sabato 11 settembre 2010

Perché bisogna imparare dall’Asia

   François Jullien -

01/04/2010

Perché bisogna imparare dall’Asia

Sono trent´anni che François Jullien fa dialogare la cultura occidentale e quella orientale, lavorando sullo "scarto" esistente tra filosofia europea e pensiero cinese, usando quest´ultimo come uno strumento «per rimettere in moto la nostra filosofia, sottraendola alla pigrizia e al conformismo, nel tentativo di elaborare concetti utilizzabili anche al di fuori dell´ambito filosofico».






Tale progetto è esplicitato apertamente nelle pagine del suo ultimo libro, Le trasformazioni silenziose (traduzione di Mario Porro, Raffaello Cortina, pagg.145, 13 euro), un saggio denso e affascinante nel quale il filosofo e sinologo francese mostra come la nostra cultura sia incapace di cogliere quei cambiamenti impercettibili, lenti e regolari, che trasformano radicalmente il reale quasi a nostra insaputa. 

«La realtà è fatta di maturazioni silenziose, di trasformazioni continue e globali che però, anche se ci stanno davanti agli occhi, noi non riusciamo a vedere»,
spiega lo studioso già noto in Italia per opere come Figure dell´immanenza, Parlare senza parole e Pensare l´efficacia in Cina e in Occidente. 

«Sono evoluzioni che non riusciamo a percepire, accorgendocene purtroppo solo alla fine, e spesso in modo brutale, quando la trasformazione è ormai avvenuta. Il risultato allora ci sorprende e spesso ci spaventa. Ma se siamo ciechi di fronte a questi cambiamenti striscianti, è perché il pensiero occidentale è incapace di pensarli. La cultura cinese invece è sempre stata molto sensibile alle trasformazioni silenziose».

Può fare qualche esempio?
«L´invecchiamento: un processo lento, impercettibile e globale, a cui però non facciamo caso. Invecchiamo senza accorgercene. Poi un giorno all´improvviso, rimaniamo sorpresi di fronte a una vecchia foto, rendendoci conto dei cambiamenti avvenuti senza che ce ne rendessimo conto. Anche il riscaldamento climatico del pianeta è un fenomeno globale e silenzioso di cui cogliamo la realtà solo quando è troppo tardi, al momento di avvenimenti drammatici che ne sono il risultato. Naturalmente, il concetto di trasformazione silenziosa funziona anche in ambito storico, dove ad esempio, le rivoluzioni sono sempre il risultato clamoroso di una lente e invisibile evoluzione che a poco a poco ha creato le condizioni dell´esplosione rivoluzionaria».

Perché la cultura occidentale è incapace di cogliere tali trasformazioni?
«Fin dai tempi della filosofia greca, tutto il pensiero occidentale è rimasto prigioniero dell´essere e dell´ontologia, considerando il reale composto da essenze immobili, come ad esempio le idee platoniche. Più un´entità è determinata, più essa è. La trasformazione silenziosa è invece sempre in movimento, rimanda a una realtà fluida e indeterminata, dove ciò che è contemporaneamente è già anche qualcos´altro. Essa rimette in discussione il principio d´identità e il principio di non contraddizione, due cardini dell´ontologia occidentale. Di conseguenza, è inconcepibile per il pensiero occidentale che è incapace di pensare la transizione».

Eppure anche il pensiero occidentale ha dovuto confrontarsi con il divenire...
«Lo ha fatto, immaginando il tempo come scena del divenire e riempiendola poi di eventi che sono diventati il dato cardinale della nostra percezione del reale. L´evento suscita pathos e aiuta a narrare. Ed è proprio perché la sua percezione si colloca sul piano della drammaticità emotiva, che gli eventi sono sempre stati al centro delle grandi narrazioni. Oggi il luogo privilegiato della liturgia dell´evento sono i media, che consumano eventi in continuazione per ottenere ascolti. Il loro scopo non è tanto l´informazione, quanto il montaggio teatrale del patetico a partire da una sequenza di avvenimenti. L´insorgere imprevisto e drammatico di un evento è quanto di meglio ci possa essere per conquistare il pubblico sul piano emotivo. È evidente che questo modo di affrontare la realtà è incapace d´interessarsi alle trasformazioni silenziose».

Che invece svolgono un ruolo importante nella cultura cinese.
«Certo. Spesso sono anche il frutto di una strategia cosciente. Per i cinesi sono la via maestra per realizzare un progetto politico. Si pensi alla demaoizzazione del paese realizzata senza strappi e rotture significative, ma solo attraverso cambiamenti quasi impercettibili e continui. Trentacinque anni dopo la morte di Mao, la Cina si ritrova lontanissima dal maoismo senza che ci siano state accelerazioni drammatiche tali da suscitare un rifiuto di tale evoluzione. Lo stratega, in Cina, non è un eroe che compie azioni sorprendenti, ma colui che trasforma silenziosamente una situazione, favorendo un´evoluzione senza che nessuno quasi se ne accorga. Alla fine, i risultati diventano evidenti a tutti, decretando la sua vittoria. La strategia cinese però non tiene conto di un elemento decisivo, vale a dire la capacità di opporsi e di confrontarsi apertamente. In questo modo dissolve le possibilità dell´opposizione frontale».

Il gioco del Go è un esempio del modo cinese d´intervenire sulla realtà?
«Gli scacchi sono un gioco frontale; il Go invece non è frontale, agisce per linee di forza che progressivamente bloccano e sfiniscono l´avversario. E il pensiero cinese evita lo scontro frontale».

È un bene, secondo lei?
«Non è detto che sia meglio, dato che nello scontro c´è sempre un dato positivo, vale a dire il lavoro del negativo. La forza del pensiero europeo è proprio quella di aver fatto emergere la figura del negativo, che sul piano politico è strettamente legata alla democrazia e al dibattito delle idee. In Cina, il pensiero dell´armonia e della trasformazione impercettibile tende a dissolvere la negatività».

Quali sono le trasformazioni silenziose che oggi le sembrano in atto?
«Si parla molto della crisi economica, che però, secondo me, è solo il risultato drammaticamente evidente della trasformazione silenziosa che negli anni scorsi ha favorito il progressivo passaggio del potenziale economico dall´Occidente all´Oriente, dagli Stati Uniti alla Cina. Un´altra trasformazione in corso, di cui spesso non si ha coscienza, è quella che riguarda il progressivo restringimento degli spazi di cultura in Europa, dove la cultura mediatica sta progressivamente sostituendo la cultura di qualità. Pur non volendo fare troppo la Cassandra, credo che sia giusto mettere in guardia contro questa vera e propria recessione intellettuale che riduce progressivamente le possibilità della cultura di qualità. È una trasformazione silenziosa, di cui dobbiamo avere coscienza per provare a organizzare forme di resistenza e strategie in grado d´interrompere tale processo».

La repubblica  1/4/2010
© François Jullien

 

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