sabato 18 settembre 2010

precipitando nel presente ( ii / iv)

  Alessandro Corio

precipitando nel presente
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Liminalità, marginalità e controcultura nelle forme contemporanee dell’identità diasporica

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Ciò rivela l’aspetto fondamentale di performatività dell’identità culturale, ossia il passaggio epistemologico dall’illusione essenzialista (identità = essenza originaria) ad una visione politica (identità = istanza sociale) che mostra pienamente quanto il discorso sull’identità sia intrecciato alle dinamiche sociali e alle rivendicazioni politiche che si affrontano nello spazio pubblico. Ci troviamo subito di fronte a quello che potremmo definire come "il paradosso identitario", che consiste nel movimento di senso contrario a quello appena delineato: per quanto sia palese e generante l’elemento performativo dell’identità e della cultura, esso tende, proprio in seguito alle dinamiche conflittuali che lo generano, a camuffarsi dietro maschere di "autenticità" e di "sostanzialità" che ne legittimino le rivendicazioni nell’ambito dello spazio pubblico. Si tratta di un movimento del tipo: identità = istanza sociale-performativa > identità = essenza originaria. Qual è l’effetto di tale movimento?

Questo rende la "cultura" uno dei principali concetti, afferma van Binsbergen, che forniscono autorità e legittimità [empowering concept] agli attori politici dei nostri tempi, all’interno dell’arena pubblica a livello locale, nazionale e globale. Ciò che rende estremamente desiderabile un tale concetto di "cultura" è sostanzialmente la sua capacità di comprendere e camuffare contraddizioni. 26
[Van Binsbergen]


Il "vantaggio" dell’identità culturale rispetto ad altre forme di costruzione identitaria starebbe proprio nella sua "propensione olistica" a riassorbire le contraddizioni tra i vari aspetti dell’individuo e a stabilire una sorta di gerarchia interna delle sue molteplici componenti identitarie, relegandole ad uno stato di secondarietà, inessenzialità ed invisibilità, ed affermando invece l’identità culturale/etnica/nazionale come l’essenza più profonda di una persona. Si viene pertanto a creare una "totalità di senso" organica capace di conferire significato e ordine anche al mondo circostante in cui l’individuo si trova ad agire. Gli attori sociali sono così portati a rappresentare/arsi tale costruzione non come una creazione umana deliberata di qualcosa che prima non c’era, ma come una mera presa di consapevolezza di qualcosa che ipoteticamente sarebbe da sempre l’intima e profonda essenza di un individuo. Secondo van Binsbergen, questo tratto affermativo rappresenta una delle caratteristiche fondamentali dell’esperienza postmoderna nell’era della globalizzazione, segnata dall’incertezza, dalla frammentazione e dalla fine delle grandi narrazioni che costruivano il senso in epoca moderna:

La "cultura", come termine universalmente accettato nella società nord-atlantica, è un meccanismo di pensiero che serve a metabolizzare in termini soggettivi la frammentazione, la disintegrazione e la performatività della esperienza moderna in qualcosa di unitario, coerente e autentico. Dunque, in qualche modo, viene salvata l'illusione dell'autoevidenza e dell'integrità anche nell'epoca postmoderna, nella quale ognuno riconosce che nulla più è autoevidente e nulla possiede la caratteristica dell'integrità. 27
[Van Binsbergen]
Questi meccanismi non interessano, come vedremo, soltanto la società nord-atlantica e non sono mero appannaggio della cosiddetta era post-moderna. In particolare, sono proprio le politiche post-coloniali e le rielaborazioni-appropriazioni locali dei flussi materiali e simbolici transnazionali a dare nuovo vigore, in forme tra loro differenti, alle costruzioni identitarie. L’analisi qui operata sulla "dissimulazione della performatività" e sulla creazione di "differenze culturali assolute" rappresenta comunque un nodo centrale della questione e pone chiaramente in evidenza i rischi e le derive di un eccessivo relativismo culturale.
Tanto l’antropologia culturale, soprattutto nei suoi approcci relativisti e discontinuisti, quanto la filosofia interculturale, hanno assunto come presupposto una visione del mondo come "multiverso di culture", facendo proprio l’intero bagaglio semantico del termine "cultura" come "concetto pre-scientifico della società", fondandosi quindi sull’illusione della comunicazione che attraversi i confini culturali. Quest’approccio non rischia soltanto di essere superficiale, bensì di rafforzare quei meccanismi ideologici connessi alle pratiche del potere, che dovrebbe invece scardinare: >
[…] i filosofi sogliono ricavare i loro indizi a partire da un concetto di "cultura" olistico per natura, assumendo un'identità culturale dell'esistenza opposta a qualsiasi forma di performatività; questa idea coincide con il concetto di "cultura" accettato dalla società, il quale, a causa delle sue contraddizioni strutturali, è direttamente collegato alle relazioni di potere sociale e alle mistificazioni ideologiche. In questo modo il filosofo rischia di diventare il portavoce asservito alla sua società, proprio nel momento in cui cerca di pensare altrimenti rispetto a una definita struttura sociale, applicando una prospettiva comparativa. 28
[Van Binsbergen]
L’esperienza centrale del mondo contemporaneo, afferma van Binsbergen, consiste invece nella relazione tra una pluralità complessa di interazioni (intermeshing plurality) nei confronti della quale il concetto tradizionale di "cultura" risulta assolutamente privo di valore euristico. Compito primo di una filosofia interculturale sarebbe quindi quello di creare nuovi concetti e neologismi che siano applicabili a questa complessità e che siano soprattutto in grado di scardinare l’egemonia di due grandi strategie di pensiero, l’universalismo (la riduzione dell’altro al medesimo) e il relativismo (la concezione dell’alterità come differenza assoluta e irrisolvibile) che supportano, nel nuovo ordine globale, l’egemonia delle società nord-atlantiche. Egli propone quindi, innanzitutto, di sostituire il termine "cultura/e", del quale abbiamo sottolineato la matrice olistica e sostanzialista, con l’espressione "orientamenti culturali", in modo tale da sottolineare maggiormente le dinamiche processuali, non esclusiviste, molteplici, situate e performative dell’identità. Il soggetto post-moderno sarebbe quindi caratterizzato da una pluralità di orientamenti culturali tra i quali non esistono connessioni sistemiche, un soggetto frammentato e caleidoscopico che, egli afferma, forse non esiste nemmeno più in quanto soggetto. La società e l’individuo si articolano così in una conflittualità di campi semantici "disseminati" che non possono essere racchiusi in una concezione sistematica ed olistica della "cultura".
