Milan Kundera
Sagarana nr 22 - 2006 - - - -La terra degli scrittori
Vera Linhartova era negli anni '60 una delle scrittrici più ammirate in Cecoslovacchia, poetessa di una prosa meditativa, ermetica, inclassificabile. Dopo il 1968, avendo lasciato il proprio paese per Parigi, ha cominciato a scrivere e a pubblicare in lingua francese. Conosciuta per la sua natura solitaria, ha sorpreso tutti i suoi amici quando, recentemente, ha accettato l'invito dell'Istituto francese di Praga e al colloquio consacrato alla problematica dell'esilio ha pronunciato la sua comunicazione. E' quanto di più non conformista e di più lucido io abbia mai letto su questo tema.
La nostra seconda metà del secolo ci ha reso tutti estremamente sensibili al destino delle persone a cui è stato proibito di soggiornare nel proprio paese. Questa sensibilità piena di compassione ha avvolto il problema dell'esilio nelle nebbie di un moralismo lacrimevole e ha occultato il carattere concreto della vita dell'esiliato che, secondo la Linhartova, ha invece saputo spesso trasformare la sua messa al bando in un impulso liberatore verso un altrove, sconosciuto per definizione, aperto a tutte le possibilità.
La scrittrice, naturalmente, ha mille volte ragione!
Come comprendere altrimenti il fatto, in apparenza sorprendente, che dopo la fine del comunismo quasi nessuno dei grandi emigrati abbia fatto ritorno in patria? Né Milosz, né Brandys, né Kolakowski, né Kristeva, né Zinoviev, né Siniavski, né Skvorecky, né Forman, né Polanski, né Agnieszka Holland, né Sylvie Richterova. La fine del comunismo non li ha spinti a celebrare nel loro paese natale la festa del Grande Ritorno? E se, con grande delusione del pubblico, non ne hanno sentito il desiderio, non avrebbero dovuto almeno considerare il loro ritorno come un impegno morale? Linhartova: "lo scrittore è prima di tutto un uomo libero, e l'obbligo di preservare la sua indipendenza contro tutte le costrizioni viene prima di qualsiasi altra considerazione. E non parlo di quelle costrizioni insensate che un potere abusivo cerca d'imporre, ma delle restrizioni - tanto più difficili da eludere quanto più sono colme di buone intenzioni - che si richiamano ai sentimenti di dovere verso il proprio paese". In effetti si continua a rimuginare clichés sui diritti dell'uomo e si persiste allo stesso tempo a considerare l'individuo come una proprietà della nazione.
Ma la scrittrice va ancora più lontano: "Ho scelto il luogo dove volevo vivere, ma ho scelto anche la lingua che volevo parlare". Le si obietterà: lo scrittore, quantunque uomo libero, non è il custode della propria lingua? Non è forse questo il senso stesso della sua missione? Linhartova: "Spesso si pretende che, più di chiunque altro, lo scrittore non sia libero di muoversi, poiché egli è legato alla sua lingua da un legame indissolubile. Credo si tratti ancora di uno di quei miti che servono da giustificazione alle persone timorate...". Perché: "Lo scrittore non è prigioniero di una sola lingua. Una grande frase liberatrice. Solo la brevità della vita impedisce allo scrittore di trarre tutte le conclusioni da questo invito alla libertà.
Linhartova: "Le mie simpatie vanno ai nomadi, io non possiedo l'anima di una sedentaria. Anch'io posso dunque affermare che il mio esilio è venuto ad esaudire ciò che da sempre era il mio voto più caro: vivere altrove". Quando la Linhartova scrive in francese è ancora una scrittrice ceca? No. Diviene allora una scrittrice francese? Nemmeno. E' altrove. Altrove come un tempo Chopin. Altrove come più tardi, ciascuno a suo modo, Nabokov, Beckett, Stravinskij, Gombrowicz. Ben inteso, ognuno vive il proprio esilio in modo inimitabile, e l'esperienza della Linhartova è un caso limite. Ciò non toglie che dopo il suo testo radicale e luminoso non si possa più parlare dell'esilio come se n'è parlato fino ad ora.
© Milan Kundera
Nessun commento:
Posta un commento