domenica 12 settembre 2010

IL SENSO COMUNE DEL DOLORE SUPERA I CONFINI

  Mario Porro -

9/9/2010

Gli ideali di François Jullien
Un ritratto del grande sinologo francese, che domenica pomeriggio incontrerà il suo pubblico a Mantova, dove si è appena inaugurato il «Festivaletteratura». Gli scarti fra le culture - sostiene da sempre Jullien - costituiscono preziose risorse del pensiero, perché forniscono prese differenti sull'impensato: è solo la pluralità delle lingue, dunque il fatto di essere abitanti di Babele, che consente e incoraggia la nostra fecondità concettuale.

Sulla scia di Husserl la filosofia del Novecento non ha smesso di interrogarsi sull'origine della geometria. Come è stato possibile, si sono chiesti Jacques Derrida e Michel Serres, acquisire verità che diciamo universali e necessarie muovendo da una storia particolare, quella del pensiero greco? Kant poteva ancora credere che la mente fosse dotata di forme a priori come lo spazio e il tempo, o le categorie dell'intelletto (ad esempio la causalità), comuni ad ogni uomo. Ma in realtà (lo abbiamo appreso dall'antropologia culturale) la razionalità dell'Occidente non trova corrispondenza in altre civiltà, non soltanto in quelle senza scrittura che un tempo dicevamo «primitive», ma neppure in una civiltà come quella cinese, che si è sviluppata in modo del tutto estraneo al mondo europeo. È da questo nodo che muove L'universale e il comune. Il dialogo tra culture (trad. di Bernardo Piccioni Fioroni e Alessandro De Michele, Laterza, pp. 190, euro 18.00), ultimo approdo del faccia a faccia ormai più che ventennale cui François Jullien ha sottoposto il pensiero dell'Occidente e la saggezza della Cina.


Il nodo affrontato non è di natura solamente teorica, perché attorno ad esso si gioca la prospettiva politica di tenere vivo un «dialogo fra le culture», questione tanto più urgente nel tempo in cui la globalizzazione diffonde il suo frutto avvelenato, quel duplicato corrotto dell'universale che è la piattezza sterile dell'uniforme. Finiamo allora per credere che l'unica forma di resistenza alla standardizzazione dei modi di vita stia nella difesa delle differenze, magari fino alla chiusura identitaria nei propri idiotismi, cioè letteralmente nel particolare.

L'invenzione dell'ideale
Alla «costruzione» del concetto di «universale» in Occidente il contributo maggiore lo ha dato il logos greco: in cerca di una verità stabile, che sia comune a tutti, Socrate chiede una definizione universale che, abbandonando il singolare della sensazione, colga la forma che permane identica (il Bello che si mostra in tutte le cose belle) e che Platone fa abitare in un mondo delle Idee. L'universalità è conquistata grazie all'operazione tipica della filosofia, quella che l'ha distinta dalla saggezza, cioè l'astrazione; il piano del sensibile e dell'opinione viene così separato da quello della verità e del concetto, altra forma del dualismo fra il corpo e l'anima, fra la materia e lo spirito, che altre civiltà, quella cinese in primis, non hanno conosciuto. Questo scarto fra l'Occidente e la Cina è al centro di uno degli ultimi lavori di Jullien, L'invenzione dell'ideale e il destino dell'Europa (Seuil); il gesto platonico di costruzione di un piano trascendente traccia la piega che avrebbe orientato la nostra cultura, in cerca di ideali e valori che siano riferimento per le aspirazioni del desiderio e modelli su cui fissare lo sguardo per trasformare la realtà.