Questa riflessione teorica non sposta pertanto il paradosso centrale del discorso identitario: per quanto sul piano epistemologico sia chiaro che l’identità culturale è un’illusione, un’invenzione e una costruzione, d’altro canto non possiamo sottrarci all’evidenza di come questa categoria venga sempre più utilizzata dagli attori sociali, arrivando a produrre effetti a volte "terribilmente reali". Non possiamo quindi ignorare la caratteristica di virtualità dell’identità culturale, cioè il suo essere irreale quanto all’esistenza, ma reale quanto agli effetti. Compito dell’intellettuale, in questo contesto, sarà di decostruire le strutture semantiche e le implicazioni politiche di questa "reificazione delle culture", nella speranza che questa decostruzione critica possa "fare breccia all’interno della società". Questa decostruzione implica un altro postulato, deducibile dal discorso sin qui fatto: non è tanto la differenza tra specifici orientamenti culturali che rende possibile la comunicazione interculturale (posizione che ci ricondurrebbe al presupposto dell’originaria esistenza di culture separate), ma, al contrario, è la comunicazione stessa, continuamente in atto tra gli attori sociali, siano essi individui o gruppi, a produrre le posizioni della differenza culturale. "Una tale visione", afferma van Binsbergen, "è perfettamente in linea con l’uso performativo e strategico della rivendicazione della differenza culturale nel contesto di una società multiculturale"29, spingendoci verso quella che, con Paul Gilroy, potremmo definire una nuova "ecologia sociale dell’identità culturale".
L’analisi e la decostruzione dell’autoevidenza della "cultura" operata da van Binsbergen conduce quindi ad un salutare ribaltamento di prospettive che ci permette di affrontare il tema dell’identità partendo da presupposti nuovi. Questa visione è per molti aspetti in linea con quella delineata da Remotti nel suo libro Contro l’identità30, dove egli rintraccia, forse con un eccessivo schematismo, una sorta di "fenomenologia" dei processi identitari.
La costruzione dell’identità si articola, secondo Remotti, all’interno di un paesaggio che si compone, con una forzatura un po’ hegeliana, di tre elementi. Egli parte dal presupposto, già evidenziato, secondo cui l’identità non inerisce all’essenza di un oggetto, ma dipende invece dalle nostre decisioni. Essa viene sempre, in qualche modo, costruita o inventata. Occorre quindi abbandonare qualunque visione essenzialista (di stampo aristotelico) dell’identità, secondo cui essa esisterebbe "a priori" e dovrebbe solo essere "scoperta", per concentrarsi invece sui modi diversi di organizzare e di decidere l’identità. La sua costruzione si basa quindi su due operazioni diametralmente opposte che, tuttavia, si richiamano l’una con l’altra: a) un’operazione di separazione; b) un’operazione di assimilazione.
Queste due operazioni vengono attuate dagli attori sociali agendo su tre livelli sovrapposti: il livello più basso (A) è caratterizzato dal flusso e dal mutamento "continuo, oscuro e magmatico" e privo di struttura che è alla base delle realtà naturali e sociali; un secondo livello intermedio (B) è quello delle connessioni, che è caratterizzato dalle potenzialità, ovvero da elementi alternativi; il terzo livello (C) che si sovrappone ai primi due è quello delle costruzioni dell’identità. "Proprio in quanto costruzione", afferma Remotti, "l’identità si presenta come una riduzione drastica rispetto alle possibilità di connessione e come un irrigidimento massiccio rispetto all’inevitabilità del flusso. In quanto prodotto di uno sforzo di differenziazione, essa comporta anche una forza, un potere e in qualche modo l’esercizio di una violenza: si strappano legami, si interrompono connessioni per dar luogo alle costruzioni dell’identità".31 L’identità si presenta dunque come un processo artificiale fondato su classificazioni e separazioni messe in atto, a livello individuale e collettivo, allo scopo di costruire un ordine ed un senso all’agire umano. Per dirla parafrasando Lévi-Strauss, le identità sono "buone da pensare".
Quello che Remotti, a nostro giudizio, non prende in considerazione sono le istanze di "potere oggettivante", quasi sempre controllate e manipolate "biopoliticamente" dai gruppi dominanti, che mettono in atto tali processi di separazione e di purificazione e che non possono essere ignorate, come vedremo nel caso della critica post-coloniale, da un approccio militante che prenda in considerazione le logiche politiche, economiche e culturali del capitalismo globale. Al contrario, uscendo dal guscio del ragionamento astratto e rivolgendoci ai concreti processi politico-culturali, l’identità appare il più delle volte contraddistinta da caratteristiche di ambivalenza e di ambiguità, che mostrano chiaramente come una qualsiasi forma identitaria possa mantenere la propria vitalità solo in continuo scambio con l’alterità, percorrendo territori liminali ed attraversando/riplasmando in continuazione i propri confini.
