lunedì 27 settembre 2010

i colpevoli di Juan Villoro

Juan Villoro

I colpevoli

racconto tratto dal libro "I colpevoli" Cuec ed., 2009   


I colpevoli
di Juan Villoro

Le forbici erano sul tavolo. Avevano delle dimensioni fuori dal comune. Mio padre le utilizzava per trinciare i polli. Da quando lui è morto, Jorge se le porta dietro ovunque. Forse per uno psicopatico è normale dormire con la pistola sotto il cuscino. Mio fratello non è uno psicopatico. Ma non è neanche normale.
Lo trovai in camera, piegato su se stesso, mentre lottava per togliersi la maglietta. C’erano 42 gradi. Jorge indossava una maglietta di tessuto grezzo, ideale per appiccicarsi come una seconda pelle.
– Aprila – gridò con la testa intrappolata nella maglia. La sua mano indicò un punto impreciso che non mi fu difficile indovinare.
Andai a prendere le forbici e tagliai la maglietta. Vidi il tatuaggio sulla sua schiena. Mi infastidì constatare che le forbici servissero a qualcosa; Jorge rendeva utili anche le cose senza senso; per lui, questo, significava avere talento.
Mi abbracciò come se spalmarmi addosso il suo sudore fosse un battesimo. Poi mi guardò con i suoi occhi infossati per la droga, la sofferenza e i troppi video. Era pieno di energie, cosa inopportuna in un pomeriggio d’estate nei dintorni di Sacramento. Durante la sua precedente visita, Jorge aveva preso a calci il ventilatore e aveva rotto una delle pale; adesso l’aggeggio non muoveva quasi più l’aria e faceva un rumore di ferraglia. Nessuno dei sei fratelli pensò di cambiarlo. La fattoria era in vendita. C’era ancora l’odore dei polli; sulle reti rimanevano ancora delle piume bianche.
Io avevo proposto un altro luogo per riunirci, ma lui aveva bisogno di qualcosa che chiamò “corrispondenze”. Lì abbiamo vissuto, ammassati, abbiamo letto la Bibbia all’ora di pranzo, siamo saliti sul tetto a veder piovere le stelle cadenti, siamo stati picchiati con il rastrello che si usava per raccogliere il guano dei polli, abbiamo sognato di fuggire e di tornare per dar fuoco alla casa.
– Vieni con me – Jorge uscì sulla veranda. Era venuto con un
camioncino Windstar, troppo lussuoso per lui.
Ne tirò fuori due valigette. Era così magro che sembrava stesse reggendo delle bombole da sub nell’assurda immensità del deserto. Erano macchine da scrivere.
Le mise alle due estremità del tavolo da pranzo e mi assegnò quella in cui s’incastrava il tasto della lettera ñ. Per settimane saremmo stati faccia a faccia. Jorge si credeva uno sceneggiatore. Aveva un contatto a Tucson, che non è precisamente la mecca del cinema, interessato a una «storia grezza» che, a quanto pareva, noi potevamo raccontare. La prova del suo interesse erano il furgoncino Windstar e duemila dollari di anticipo. Confidava nel cinema messicano come in un intangibile guacamole; c’erano troppo odio e troppa passione nel Paese per non sfruttarli sullo schermo. In Arizona, i contadini sparavano agli immigranti che si erano persi nelle loro terre («Un bollente safari», aveva detto quell’uomo che Jorge citava come fosse un evangelista); poi, l’improbabile produttore aveva preparato un margarita rosso. La “messicanità” trionfava sopra un bagno di sangue.
La più grande stravaganza di quel gringo era stata fidarsi di mio fratello. Jorge si era fatto una cultura come cineasta portando a spasso tossicomani nordamericani per le coste di Oaxaca. Loro gli parlavano di film che noi, qui a Sacramento, non avevamo mai visto. Quando si trasferì a Torreón, andava tutti i giorni in una videoteca dove c’era l’aria condizionata. Lo assunsero per regolarizzare la sua presenza e perché era capace di raccomandare film che non conosceva.
Tornava a Sacramento con degli occhi strani. Probabilmente la cosa aveva a che vedere con Lucía. Lei si annoiava così tanto in quel posto polveroso che diede a Jorge un’opportunità. Anche a quei tempi, quando ancora aveva una linea accettabile e la denestratto tatura intatta, mio fratello sembrava uno schizzato cosmico, uno di quei tipi che sono entrati in contatto con gli ufo. Forse aveva l’aria di qualcuno che sta fuggendo, fatto sta che lei lo lasciò entrare nella casa dove abitava, dietro il benzinaio. Non era facile credere che qualcuno con il corpo e gli occhi di ossidiana di Lucía non trovasse un candidato migliore fra i camionisti che si fermavano a fare gasolio. Jorge si concesse il lusso di abbandonarla. Non poteva legarsi a Sacramento. Si era tatuato sulla schiena una pioggia di stelle, le “lacrime di san Fortino”, che cadono il 12 di agosto. È stato il più grande spettacolo che abbiamo visto durante la nostra infanzia. Tra l’altro, il suo secondo nome è Fortino. Non poteva fermare la sua stella cadente.
Mio fratello era fatto per andarsene, ma anche per tornare. Preparò il suo ritorno per telefono: le nostre vite disastrate somigliavano a quelle di altri cineasti, gli artisti latini stavano andando alla grande, l’uomo di Tucson aveva fiducia nel talento fresco. La cosa curiosa era che la “storia grezza” era mia. Per questo avevo davanti a me una macchina da scrivere.
Anch’io me ne andai da Sacramento. Per anni ho guidato camion su entrambi i lati della frontiera. Nei mutevoli paesaggi di quell’epoca, la mia unica costante fu la birra Tecate. Entrai negli Alcolisti Anonimi dopo essermi ribaltato a Los Vidrios con un carico di fertilizzanti. Rimasi incosciente sulla strada per ore, respirando polvere chimica per far crescere i pomodori. Forse per questo, in seguito, mi ritrovai ad accettare un lavoro nel quale la sofferenza aveva un aspetto piacevole. Per quattro anni consegnai sacche di siero alla gente senza documenti che si perdeva nel deserto. Percorsi le strade da Agua Prieta a Douglas, da Sonoyta a Lukeville, da Nogales a Nogales (affittavo una stanza in ciascuna delle due Nogales, come se vivessi in una città e nel suo riflesso). Entrai in contatto con polleros1, agenti della Migra,
1: Si tratta di persone che, in cambio di denaro, aiutano i messicani a varcare il confine con gli U.S.A. la polizia di frontiera statunitense, membri del Programa Paisano2. Non vidi mai la gente che raccoglieva le sacche di siero. Gli unici clandestini che incontrai erano stati arrestati. Tremavano sotto una coperta. Sembravano marziani. Forse solo i coyote bevevano il siero. La somma dei cadaveri recuperati nel deserto prese il nome di The Body Count. Fu il titolo che Jorge scelse per il film.