Con la civiltà romana la nozione di universale scende sulla terra: la condivisione della cittadinanza evita il pericolo che assilla ogni comunità, quello di farsi esclusiva, in quanto la romanità non deriva né dal suolo né dal sangue, ma si sovrappone alla patria geografica in cui si è nati. All'universalità civica san Paolo sostituisce quella dell'amore: affrancandosi da ogni appartenenza e divisione, il messaggio cristiano chiede solo l'adesione volontaria della fede, per cui «tutti sono uno in Cristo». Quando la Chiesa cattolica (cioè universale) torna a far incontrare l'universale e il comune, non lo fa più però secondo lo spirito sincretistico di Roma: assegna a se stessa la missione di esportare la verità assoluta di cui si dice detentrice. Presentandosi come incarnazione della razionalità tecnico-scientifica ed insieme di quei valori «universali» che ha costruito nel corso della sua storia particolare, la civiltà occidentale ha fatto propria questa vocazione a guidare l'umanità in cammino. Ma l'universale è universale? domanda Jullien? Esiste una questione dell'universale nelle altre culture? L'esigenza della conversione, non solo religiosa, è propria della storia europea; né l'India né l'Islam hanno compiuto il gesto europeo per eccellenza, quello di attribuire alle norme morali (in virtù del carattere universalizzante dell'amore o della Ragione) la necessità razionale della logica. Neppure la Cina ha conosciuto un universalismo logico: per la tradizione confuciana non si tratta di accedere ad un piano di essenze, ma di cogliere la globalità della via, il tao, che attraversa la molteplicità delle cose, facendole comunicare dall'interno. Quando Kant, sulla scia di Aristotele, enumera le categorie che sarebbero identiche sotto tutte le latitudini, rimane in realtà nel solco che la lingua greca ha fatto assumere alle rive del pensiero. La nostra logica è legata all'ontologia: nasce dalla domanda socratica «che cos'è?», interroga il mondo nella prospettiva dell'Essere; quella cinese invece, anche per la struttura della lingua, esprime il flusso, la transizione continua che si propaga. Ogni realtà è pensata come processo regolato dall'interazione fra poli opposti: già il termine «cosa» si dice in cinese con un'espressione che corrisponde a «est-ovest». La Cina è così passata accanto alla nozione di verità che ha ossessionato la filosofia e la teologia; ha pensato semmai l'adeguatezza al momento, la congruenza rispetto al corso del mondo. E analogamente non ha costruito la nozione di un tempo omogeneo e astratto (che Kant diceva a priori), ha pensato la stagione e la durata, il costante ma non l'eterno. Non ha avuto in tal senso neppure bisogno di un Dio che creasse dal nulla: il suo vuoto infatti non equivale al non-essere ma è un vuoto funzionale, come quello al centro dell'assale che fa muovere le ruote del carro. Il Cielo confuciano non è un aldilà trascendente ma è il corso globale del processo, la sua piena regolazione; e il suo spirito non è il contrario della materia ma l'affinamento del concreto fino al livello del sottile.

Una ragionevole apologia dei diritti
Proprio questi scarti (e non differenze) rivelano l'assenza di invarianti trans-culturali, ma ciò non deve indurci al relativismo pigro che, col pretesto dell'incomunicabilità fra culture, porta sostegno ai teorici conservatori di un futuro scontro di civiltà. Il concetto di universale continua ad essere proficuo e lo testimonia la questione dei diritti umani, di cui Jullien intraprende una «ragionevole apologia». Nel preambolo alla Dichiarazione universale del 1948 i diritti umani sono proposti come «ideale comune che tutti gli uomini devono raggiungere», formula che conserva l'ambiguità tra la prescrizione formale e l'esigenza della condivisione e si richiama alla nozione, tipicamente europea, di «ideale».