Risulta significativo, a questo proposito, il riferimento al rituale di iniziazione presso gli Ndembu, studiato dall’antropologo inglese Victor Turner in The Forest of Symbols. Aspects of Ndembu Ritual 32 del 1967. Come già aveva posto in evidenza Van Gennep 33 , nel suo studio classico sui "riti di passaggio", il momento culminante del processo di iniziazione, attraverso il quale l’individuo entra pienamente a far parte della comunità acquisendo un’identità sociale strutturata, è costituito dalla fase della liminalità, ossia del contatto con la "non-struttura". Si definiscono "liminali", secondo Turner, quegli individui che all’interno di un gruppo, in un determinato momento della loro vita sociale ed in particolare durante i riti di passaggio, quali l’iniziazione o la pubertà, escono da qualsiasi statuto sociale, non essendo più dotati di un’identità ben definita. In certi casi questa condizione di liminalità può addirittura diventare definitiva e ridefinire l’individuo come un personaggio allo stesso tempo marginale e "mediano" (come ad esempio lo sciamano) di cui il gruppo ha bisogno per costituirsi in comunità. I giovani che devono sottoporsi alla circoncisione devono necessariamente passare attraverso una fase di "riflessione" e di "discussione" e vengono allontanati dalla loro società proprio allo scopo di meditare sulle sue strutture. La meditazione sulla propria identità passa quindi necessariamente attraverso un contatto, anche se mediato ritualmente, con l’alterità, col mondo delle possibilità e delle alternative. Il rituale di iniziazione Ndembu richiede quindi ai propri candidati non solo di riflettere sulle strutture e i significati della propria identità, ma anche sulle possibilità alternative e quindi sull’alterità. Come afferma Remotti:
[…] è come se il mukanda Ndembu si prefiggesse di dare luogo a costruzioni dell’identità (C) attraverso la percezione (questa sì davvero approfondita) di una molteplicità di connessioni, di potenzialità, di alternative (B), considerando insomma B come condizione preliminare ed indispensabile di C. […] Proprio in quanto "liminarità", la circoncisione ndembu contiene una forte componente "anti-strutturale", la quale non può non essere anche "anti-identitaria" (riflessiva, connessionista, possibilista, pluralista). 34
[ F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, 1997]
L’attraversamento della soglia, del limen, e la relazione con l’alterità si delineano progressivamente come momenti fondamentali nel costituirsi di un’identità. Questo elemento, che potrebbe apparire come secondario e strumentale alla semplice costruzione dell’identità, si rivelerà, come vedremo nei prossimi paragrafi, fondamentale nei processi di ibridazione e di diaspora descritti dai transiti post-coloniali e nelle genealogie alternative dell’identità culturale che si oppongono alle logiche razziste ed esclusiviste messe in atto dagli Stati-nazione ed alle nuove strategie di controllo e di condizionamento biopolitico delle società attuate dall’imperialismo neoliberista.
"In quanto tale lo straniero, uomo o donna che sia, è una figura emblematica che attira la nostra attenzione sulle urgenze del nostro tempo: una presenza che mette in discussione il nostro presente. Lo straniero minaccia la classificazione binaria messa in opera nella costruzione dell’ordine e ci introduce all’arcano spostamento della ambiguità. Lo straniero, fantasma che adombra ogni discorso, è l’interrogazione allarmante, l’estraniazione che esiste in potenza dentro ciascuno di noi. E’ una presenza persistente, incancellabile, che mi attira fuori da me stesso verso l’altro".35 Così afferma Iain Chambers, uno dei maggiori critici postcoloniali, nell’introduzione di Paesaggi Migratori, un’importante saggio che delinea le prospettive teoriche derivanti da uno spaesamento/decentramento delle basi epistemologiche del pensiero umanista eurocentrico. Questa dislocazione è indotta dallo spostamento delle coordinate semiotiche tradizionali che, almeno fino a poco tempo fa, rappresentavano il mondo attraverso una dialettica oppositiva di suddivisione tra Centro e Periferia, Nord e Sud, Occidente ed Oriente.
Questa rigido dualismo di identità e alterità era una costruzione discorsiva prodotta in buona parte dalla dialettica del colonialismo, che ne legittimava le strutture di potere, di oppressione, di razzismo e di alienazione dell’identità dell’altro. La costruzione colonialista delle identità come alterità radicali contribuisce, come aveva già chiaramente denunciato Franz Fanon in Peau noire, masques blanches36, all’espulsione del colonizzato oltre i confini che definiscono i valori della civiltà europea e presuppone quindi la rigidità degli stessi confini che dividono la metropoli dalla colonia, il centro dalle periferie.37 Oggi il Terzo Mondo non è più tenuto a distanza, laggiù, ma ricompare qui, emergendo al centro delle nostre vite quotidiane, nelle città e nei processi culturali del "mondo avanzato". Questo produce una frattura, un’interruzione, uno spaesamento dei nostri codici interpretativi, attraversandoli e decostruendoli attraverso uno sguardo obliquo:
Stipato sotto la cupola bianca del Sacro Cuore di Montmartre e il profilo distante della Tour Eiffel c’è Barbès. I treni bianchi e celesti del métro passano accanto al boulevard de la Chapelle, oltre il mercato del sabato mattina dove la lingua predominante è l’arabo. I banchi sono pieni di verdure fresche (mango, banane verdi, patate dolci), pesce, sacchi di cous-cous, montagne di menta. L’abbigliamento è per lo più un misto di maschio urbano – jeans e camicia aperta – e di abiti e turbanti variopinti dell’Africa occidentale.38
[Iain Chambers, passaggi migratori]
Paesaggi meticci come quello descritto da Chambers, trovano sempre più spesso il loro posto nelle metropoli contemporanee dell’Occidente e non solo. Sotto il peso di questa complessità crollano quegli stereotipi la cui "fissità", come afferma Bhabha39, era uno dei tratti fondamentali nella costruzione ideologica dell’alterità da parte del discorso coloniale. I processi di deterritorializzazione e di ibridazione che caratterizzano le nostre società hanno prodotto come conseguenza una significativa riflessione della critica postmoderna di fronte al "restringersi della ragione europea", che un tempo pretendeva di parlare a nome di tutti e che oggi si ritrova spaesata di fronte alla vasta diversità culturale e storica che si intreccia nelle reti del presente e che si rivela impermeabile alle spiegazioni tradizionali:
Lo schema fisso di locazione e di identità rassicuranti si spezza. La totalità razionalizzante in cui tutto si riferiva ad un centro, presumibilmente garantito dalla voce neutrale di "sapere", "scienza", "cultura" e relativo accento eurocentrico, passa in una confusione vernacola e scivola verso una complessità frammentaria e l’"amara ostinazione di un’interrogazione errante".40
[Iain Chambers, Passaggi migratori]
La ragione occidentale, con la sua tendenza connaturata a nominare, classificare, spiegare, infine com-prendere l’altro, ha reso trasparente a se stessa il resto del mondo cancellando la distanza tra il luogo dell’enunciazione e la differenza, annullando di conseguenza quella che Spivak definisce "misura di silenzio", analoga all’opacité di cui parla Édouard Glissant. Com-prendere diventa così sinonimo di "prendere con sé", di assimilare l’altro negandone l’incolmabile misura di differenza oppure cristallizzandola nello stereotipo autoreferenziale. Questa "costruzione dell’altro" - come ha così ben analizzato Edward Said, in Orientalismo e in Cultura e Imperialismo, riprendendo la foucauldiana "archeologia del sapere", ossia l’indagine dei rapporti tra sapere e potere - è stata fondamentale nella riproduzione storica, culturale e morale del nostro "sé" e del nostro peculiare senso del mondo, del centro, della conoscenza e del potere. Ma se, come sostiene Wittgenstein, noi dimoriamo nel linguaggio e i suoi limiti sono i limiti del nostro mondo, allora "incontrare gli altri" in questo tessuto significa piegarlo, decostruirlo, deformarlo ed interrogarlo.