La solitudine ti mette una gran voglia di chiacchierare. Dopo aver guidato per dieci ore sputi le parole. «Essere un ex alcolista significa stordire di chiacchiere la gente», mi disse qualcuno agli A.A. Una notte, quando il telefono costa poco, chiamai mio fratello. Gli raccontai una faccenda che non mi dava pace. Stavo guidando su uno sterrato, quando i fanali illuminarono due sagome giallastre. Immigranti clandestini. Non sembravano marziani; sembravano zombie. Frenai e quelli alzarono le braccia come se stessi per arrestarli. Quando videro che ero disarmato, gridarono che li salvassi, per la Madonna e per l’amor di Dio. «Sono pazzi», pensai. Perdevano schiuma dalla bocca, si aggrappavano alla mia camicia, puzzavano di cartone marcio. «Sono già morti.» L’idea mi parve logica. Uno di loro implorò che lo portassi “dove ti pare”. L’altro chiese dell’acqua. Io non avevo con me la borraccia. Mi fece paura, o schifo o chissà cosa, viaggiare con degli immigranti disidratati e pazzi. Ma non potevo lasciarli così. Dissi loro che li avrei caricati dietro. Loro capirono sui sedili di dietro. Dovetti sprecare parecchie parole per spiegare che mi riferivo al cassone, al bagagliaio, il loro posto per il viaggio.
Dovevo arrivare a Phoenix all’alba. Quando le piante spinose graffiarono il cielo giallo, mi fermai per orinare. Non sentivo alcun rumore provenire da dietro. Pensai che quei due fossero asfissiati o morti di sete o di fame, ma non feci nulla. Tornai alla macchina.

