Roberto Carnero - il piccolo - 22 maggio 2009
Einaudi annuncia, per ottobre [poi uscito ad aprile 2010], l’uscita italiana da Einaudi del terzo volume del suo romanzo-fiume, ”Il tuo volto domani”.
Javier Marías è oggi a Venezia (parlerà alle 18 al Teatro Malibran) per il festival letterario “Incroci di civiltà”. Nato a Madrid nel 1951, è uno degli scrittori in lingua spagnola più importanti del mondo. I suoi libri – tra cui ricordiamo ”L’uomo sentimentale”, ”Tutte le anime, ”Un cuore così bianco”, ”Domani nella battaglia pensa a me” – sono tradotti in 37 Paesi.
«Con il tomo che verrà pubblicato in autunno da Einaudi - spiega, - anche il lettore italiano potrà vedere come va a finire il romanzo più lungo che abbiamo mai scritto: circa 1600 pagine. Un’idea, quella di un romanzo ”a puntate”, che inizialmente aveva scoraggiato i miei editori, ma che il pubblico dei lettori alla fine ha premiato».
Come mai ha deciso di darsi a una narrazione così articolata, addirittura in tre volumi?
«C’erano due protagonisti di questo romanzo, mio padre e un anziano professore di Oxford, che quando ho iniziato a scriverlo erano già molto anziani. Chiesi loro il permesso di utilizzare elementi della loro biografia, seppure trasposti con una certa dose di invenzione in un’opera letteraria. In questo modo li coinvolsi in prima persona nel mio progetto e vidi che entrambi ne erano molto incuriositi. Essendo loro già ultranovantenni, non volevo correre il rischio che non facessero in tempo a vedere il romanzo stampato. Per questo, in attesa di completarlo, decisi di pubblicare la prima parte e poi la seconda. Nel frattempo, infatti, il materiale era cresciuto e la storia era evoluta in direzioni che all’inizio neanche sospettavo. Sono felice che i miei due ”personaggi” abbiano potuto leggere il ”loro” romanzo. Ora però non ci sono più e quindi mi spiace che non potranno conoscere il finale».
Lei ha anche tradotto molti autori dall’inglese (da Sterne a Conrad, da Stevenson a Hardy). Che cosa ha imparato come scrittore da questa attività?
«Moltissimo. Soprattutto a calibrare le parole. Non credo nelle scuole di scrittura: penso che si possa insegnare come non bisogna scrivere, ma che sia difficile spiegare come si dovrebbe farlo. Tuttavia, se mai dovessi dirigerne una, richiederei come pre-requisito agli aspiranti corsisti la conoscenza di una o più lingue straniere e li farei tradurre. ”Riscrivere” e ”ricreare” un grande libro (perché per me questo è il compito del traduttore), è il modo migliore per imparare a farne altri».
Di recente lei ha dichiarato che tra i suoi autori di riferimento c’è lo scrittore austriaco Thomas Bernhard. Che cosa rappresenta per lei?
«Uno straordinario maestro di sarcasmo e di ironia, di un umorismo feroce e corrosivo. E di autoironia, cioè della capacità di non prendersi troppo sul serio. L’ho scoperto e l’ho fatto tradurre in Spagna, dove era poco conosciuto. Mi piace anche l’eccezionale musicalità della sua pagina, quell’elemento ritmico che anch’io nei miei libri cerco di ottenere. Il tutto con un gusto per l’esagerazione e l’amplificazione che trovo estremamente gustoso».
Il suo ultimo libro uscito in Italia, ”Dove tutto è accaduto” (Passigli 2008), è una raccolta di scritti sul cinema. Qual è il suo rapporto con la settima arte?
«Direi senz’altro un rapporto strettissimo. Il cinema e il romanzo sono per me entrambi grandi narrazioni. La mia generazione è cresciuta con il cinema. Perciò il cinema, accanto alla letteratura, è l’altra grande fonte di immaginario. Da alcuni anni organizzo in Spagna un premio, il ”Reino de Redonda”, dedicato, indistintamente, a scrittori e cineasti».
Arte (cinema, letteratura, musica) e vita: per essere scrittori conta di più la prima o la seconda?
«L’arte è importante, ma ovviamente conta anche l’esperienza della vita. In ogni caso anche ciò che vive, lo scrittore deve poi reinventarlo, immaginarlo in termini narrativi. Quindi chi scrive è tenuto continuamente a rivisitare in forma di racconto le cose che gli accadono e i fatti di cui è protagonista. Perché la vita, in sé, senza questo filtro, sarebbe materiale inerte».
ROBERTO CARNERO
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