Un ruolo fondamentale in questa direzione di critica culturale della ragione europea lo ha svolto senz’altro il decostruzionismo di Jacques Derrida. Il filosofo francese venne ripetutamente ed aspramente criticato, nel corso degli anni settanta, per l’apparente depoliticizzazione del suo linguaggio, che, al contrario, ha percorso i territori più fecondi del legame tra teoria e prassi politica. Per dirla con le parole di Bhabha - il quale, sulle tracce di Derrida, ha dedicato a questo tema un importante saggio intitolato L’impegno per la teoria41 - la "testualità non è un’espressione ideologica di secondaria importanza, o un sintomo verbale di un soggetto politico "già dato": anzi il soggetto politico – inteso come soggetto della politica – è un chiaro evento discorsivo"42. Egli approfondisce poco oltre questo concetto, asserendo che:
[…] la funzione della teoria nel processo politico incide in modo duplice: ci rende consapevoli del fatto che i nostri referenti e priorità politici – il popolo, la comunità, la lotta di classe, l’avversione al razzismo, la differenza di genere, la militanza anti-imperialista, la prospettiva nera o "terza" – non sono lì in qualche senso primordiale o naturalistico. Al contrario essi hanno senso solo in quanto sono il risultato di una costruzione dei discorsi del femminismo, del marxismo o del Terzo cinema o quant’altro, i cui oggetti prioritari – la classe, il sesso o la "nuova etnicità" – si trovano sempre in una tensione storica e filosofica, o immersi in una rete di riferimenti ad altri obbiettivi.43
[H. Bhabha, La questione dell’Altro. Stereotipo, discriminazione e discorso del colonialismo, in I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 200]
Il decostruzionismo di Derrida ha avuto un’influenza notevole sugli studi del linguaggio e delle forme della rappresentazione e su come questi interagiscano col reale e partecipino alla formazione del soggetto. Derrida parte da una critica di certi aspetti dello strutturalismo, ad esempio la sistematizzazione fattane da Lévi-Strauss, che vedeva delle leggi generali e "scientifiche" sottostanti al funzionamento dei segni e delle produzioni culturali. Secondo Derrida non esiste un terreno sicuro ed esterno da cui è possibile studiare le rappresentazioni; il segno è infatti qualcosa di instabile perché il rapporto tra significante e significato non è fisso, ma esiste un continuo slittamento, un vuoto, una "différance"44, rivelata di volta in volta dalla decostruzione del testo. Questo neologismo introdotto da Derrida – la différance – vuole focalizzare l’attenzione sul carattere dinamico della differenza, irriducibile condizione di possibilità della presenza, dell’identità. L’identità non è dunque qualcosa di dato, bensì si determina in relazione all’Altro, al differire da sé. "Per Derrida la differenza, l’essere altro, condizione dell’identità, è irriducibile. Se la relazione all’altro è condizione dell’essere (presente a) sé, questo non si realizza mai, è sempre differito in altro, è, in quanto differisce da sé, e non risolve mai in sé la possibilità della relazione all’altro, sua condizione".45 In breve: la différance rende conto della procedura della significazione, in quanto rende conto delle condizioni di possibilità della presenza di ciò che è presente: il differire da sé, l’essere altro, quale condizione della presenza, dunque del senso.
Con l’apertura indotta dallo "spostamento altrove" delle sue parole, Derrida ha provocato una vasta rivalutazione dei discorsi politici e culturali, particolarmente nell’area dei subaltern studies e dei postcolonial studies. Creando delle fratture nel linguaggio, contestandone la presunta unità ed autorevolezza metafisica, egli ha evocato spazi in cui altri mondi potrebbero apparire e incominciare a mettere insieme il vuoto che circonda l’egemone testo europeo. Parlando dell’etnologia, nel suo celebre testo del 1967, L’Écriture et la différence, egli afferma che quest’ultima è nata proprio quando si è reso possibile un decentramento della cultura europea:
Si può [...] osservare che l’etnologia ha potuto nascere come scienza solo nel momento in cui è stato possibile compiere un decentramento: nel momento in cui la cultura europea – e di conseguenza la storia della metafisica e dei suoi concetti – è stata scardinata, scacciata dal suo posto, costretta quindi a non considerarsi più come cultura di riferimento.46
[Jacques Derrida, L’écriture et la différence, Paris, Seuil, 1967 ; trad. it. : La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1990
Da più parti, quindi, il paradigma post-strutturalista mette in crisi la convinzione umanista secondo la quale è il soggetto-individuo a produrre autonomamente il significato e quindi la rappresentazione di sé che influenza le proprie modalità di azione. Secondo la psicanalisi di Lacan, è viceversa il linguaggio che costruisce il soggetto, che diventa tale "adattando la propria lingua ad un sistema socialmente determinato di prestazioni linguistiche"47. Il linguaggio, la parola, qualunque enunciato individuale non sono dunque "innocenti", ma possono essere analizzati e decostruiti rivelando una coscienza storica al lavoro. Queste innovazioni teoriche nell’analisi delle interazioni tra linguaggio, forme della rappresentazione, individui e collettività risultano fondamentali per l’analisi del "discorso coloniale" e, di conseguenza, delle pratiche di resistenza e di alternativa alla cultura egemone che continuano a riprodursi nell’estremamente articolato e differenziato campo politico "postcoloniale".