2: Programma nato nel 1989 su iniziativa delle comunità messicana e messico-americana per migliorare il sistema di controllo di frontiera e combattere gli abusi subiti dagli immigranti messicani.
Arrivammo alla periferia di Phoenix. Fermai l’auto e mi feci il segno della croce. Quando aprii il portellone, la prima cosa che vidi furono dei vestiti macchiati di rosso. Poi sentii una risata. Al solo vedere le camicie schizzate di semi, mi ricordai che trasportavo tre angurie. Gli immigranti se le erano divorate come pazzi, con la buccia e tutto. Se ne andarono in preda a una felicità allucinata che mi produsse lo stesso malessere della possibilità di averli uccisi mentre cercavo di salvarli.
Fu questo ciò che raccontai a Jorge. Due giorni dopo chiamò per dirmi che avevamo una “storia grezza”. Non era abbastanza per un film, ma per impressionare un produttore sì. Mio fratello faceva affidamento sulla mia conoscenza dei passaggi illegali come dei corsi di scrittura per corrispondenza che avevo seguito prima di fare il camionista, quando sognavo di diventare corrispondente di guerra solo perché mi avrebbe consentito di andarmene lontano.
Per sei settimane sudammo uno davanti all’altro. Dal suo lato del tavolo, Jorge gridava: «I produttori sono degli stronzi, i registi sono degli stronzi, gli attori sono degli stronzi!». Scrivevamo per un manipolo di stronzi. Era il nostro vantaggio: senza che se ne rendessero conto, li avremmo obbligati a veicolare una verità scomoda. Questo Jorge lo chiamava “il fischietto di Chaplin”. C’è un film in cui Chaplin ingoia un fischietto che continua a suonare nel suo stomaco. Così sarebbe stata la nostra sceneggiatura, il fischietto che avremmo fatto ingoiare a quegli stronzi: avrebbe suonato dentro di loro senza che loro potessero farci niente.
Però io non riuscivo a costruire la storia, come se in tutte le parole ci fosse la ñ che s’incastrava nella tastiera. Allora Jorge parlò come anni prima aveva fatto nostro padre a quello stesso tavolo: quello che ci mancava era il senso di colpa. Eravamo troppo indifferenti. Per meritarci la storia, dovevamo fare una puttanata che ci rovinasse.
Andammo a un combattimento di cani e scommettemmo i duemila dollari dell’anticipo. Scegliemmo un cane con una cicatrice a ics sul lombo destro. Sembrava guercio. Poi scoprimmo che era la furia che gli faceva strizzare un occhio. Vincemmo seimila dollari. La fortuna era dalla nostra, pessima notizia per uno sceneggiatore, secondo Jorge.
Non so se lui prendesse qualche droga o delle pastiglie, sta di fatto che non dormiva. Se ne stava su un dondolo in veranda, guardando le piante di huizaches del deserto e i pollai abbandonati, con le forbici aperte sul petto. Il giorno successivo, mentre mescolavo il nescafé, mi gridava con occhi insonni: «Senza colpa non c’è storia!». Il problema, il mio problema, era che io ero già colpevole. Jorge non mi domandò mai cosa ci facessi su quelle strade sterrate a bordo di uno Spirit che non era mio, e a me non andava neppure di accennarlo.
Quando mio fratello lasciò Lucía, lei se ne andò con il primo cliente che si fermò a far benzina. Passò da un posto all’altro della frontiera, da un Jeff a un Bill e a un Kevin, finché non ci fu un tipo chiamato Gamaliel che le sembrò sufficientemente stabile (sposato con un’altra ma disposto a mantenerla). Non era un immigrante ma un “nuovo gringo”, figlio di hippies che cercavano i nomi sulle Bibbie degli immigranti. Lucía stessa mi mise al corrente. Di tanto in tanto parlavamo e lei si assicurava di avere i miei dati, anche se era come se sperasse di non doverli mai usare. Un’assicurazione nel nulla.
Un pomeriggio chiamò per chiedere un «favorone». Aveva bisogno di recapitare un pacchetto e io conoscevo bene le strade. Curiosamente, mi mandò in un posto in cui non ero mai stato, vicino a Various Ranches. Da quel momento in poi mi usò per smistare certi piccoli pacchetti. Mi disse che contenevano delle medicine che qui si potevano comprare senza ricetta e che dall’altra parte valevano molto, ma nel dirlo sorrise in modo strano, come se “medicine” fosse un codice per droga o soldi. Non aprii mai una busta. Fu il mio modo di essere leale con sotto la camicia, alle mani sottili, senza anelli, e a quegli occhi in cerca di aiuto.