I diritti umani restano segnati dalla specifica storia intellettuale dell'Occidente, dalle dottrine dell'età moderna: presuppongono l'astrazione di un individuo isolato, senza gerarchie sociali e separato dalla natura, un'astrazione del tutto sconosciuta, ad esempio, alla cultura indiana che ignora la rigida distinzione dell'uomo dal mondo animale. Ma quando l'Occidente si è creduto ambasciatore degli interessi universali dell'umanità, ha trasformato i diritti umani in ideologia: il locale che esso rappresentava si è gonfiato a dismisura per farsi globale. L'universale è però l'arma che si rivolta contro chi pretende di detenerla: la sua fecondità si conserva solo in funzione negativa, come istanza sovversiva, di emancipazione. Non a caso è ad esso che si sono riferiti, anche al di fuori dell'Occidente, i movimenti di liberazione, quanti hanno lottato e lottano contro l'oppressione, come i giovani di piazza Tian'an Men, o quanti denunciano lo sfruttamento del lavoro minorile, principio, anche questo, che è stato l'Occidente a promuovere e non da molto tempo. Proprio la loro astrazione li rende, secondo Jullien, comunicabili ad altre culture e ne fa uno strumento, non per insegnare con arroganza al mondo come vivere, ma per protestare e dire di no. Più che universali, i diritti andrebbero detti universalizzanti, per indicare che non sono mai dati in proprietà, sono sempre in cammino, costituiscono un principio regolatore verso cui tendere.

Jullien dice di essere giunto all'idea di «universalizzante» riflettendo sul passo di un classico del pensiero cinese, il Mencio: chi, stando accanto ad un bambino sul punto di cadere in un pozzo, non allungasse spontaneamente la mano per trattenerlo, non sarebbe uomo. È appunto «il senso comune dell'umano» a rivelarsi in questa reazione che sorge spontanea di fronte al dolore. Come osservava quello che si può considerare il comparatista, Schopenhauer, nel dolore le diverse culture si congiungono al di là delle opzioni culturali e religiose. È a questo senso comune che possiamo affidarci per rendere possibile la comunicazione fra culture, per trovare uno spazio condiviso, nel rifiuto di ciò che l'assenza dei diritti umani rende intollerabile.

Nella tradizione del dialogo
Non si tratta di cercare una razionalità a tutti comune, magari quella implicita nelle norme della discussione, come vuole l'etica della comunicazione teorizzata da Apel e Habermas; anch'essa sorge infatti sui presupposti tipici dell'Occidente, resta interna a quel protocollo dialogico che abbiamo ereditato dai Greci, dove discorsi opposti si combattono sul modello dell'agon, dello scontro in battaglia fra truppe schierate che le strategie militari cinesi si sono ben guardate dall'auspicare. La parola confuciana non rispetta le nostre regole dell'argomentazione, non ha pretesa di verità ma incita, fornisce stimoli per mettere sulla via: le parole possono allora variare fino alla contraddizione, a seconda del momento. In quelli che impropriamente chiamiamo Dialoghi di Confucio non si finge una parità fra gli interlocutori, come nei dialoghi socratici, e nemmeno si punta a generare una convinzione, cioè letteralmente a vincere insieme.

Ma anche all'idea di dialogo - argomenta Jullien - non possiamo rinunciare; va certo ripensata per farla uscire dal suo tranquillizzante irenismo di buoni propositi e dalla sua retorica sospetta. Logos dice la comunicabilità di principio fra le culture, il fondo di intesa fra le loro forme di intelligibilità; l'unico a priori da riconoscere è proprio il carattere comune dell'intelligibile, cioè il fatto che ogni cultura costruisce le sue forme di coerenza, tiene letteralmente insieme la propria realtà. Ma il dia- deve tenere vivo lo scarto, il negativo, che si svela nell'impossibilità di traduzione immediata di un'altra lingua; solo traducendo l'altro possiamo prendere distanza dalla nostra cultura e grazie allo «spaesamento» sondare le scelte implicite, assimilate come principi incontestabili ed evidenti, da cui le nostre concezioni sono sorte. È a partire infatti da questi impensati, trasmessi attraverso la lingua, che ci interroghiamo: non ci poniamo mai domande prime, ma sempre domande già inserite nelle piega della nostra cultura. Gli scarti fra le culture costituiscono risorse del pensiero perché forniscono prese differenti sull'impensato: è solo la pluralità delle lingue, l'essere abitanti di Babele, che consente al pensiero di restare fecondo.

Il manifesto   9/9/2010
© Mario Porro

 
 

 

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