Lo storico e critico dell’antropologia James Clifford è senz’altro uno tra i principali studiosi che ha cercato di indagare le conseguenze culturali di questo "crollo epistemologico". Il suo libro I frutti puri impazziscono. Etnografia, cultura e arte nel XX secolo48 prende il titolo da un verso del "poeta, medico e ricercatore sul campo" Williams Carlos Williams. Quest’ultimo descrive, col personaggio di Elsie, donna meticcia corpulenta e sgraziata con "qualche goccia di sangue indiano", l’irruzione di un elemento perturbante in uno spazio borghese, che diventa così metafora di un senso di spaesamento e di angoscia collettivi dovuti alla percezione, ancora implicita, di una perdita di autenticità e di una sorta di "incesto culturale" che caratterizza la modernità. Clifford definisce questa condizione di sradicamento e di instabilità, dovuta al fatto di ritrovarsi immersi in "tradizioni frammentate", come modernità etnografica. La sua lettura procede però in una direzione del tutto opposta rispetto a quella della perdita e della sottrazione di un’autenticità smarritasi nei cambiamenti della storia; piuttosto egli cerca di sottolineare e di percorrere le straordinarie potenzialità inventive offerte dalle contaminazioni identitarie che caratterizzano il "dis-ordine" del presente.
La figura di Elsie suggerisce, secondo Clifford, una "svolta inedita", di fronte alla quale non è più pensabile né attuabile un ritorno nostalgico verso il passato. "Se le tradizioni autentiche, i frutti puri, si stanno ovunque arrendendo alla promiscuità e all’insignificanza, la scelta della nostalgia non possiede fascino. Non c’è un ritorno possibile, non c’è un’essenza da recuperare". Lo studio di Clifford si configura dunque come la ricerca di tutta una serie di "Elsies" storiche, metafora di tutti quei gruppi marginalizzati o ridotti al silenzio nell’Occidente borghese che, visti in una differente prospettiva storica, rappresentano una serie di "specifici sentieri della modernità" che mettono in atto un’immaginazione creativa ed una re-invenzione della propria identità. La figura di Elsie, come molti altri personaggi letterari della nostra epoca, non rappresenta soltanto la perdita e la corruzione della propria autenticità, ma una vera e propria alternativa, un frutto impuro, un nuovo ibrido ossia "il segno di un passato indigeno che si sta trasformando in un insospettato futuro" e al tempo stesso una sfida all’autorità e ai modelli dominanti dell’Occidente:
In misura crescente, afferma Clifford, persone e cose sono fuori posto. […] Dopo il 1950 popoli in nome dei quali avevano per molto tempo parlato etnografi, funzionari e missionari occidentali cominciarono a parlare e ad agire efficacemente per conto proprio sulla scena planetaria.49
[H. Bhabha]
In questo contesto, il concetto derridiano di différance torna utile ad una critica dell’identità/diversità culturale intesa in termini essenzialisti. Nel saggio sopra citato, L’impegno per la teoria, Homi Bhabha introduce un’importante distinzione tra diversità e differenza culturale. Secondo il teorico indiano, la "diversità culturale" è un oggetto epistemologico, ossia la cultura come oggetto di conoscenza empirica, mentre la "differenza culturale" consisterebbe nel "processo di enunciazione della cultura come "conoscenza/conoscibile", fonte di autorità e strumento che asseconda la creazione di sistemi di identificazione culturale"50. Egli pone quindi l’accento, come abbiamo fatto nel precedente paragrafo, sul valore performativo degli enunciati riguardanti l’identità e la cultura. "Se la diversità culturale", prosegue Bhabha, "è una categoria dell’etica, dell’estetica o dell’etnologia comparata, la differenza culturale è un processo di significazione attraverso il quale le affermazioni della cultura e sulla cultura differiscono, distinguono e autorizzano il prodursi di campi di forza, riferimento, applicabilità e capacità"51. Lo spostamento dell’attenzione sul carattere performativo ed enunciativo della differenza culturale permette così di rilevarne l’ambivalenza, peraltro implicita in ogni atto di enunciazione. Proprio quest’ambivalenza favorisce l’emersione di un Terzo Spazio in cui si attua il superamento degli stereotipi dualisti prodotti dal discorso coloniale, espressione di una visione/costruzione essenzialista dell’identità culturale:
La ragione per cui un testo culturale o un sistema di significazione non possono bastare a se stessi è che l’atto di enunciazione culturale – il luogo dell’enunciato – è attraversato dalla différance della scrittura. […] La differenza nel processo del linguaggio è essenziale alla produzione di significato e per di più garantisce che il significato non sia semplicemente mimetico o trasparente. Il patto interpretativo non è mai soltanto un atto di comunicazione fra l’Io e il Tu designati nell’enunciato; la produzione di significato richiede che questi due posti siano messi in moto nel passaggio attraverso un Terzo Spazio, che rappresenta sia le condizioni generali del linguaggio sia la specifica implicazione dell’enunciato in una strategia performativa e istituzionale della quale esso non può "in sé stesso" essere conscio. Ciò che tale relazione inconscia introduce è un’ambivalenza nell’atto dell’interpretazione […]. La scissione del soggetto dell’enunciazione, in effetti, distrugge la logica della sincronicità e dell’evoluzione che tradizionalmente conferisce autorità al soggetto della conoscenza culturale. […] L’intervento del Terzo Spazio dell’enunciazione, che trasforma la struttura del significato e del riferimento in un processo ambiguo, distrugge questo specchio della rappresentazione in cui la conoscenza culturale si rivela abitualmente come un codice integrato, aperto, in espansione. Questo intervento incrina a fondo il nostro senso dell’identità storica della cultura come forza omogeneizzante, unificante, autenticata dal Passato originario, tenuta in vita nella tradizione nazionale del Popolo. In altre parole, la temporalità disgregante dell’enunciazione delegittima la narrazione della nazione moderna che Benedict Anderson con grande acutezza rappresenta scritta in un tempo omogeneo e seriale. Solo quando comprendiamo che tutti gli enunciati e i sistemi culturali sono costruiti in questo spazio contraddittorio ed ambivalente dell’enunciazione cominciamo a capire il motivo per cui le rivendicazioni gerarchiche di un’intrinseca originalità o ‘purezza’ delle culture non reggono, anche prima che si faccia ricorso a esempi storici empirici che mettano in luce la loro ibridità.52
[Homi Bhabha]