Quando decidemmo di vendere la fattoria, tutti e sei i fratelli ci riunimmo per la prima volta dopo molto tempo. Discutemmo di prezzi e di stupidaggini pratiche. Fu in quell’occasione che Jorge prese a calci il ventilatore. Ci maledisse con frasi prese dalla Bibbia, parlò di lupi e agnelli, della tavola dove si prepara un posto per il nemico. Poi accese il ventilatore e ascoltò il rumore di ferraglia. Sorrise, come divertito. Il fratello che mi aiutava a sfilare i pantaloni dopo le sculacciate per sentire la fredda delizia del fiume, adesso si credeva un cineasta con meriti sufficienti per prendere a calci i ventilatori. Lo detestai, come non mi era mai capitato prima.
Quando Lucía mi chiamò di nuovo per ritirare una spedizione, non uscii da casa sua fino al giorno dopo. Le dissi che la mia macchina stava dando problemi. Mi prestò lo Spirit che le aveva regalato Gamaliel. Io volevo continuare ad avere tra le mani qualcosa di Lucía anche se la macchina era di un altro uomo. Per strada pensavo a questo, e decisi di dare un tocco personale allo Spirit. Mi fermai a comprare delle angurie.
Non rividi più Lucía. Riportai la macchina quando lei non era in casa e buttai le chiavi nella cassetta della posta. Sentii un sapore amaro in bocca, voglia di spaccare qualcosa. Di notte chiamai Jorge. Gli raccontai degli zombie e delle angurie.
Sei settimane dopo, dei segni blu circondavano gli occhi di mio fratello. Fece a pezzi i dollari che avevamo vinto ai combattimenti di cani, ma neanche così il senso di colpa giunse a stimolare la nostra creatività. Non so se l’idea gli fosse venuta ripensando ai castighi nella fattoria, inflitti da un padre fanaticamente religioso, o se furono le droghe della costa di Oaxaca ad aprirgli la mente in quel senso, quello è un campo in cui i rimorsi abbondano.
– Rapina una banca – gli dissi.
– Il crimine non va bene. Serve una colpa che non ci rimanga appiccicata per sempre.
Stavo per dirgli che ero andato a letto con Lucía, ma il trinciapollo era troppo vicino. Alcune ore più tardi, Jorge fumava una sigaretta storta. C’era odore di maria, ma non abbastanza da mitigare i miasmi dei polli. Guardò la macchia di umidità dove prima c’era stata l’immagine della Madonna. Poi mi raccontò che era ancora in contatto con Lucía. Lei aveva dei traffici modesti. Medicine di contrabbando. Era illegale, ma nessuno è mai finito dentro per aver smerciato delle medicine. Mi chiese se avevo qualcosa da dirgli. Per la prima volta pensai che la sceneggiatura fosse un montatura per obbligarmi a confessare. Uscii sulla veranda, senza dire una parola e vidi il Windstar. Possibile che il “produttore” fosse Gamaliel e che i dollari e il furgoncino fossero suoi? Jorge era il suo messaggero? Portava a casa nostra la gelosia di un altro? Poteva essersi degradato in maniera così deliberata?
Tornai alla mia sedia e scrissi senza fermarmi, tutta la notte. Esagerai i miei incontri erotici con Lucía. In quella confessione indiretta, mi sarei potuto nascondere dietro la sfacciataggine. Il mio personaggio assunse i difetti di un perfetto figlio di puttana. Se il personaggio si fosse comportato da debole, come me, a Jorge avrebbe dato fastidio, ma non gli sarebbe mai venuto in mente che un personaggio così grandioso nella sua infamia potessi essere io. Il giorno dopo, The Body Count era finito. Senza ñ, ma finito.
– Puoi sempre confidare in un ex alcolista per soddisfare un vizio – mi disse. Non seppi se si riferiva al suo vizio di convertire la colpa in cinema o a quello di placare la gelosia altrui.
Jorge fece dei tagli alla sceneggiatura con il trinciapollo. Il più significativo fu il mio nome. Lui guadagnò abbastanza con The Body Count, ma non fu che un successo modesto. Nessuno sentì il fischietto di Chaplin.
Per quanto mi riguarda, qualcosa mi trattenne alla macchina da scrivere, forse una frase di mio fratello nella sua ultima notte alla fattoria:
– La cicatrice è sull’altra caviglia.
Ero andato a letto con Lucía ma non ricordavo la posizione della sua cicatrice. Il mio rifugio era immaginare le cose. Era questo il vizio a cui si riferiva Jorge? Avrei continuato a scrivere. Quella notte mi limitai a dire:
– Scusa, scusami.
Non so se piansi. Il mio viso era bagnato di sudore o di lacrime che non sentii. Mi facevano male gli occhi. La notte si apriva davanti a noi, come quando eravamo bambini e salivamo sul tetto a esprimere desideri. Una luce solcò il cielo.
– 12 agosto – disse Jorge.

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