Massimo Rizzante -
2008Dopo l'esilio
1. Primavera 1994
Era la primavera del 1994. e la rivista letteraria francese L’Atelier du roman, aveva appena pubblicato uno dei più bei saggi che avessi mai letto: Pour une ontologie de l’exil di Vera Linhartová.
Da qualche tempo mi trovavo a Parigi. Avevo scelto di lasciare l’Italia. Nessuna dittatura mi aveva costretto a questo passo. Il mio era un esilio volontario. Un affare privato, che non interessava a nessuno e che soprattutto non prevedeva condanne in contumacia, confisca dei beni o perdita di nazionalità. Mi trovavo, insomma, dal lato più banale dell’esilio.
Nel saggio in questione, ciò che amai particolarmente fu che Linhartová affermava la possibilità per coloro che hanno scelto di vivere all’estero di non subire il proprio esilio, ma di trasfigurarlo, di trasformare la loro condizione di non appartenenza in un esercizio quotidiano di libertà: “Come un punto di partenza – scriveva Linhartová – verso un altrove, sconosciuto per definizione, aperto a tutte le possibilità”. Milan Kundera, in un articolo apparso qualche giorno dopo in “Le Monde”, definiva “luminosa” la riflessione di Linhartová: anche Kundera vedeva nell’esilio una promessa di libertà.
Mi sono ricordato allora di Josip Brodskij. Nella sua conferenza del 1987, Una condizione chiamata esilio, il poeta ironizzava sul fatto che lo scrittore in esilio è quasi sempre “un essere retrospettivo […] Come i falsi profeti di Dante, il nostro uomo ha la testa perpetuamente rivolta all’indietro e le lacrime, o la saliva, gli scorrono giù tra le scapole”. Mi sembrava che Linhartová, Kundera e Brodskij, cercassero tutti, attraverso tonalità differenti, di rivendicare il lato non tragico dell’esilio, concepito non come una romantica contemplazione delle origini (Novalis: “Il mondo deve essere romantizzato. Solo così ritroveremo il senso originale”), ma come una potente lente d’ingrandimento posata sul presente, capace anche di scrutare i segni premonitori dell’avvenire. Se l’esilio assomiglia all’Inferno, mi dicevo, è perché è soprattutto una scuola di modestia e chiaroveggenza.
Era la primavera del 1994. La mia giovinezza era agli sgoccioli, così come i miei studi. La fine del comunismo, ai miei occhi, coincideva in modo bizzarro con la fine dell’arte. Fine della giovinezza. Fine del comunismo. Fine dell’arte. Ero sequestrato dall’idea della Fine.
E mi domandavo: la tua esperienza dell’esilio può ancora avere dei tratti comuni con quella di Ovidio, Dante, Chateaubriand (“Il rinnovamento della letteratura di cui il XIX secolo si vanta è stato opera dell’emigrazione e dell’esilio” – cosa che si può dire anche per il XX secolo), Seferis, Gombrowicz, Kundera, Brodskij? O con quella di poeti e scrittori che negli ultimi cinquant’anni hanno dovuto o scelto di vivere altrove?
Per avere un altrove bisogna avere una patria, non tanto concepita come suolo nazionale o insieme di istituzioni, quanto come identità storica e culturale, preziosa, a volte detestabile, sempre profondamente radicata in noi da diventare spesso inafferrabile. La banalità del mio esilio non era dovuta all’assenza di sofferenze o di tragedia: la realtà era che il luogo da dove venivo era terribilmente simile al luogo in cui mi trovavo. Entrambi questi luoghi stavano per diventare intercambiabili; ciascuno di essi era in procinto di perdere la propria specificità storica e culturale. L’Europa intera stava realizzando il suo sogno di unità: quale senso dare all’esilio se non esisteva concretamente più un altrove dove andare?
Sentivo, in modo oscuro, che un altro capitolo della storia contemporanea, quello dell’esilio, stava per chiudersi.
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