Questo lungo passaggio di Homi Bhabha, con la straordinaria densità concettuale che caratterizza la sua prosa e che riprende alcuni elementi concettuali delle filosofie post-strutturaliste francesi, pone in risalto il nucleo principale del nostro discorso di decostruzione critica del linguaggio essenzialista dell’identità. L’obbiettivo primario del progetto teorico postcoloniale di Bhabha consiste proprio nello smantellamento delle costruzioni identitarie basate sulla purezza e l’essenzialismo che, come abbiamo visto in precedenza, sono il prodotto storico della dialettica coloniale. Sul piano filosofico potremmo dire che lo spettro da abbattere è quello della dialettica sintetica hegeliana53, che tende a contrapporre due opposti nettamente chiusi e separati, per sottolineare invece l’ambivalenza implicita in ogni costrutto culturale e identitario. In sostanza le teorie di Bhabha affermano che il discorso coloniale non è onnipotente, ma nasce relazionalmente54 e di conseguenza le identità coloniali che ne sono il prodotto, sono "instabili, antagonistiche e costantemente fluide". Col concetto di mimicry – traducibile come "imitazione ironica" - egli sostiene che l’atto mimetico del colonizzato, che tende ad imitare e a riprodurre le forme culturali imposte dal colonizzatore, è di tipo sostanzialmente ironico e distanziatorio e nasconde un altrettanto efficace atto di libertà parodica attraverso cui il subalterno apre la possibilità di creare nuove identità ibride o meticce. Il fascino esercitato dalle teorie di Bhabha, consiste perciò nel fatto che egli consideri soprattutto quelle figure di passaggio, quei soggetti in transito e quelle "culture della diaspora"55 che non si collocano all’interno di identità definite, ma che si trovano continuamente, per così dire, alla frontiera, in quegli spazi marginali o "in-betweeen spaces"56, che offrono tutta una serie di potenzialità "creative". Si tratta infatti di "uno spazio di libertà in cui non agiscono le solite costrizioni e che è quindi particolarmente creativo, [permettendo di] immaginare delle nuove strategie identitarie più flessibili".57 Viene così a delinearsi una sorta di Terzo Spazio, abitato, o meglio attraversato, da quei soggetti migranti, creoli, meticci, clandestini o ribelli che mettono in atto una reale politica della differenza cercando di sovvertire le strutture binarie dominanti e facendo "giocare" le differenze attraverso tutti i confini. Le teorie di Bhabha possono essere tranquillamente accostate alla visione espressa da molti scrittori postcoloniali come Édouard Glissant, attraverso il concetto di créolisation in atto nel sistema-mondo58, oppure Salman Rushdie, il quale, sin da Midnight’s Children e ancor più in The Satanic Verses, "celebra l’ibrido, l’impurità, la commistione, la trasformazione che deriva da nuove e inattese combinazioni fra esseri umani, idee, culture, politica, film, canzoni".59
Queste linee teoriche vengono approfondite da Homi Bhabha in un importante saggio del 1996, intitolato proprio Culture’s In-Between, nel quale, partendo da un saggio di T.S. Eliott60, affronta alcuni nodi fondamentali della complessa ambiguità del "multiculturalismo" (un termine che ha assunto una connotazione semantica talmente varia da diventare, secondo Bhabha, un vero e proprio "floating signifier") e dell’impossibilità e incommensurabilità implicite nell’atto di "pensare le culture". Di fronte alla complessità delle relazioni interculturali del presente, la cosiddetta "cultura" non può più essere pensata "spazialmente" come un territorio con dei confini definiti; oggi, al contrario, la "scrittura" dell’identità avviene proprio a cavallo delle frontiere, con continui attraversamenti e nuove "negoziazioni" linguistiche dei territori e delle tradizioni
[…] Eliot demonstrates a certain incommensurability, a necessary impossibility, in thinking culture. Faced with the fatal notion of a self-contained European culture and the absurd notion of an uncontaminated culture in a single country, he writes, "We are therefore pressed to maintain the ideal of a world culture, while admitting it is something we cannot immagine. We can only conceive it as the logical term of the relations between cultures".61
Affrontando poi la questione della "migrazione coloniale" (fenomeno già rilevante all’epoca di Eliot in Inghilterra), Bhabha afferma che i migranti portano con sé soltanto una parte della loro cultura di origine, sviluppando, nella nuova terra, qualcosa che è allo stesso tempo simile e differente ("bafflingly alike and different") rispetto alla cultura di origine e che tende quindi a disturbare e a rimettere in discussione l’immagine consolidata della "cultura nazionale". Una cultura "parziale" basata sulla contaminazione e il sincretismo:
This "part" culture, this partial culture, is the contaminated yet connected tissue between cultures – at once the impossibility of culture’s containedness and the boundary between. It is indeed something like culture’s in-between, bafflingly both alike and different. […] the translation of cultures, whether assimilative or agonistic, is a complex act that generates borderline affects and identifications, "peculiar tipes of culture-sympathy and culture-clash". The particularity of cultures’ partial, even metonymic presence lies in articulating those social divisions and unequal developpements that disturbe the self-recognition of the national culture, its anointed horizons of territory and tradition. The discourse of minorities, spoken for and against the multicultural wars, proposes a social subject constituted through cultural hybridization, the overdetermination of communal or group differences, the articulation of baffling alikeness and banal divergence.62
Il soggetto ibrido e subalterno diventa dunque, secondo Bhabha, la vera chiave per capire le relazioni tra culture nel presente; questo soggetto si costruisce attraverso i confini ordinari che separano i popoli, ma la sua dis-locazione non è solamente spaziale, ma soprattutto "temporale", una sorta di "time lag" culturale, che lo colloca oltre la limitata visione liberalista del "rispetto" della diversità culturale. Il soggetto "ibrido", collocandosi in una "temporalità disgiuntiva e ambivalente" enfatizza le differenze interne ad ogni cultura e nazione:
The partial, minority culture emphasizes the internal differentiations, the "foreign bodies", in the midst of the nation – the interstices of its uneven and unequal developpement, wich give the lie to its self-containedness.63
La potenzialità decostruttiva e destabilizzante delle culture minoritarie e subalterne viene paragonata al principio della "dialogicità" e al suo "potenziale ibridizzante", espresso da Michail Bachtin, il quale pone l’accento sulla questione dell’atto discorsivo:
