci accorgiamo che non possiamo scrivere una lettera a un amico o a un'amica magari affettuoso o affettuosa come se fosse una tesi di laurea: ci sono delle restrizioni di tipo che non ci permettono di passare dall'uno all'altro senza un buon motivo. Inoltre il testo scritto alla maniera di Platone ha due caratteristiche fondamentali ulteriori che si riferiscono al suo rapporto con l'autore e con il luogo in cui è emesso. Il testo scritto è cioè localizzato, ed è dotato di una proprietà che in mancanza di termini migliori ho provato a battezzare con un altro grecismo inventato, dicendo che si tratta di un testo dotato di despotía. Localizzato vuol dire che il testo scritto è prodotto in un sito determinato e spesso riconoscibile, quello che nelle lettere e nella maggior parte dei documenti viene segnalato con l'indicazione della città; questo dato in alcuni tipi di scrittura può essere fondamentale; per esempio in una lettera o in contratto una varietà di tipi di scrittura richiede che si localizzi la scrittura che stiamo elaborando. È abbastanza chiaro che i testi parlati sono ben più localizzati ancora perché non possono aver luogo se non in quel momento e in quel luogo; però anche i testi scritti possono essere localizzati; inoltre, che un testo scritto sia dotato di despotía significa che normalmente un testo scritto ha un autore o più autori individuale o collettivi che garantiscono alcune condizioni fondamentali che possono essere essenziali specialmente in alcuni ambiti come per esempio nel campo del diritto d'autore e della creazione letteraria o della scrittura giuridica. Intanto garantiscono che la scrittura sia autentica, cioè che la persona che ha prodotto quel testo sia io e non un altro; se si riflette, questo è il concetto che sta alla base del concetto tutto occidentale di autore. Quando leggiamo un'opera letteraria abbiamo bisogno di sapere chi è il suo autore, e saremmo delusi se scoprissimo a un certo momento che un'opera che abbiamo letto come prodotto da un autore che ci è per qualche motivo caro risalisse invece a un altro autore o a nessun autore definibile. E ci sono degli oneri perché l'autore di quell'opera è responsabile tanto dei vantaggi che possono nascerne, per esempio i diritti d'autore, quanto anche per gli svantaggi: se c'è una querela che si fa contro un testo, la si fa contro l'autore di quel testo che quindi deve essere riconoscibile. Despotía significa che la scrittura è autentica, è di quella persona o di quelle persone, ha un autore; in secondo luogo garantisce che il testo scritto sia chiuso, cioè completo e definitivo e che abbia raggiunto lo stato che Platone chiamava di stabilità, di bebaiotes: se io compro un romanzo mi aspetto che sia compiuto, non mi aspetto che il giorno dopo esca una seconda versione del romanzo in cui l'autore dica: "scusatemi le prime 13 pagine erano sbagliate, sostituitele con le prime 13 che trovate qui", ci aspettiamo che il testo abbia superato la fase della processualità e abbia raggiunto la fase del prodotto finale. Infine significa che le responsabilità relative a quel che si è scritto ricadano su una persona o alcune persone definite e riconoscibili. La normativa europea sul diritto d'autore definisce queste tematiche che nell'antichità erano assai meno chiare ma il concetto d'autore è per noi oggi fondamentale.

È facile vedere che tutte queste conseguenze discendono dalla proprietà che Platone definisce stabilità: la scrittura è sì infinitamente correggibile ma questa correggibilità si applica nella fase del processo non nella fase del prodotto. Quando il testo diventa prodotto, quando è chiuso, si stabilizza e assume una forma che consideriamo invariabile, o come dicono più precisamente i filologi ne varietur. È facile vedere anche che la stampa ha enfatizzato tutte queste proprietà, cioè ha reso ancora più stabile questo stabile, dandogli anche una serie di contrassegni grafici importanti sui quali spesso si insiste anche oggi perché definiscono la scrittura; per esempio l'impaginazione, il bordo della pagina, la chiusura del testo con un titolo all'inizio e con alcuni elementi di paratesto alla fine; l'idea stessa di pagina, che è stata elaborata nel corso del tempo ed è tutt'altro che elementare, serve a darci l'idea del testo come di qualcosa di bloccato, chiuso, protetto da un bordo che soltanto in talune circostanze può essere violato, come un oggetto che ha raggiunto una sua completezza e una sua chiusura e su cui non si può più mettere mano senza disarticolarlo.




© Raffaele Simone - 



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