The hybrid is not only double-voiced and double accented but is also double-languaged. […] It is the collision between differing points of view on the world that are embedded in these forms […] such unconscious hybrids have been at the same time profoundly productive historically: they are pregnant with potential for new world views, with new "internal forms" for perceiving the world in worlds.64
Bhabha insiste sulla potenzialità creativa a livello discorsivo dell’ibridazione (hybridity), la cui strategia apre nuovi spazi e nuove modalità di negoziazione di significati culturali, che vadano al di là delle opposizioni binarie e conflittuali, facendo emergere dei nuovi spazi "interstiziali" di azione:
Indeed Bakhtin emphasizes a space of enunciation where the negotiation of discursive doubleness by which I do not mean duality or binarism engenders a new speech act. […] the hybrid strategy of discorse opens up a space of negotiation where power is unequal but its articulation may be equivocal. Such negotiation is neither assimilation nor collaboration. It makes possible the emergence of an "interstitial" agency that refuses the binary representation of social antagonism. Hybrid agencies find their voice in a dialectic that does not seek cultural supremacy or sovereignty. They deploy the partial culture from wich they emerge to construct visions of community, and versions of historic memory, that give narrative form to the minority positions they occupy; the outside of the inside; the part in the whole.65
Essere il "di fuori" nel "dentro", l’alterità nell’identità, la periferia nel centro, l’esotico nel famigliare: queste le potenzialità destabilizzanti e creative delle forme culturali e dei soggetti ibridi che transitano nel nostro presente. L’ibridità, come la concepisce Bhabha, è quindi una forma di opposizione ad ogni sorta di fondamentalismo religioso, etnico o nazionale, ad ogni concezione essenzialista ed esclusivista dell’identità, della cultura e della nazione. Essa può mettere in atto nuove forme di ri-scrittura del passato, riattivando in esso nuovi significati che si riflettano in un presente più aperto e diversificato. Egli conclude il suo saggio con queste parole:
We have entered an anxious age of identity, in which the attempt to memorialize lost time, and to reclaim lost territories, creates a culture of disparate "interest groups" or social movements. [..] The importance of such retroaction lies in its ability to reinscribe the past, reactivate it, relocate it, resignify it. More significant, it commits our understanding of the past, and our reinterpretation of the future, to an ethics of "survival" that allows us to work through the present. And such a working through, or working out, frees us from the determinism of historical inevitability repetition without a difference.66
Le capacità produttive di questo Terzo Spazio, che si delinea in un’epoca ansiosa dell’identità, possono dunque aprire la strada alla concezione di una cultura internazionale, fondata non sull’esotismo o sul multiculturalismo della diversità fra culture, ma sull’inscrizione e lo sviluppo dell’ibridità della/nella cultura. L’ibridità non è quindi il terzo elemento, la conciliante sintesi di una dialettica degli opposti, ma una vera e propria frattura/fuoriuscita da questa dialettica che mette in risalto l’ambivalenza costitutiva del linguaggio della "cultura" e della "nazione". La narrazione dell’identità che, secondo Benjamin ripreso poi da Benedict Anderson67, costruisce una sorta di biografia della nazione (in)scrivendola in un "tempo lineare ed omogeneo", rivela la propria duplicità ed ambiguità, aprendo la strada per una decostruzione della presunta omogeneità del discorso nazionalista. In un altro saggio fondamentale intitolato DissemiNazione. Tempo, narrativa e limiti della nazione moderna68, l’autore analizza proprio l’ambiguità implicita in qualsiasi scrittura della nazione, il che gli permette di elaborare un concetto di identità opposto a quello occidentale, basato sulla volontà di potenza e di dominio e sull’esclusione e la subalternità dell’Altro. Secondo Bhabha, quindi, la nazione va rappresentata e vissuta non come luogo dell’omogeneità, ma al contrario come uno spazio di rappresentazione dei popoli e delle loro differenze e contaminazioni. L’intento del teorico è quindi quello di:
mettere in luce l’ampia disseminazione con cui costruiamo il campo di significati e simboli associati alla vita nazionale, [in modo tale da] portare alla luce recessi facilmente oscurati, ma assai significativi, della cultura nazionale, da cui possono emergere gruppi di persone alternativi e capacità analitiche oppositive. […] L’intento di Nazione e narrazione è quello di esplorare l’ambivalenza di Giano del linguaggio nella costruzione del discorso della nazione, eminentemente bifronte.69
La riflessione di Bhabha nasce proprio come frutto dell’esperienza della migrazione, dal momento della "dispersione di un popolo" e dal successivo "solitario raccogliersi della gente dispersa":
Riunione di esiliati, emigrati e rifugiati, di culture "straniere" marginali; riunione alle frontiere, nei ghetti o nei caffè dei centri urbani; riunione nella vita stentata e condotta all’ombra di lingue straniere, o nel fluire misterioso di una lingua che non è la propria; […] riunione di memorie del sottosviluppo, di altri mondi vissuti in modo retrospettivo; riunione del passato in un rituale rivitalizzante, riunione del presente.70
In questo contesto risulta dunque estremamente interessante un nuovo paradigma dell’analisi culturale, quello del viaggio, proposto da James Cliffors in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX71. Il titolo originale è basato su un gioco di parole tra routes (strade) e roots (radici), proponendosi come un’analisi di quelle pratiche di attraversamento e di interazione che disturbano il localismo su cui si basavano i presupposti dell’antropologia tradizionale. Quest’ultima ha sempre inteso "il risiedere […] come solida base (locale) della vita collettiva, mentre il viaggio era un semplice supplemento; le radici sono sempre più importanti delle strade".72 Una diversa prospettiva potrebbe quindi prendere le mosse dall’assunto del movimento, sostenendo che i viaggi, gli spostamenti, i contatti non siano soltanto elementi marginali della cultura, bensì momenti costitutivi dei significati culturali e "siti cruciali" in cui si rivelano i tratti salienti di una "modernità incompiuta"
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©  Alessandro Corio

note

25 Ibid., p. 8.
26 Ibid., p. 9.
27  Ibid., p. 11.
28 Ibid., p. 20.
29 Ibid., p. 43.
30  F. Remotti, Contro l’identità, Roma, Laterza, 1997.
31 Ibid., pp. 9-10.
32 Victor Turner, La foresta dei simboli. Aspetti del rituale Ndembu, Brescia, Morcelliana, 1992.
33 Arnold Van Gennep, Les Rites de passage, Paris, Nourry, 1909 ; trad. it., I riti di passaggio, Torino, Boringhieri, 1981.
34 F. Remotti, op. cit., p. 36.
35 Iain Chambers, op. cit., p. 16.
36 Franz Fanon, Peau noire, masques blanches, Paris, Seuil, 1952 ; trad. it. : Pelle nera, maschere bianche, Milano, Marco Tropea, 1996.
37 "Il colonialismo costruisce figure dell’alterità e dirige i loro flussi con un complessa struttura dialettica. La costruzione negativa degli altri, dei non europei, è ciò che fondamentalmente crea e sostiene la stessa identità europea. […] L’alterità non è data, è prodotta"; M. Hardt, A. Negri, Imperialismo, il nuovo ordine della globalizzazione. Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2001, p. 125.
38 Iain Chambers, op. cit., p. 25.
39 H. Bhabha, La questione dell’Altro. Stereotipo, discriminazione e discorso del colonialismo, in I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001, pp. 97-121.
40 Iain Chambers, op. cit., p. 53.
41 In H. Bhabha, op.cit., pp. 35-60.
42 Ibid., p. 40.
43 Ibid., p. 44.
 44  Jacques Derrida, L’écriture et la différence, Paris, Seuil, 1967 ; trad. it. : La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1990.
45 F. Vitale, "Decostruzione", in Michele Cometa, Dizionario degli studi culturali, Roma, Meltemi, 2004.
46 J. Derrida, op. cit., p. 363.
47 A. Loomba, op. cit., p. 51.
48 James Clifford, The predicament of culture, Harvard, Harvard University Press, 1988; trad. it.: I frutti puri impazziscono, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.
49 J. Clifford, op. cit., p. 18.
50 H. Bhabha, op. cit., p. 54.
51 Ibid., p. 55.
52 Ibid., pp. 57-59.
53 In alternativa alla visione della dialettica sintetica hegeliana, sarebbe interessante accostare, sottolineandone analogie e differenze, altre forme di pensiero dialettico quali la dialettica negativa di Adorno, la dialettica spezzata di Ricoeur e la dialettica sincretica di cui parla Massimo Canevacci in Sincretismi, una esplorazione sulle ibridazioni culturali, Genova, Costa & Nolan, 1995, pp. 38-40, dove afferma: "Spezzare la dialettica: questo il nostro compito. Impedire le congiunzioni sintetiche, i superamenti positivi e tranquillizzanti. Dalla frantumazione negativa e spezzata del cuore perverso e totalizzante della dialettica – la sintesi – si perviene ad una dialettica sincretica. Quanto la dialettica sintetica pulisce, ordina, classifica, supera, quanto la dialettica sincretica sporca, disordina, mescola, frammenta e giustappone. […] Finalmente è arrivata una dialettica-ibrido, laddove il pensiero razionale occidentale intravedeva nel mito, nell’irrazionale, nell’emotivo il suo mortale nemico, ora è possibile scorgere il fascino estetico e cognitivo dell’asimmetrico e del dissonante".
54 "Nello stesso processo del potere coloniale si insinua l’ambiguità, si insinua cioè l’impossibilità di un silenzio assoluto dell’altro. […] Nel momento in cui il discorso coloniale si pone come discorso di autorità si rivolge a qualcuno o a qualcosa che a sua volta lo penetra, lo permea fino a corroderne le basi". (Mariella Pandolfi, "L’altro sguardo e il paradosso antropologico", introduzione a H. Bhabha, op. cit., p. 18).
55  "L’esperienza della diaspora non è definita dall’essenza e dalla purezza ma dalla consapevolezza di una necessaria eterogeneità e diversità: da una concezione dell’ "identità" che vive non in opposizione alla differenza ma con essa e attraverso essa; è definita dall’ibridità". Stuart Hall, 1989, p. 809, cit. da Matilde Callari Galli, "I nomadismi della contemporaneità", in AA.VV., Nomadismi contemporanei. Rapporti tra comunità locali, stati-nazione e "flussi culturali globali", Rimini, Guaraldi, 2004, p. 31.
56Homi K. Bhabha, Culture’s In-Between, in Stuart Hall e Paul du Gay (a cura di ), Questions of cultural Identity, London – Thousand Oaks – New Delhi, SAGE Publications, 1996, pp. 53-60.
57 Francesca Neri, "Multiculturalismo, studi postcoloniali e decolonizzazione", in AA.VV., Letteratura comparata, a cura di Armando Gnisci, Milano, Mondatori, 2002, p. 220.
58 Édouard Glissant, Poétique de la Relation, Paris, Gallimard, 1990.
59 S. Rushdie, op. cit., p. 431.
60 T.S. Eliott, Notes towards the Definition of Culture, Harcourt Brace, New York, 1949.
61 H. Bhabha, op. cit., pp. 53-54.
62 Ibid., p. 54; corsivi nostri e dell’autore.
63 Ibid., p. 57.
64 Michail Bachtin, "Discourse in the novel", in Michael Holquist (ed.), The Dialogic Immagination, University of Texas Press, Austin, 1981, p. 360.
65 H. Bhabha, op. cit., p. 58; nostri i corsivi.
66 Ibid., pp. 59-60.
67 Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 2000.
68 H. Bhabha, op. cit., pp. 195-235.
69 Homi Bhabha, (a cura di), Nation and Narration, Routledge, London-New York, 1990; trad. it. Nazione e narrazione, Roma, Meltemi, 1997, p. 36.
70  H. Bhabha, op. cit., p. 469.
71  James Clifford, Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Cambridge-London, Harvard University Press, 1997; trad. it. Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
72  Ibid., p. 11.


[....] continua


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