giovedì 18 novembre 2010

I barbari e la peste

Nicola Lagioia    

I barbari e la peste

Invasioni barbariche e fine della civiltà sono due paure che la cultura occidentale coltiva in maniera talmente ricorsiva – e spesso con tale voluttà – da far venire il sospetto che siano a essa addirittura costitutive.

Perennemente scisso tra la brama paranoide di annichilire tutto ciò che è diverso da sé e il desiderio inconfessabile di un crollo rigeneratore, il cuore stesso dell’occidente è riuscito nella macabra e vertiginosa impresa di battere in virtù di ciò che non esiste: i nostri sogni sono alimentati dal terreno e dal mercato e dalle culture ancora da conquistare o assimilare, mentre una certa nostra profonda infelicità – che di quel sogno imperiale è il lato oscuro – arriva ciclicamente-ciclotimicamente a tali vertici negativi che un violento e disastroso rovesciamento del tavolo da gioco diventa addirittura una speranza. Sogni di conquista e speranze di crollo. Siamo, appunto, tutto ciò che ci manca.


Per limitarci al campo della cultura e della rappresentazione artistica, l’ultimo decennio (quello iniziato con l’attacco alle Due Torri) ha visto il rifiorire degli scenari apocalittici. The road di Cormac McCarthy è solo tra i più recenti e noti capitoli di una poetica che nel Novecento ha molti precedenti. Con esiti e linguaggi completamente diversi, si possono facilmente ricordare le Cronache del dopobomba di Philip Dick o il modo in cui Samuel Beckett rilesse la paura dell’olocausto nucleare che permeò la Guerra Fredda. E ancora, pensiamo a Don DeLillo: molti libri della sua produzione tardo novecentesca – da Mao II fino a Underworld – sono stati in fondo un lungo e quasi sciamanico esercizio di corteggiamento stretto a spirale intorno a quel fantasma a cui l’11 settembre ha attribuito un nome adatto ai tempi (allo stesso modo, grazie alla speculare, mostruosa capacità di tastare il polso del sentimento popolare propria di Hollywood, si sono moltiplicati a cavallo tra i due secoli i kolossal che avevano al proprio centro l’idea di catastrofe: invasioni aliene, disastri naturali, estinzione della razza umana). E se non tutti ricordano che una delle prime rappresentazioni apocalittiche – se non forse la prima in assoluto – scaturite dal cuore della modernità è contenuta in un romanzo italiano (la distruzione del nostro pianeta evocata nell’ultimo capitolo della Coscienza di Zeno), è forse Antonin Artaud, con il suo teatro della peste, a spiegare, o meglio a “sentire” con più profondità la natura del nostro terrore e insieme del nostro desiderio di invasione/distruzione. Sogniamo traumaticamente che la peste entri nella città perché – in modo più o meno consapevole – riconduciamo la parola Apocalisse al suo significato etimologico: rivelazione, svelamento di senso. Abbiamo, vale a dire, il timore o il sospetto o addirittura la consapevolezza di abitare una civiltà che fa dell’occultamento di senso uno dei propri capisaldi, e dunque di stagione in stagione qualcosa viene a dirci che solo colpendo questa civiltà al cuore (peste o disastro nucleare o invasione aliena o barbarica non importa) il senso delle cose potrà tornare a manifestarsi. Più che pensare questo pensiero, ne siamo abitati e posseduti, e a tale possessione reagiamo in maniera diversa a seconda delle circostanze.

In un racconto di Borges – intitolato Storia del guerriero e della prigioniera – lo scrittore argentino narra la storia di Droctulft, il longobardo che, giunto a Ravenna per metterla a ferro e fuoco, abbandona l’esercito dei suoi finendo con lo schierarsi a fianco degli assediati, spinto dal desiderio imprevisto di difendere e salvare la città. Al momento di violare le porte di Ravenna, Droctulft non ha mai visto un mosaico in vita sua e ignora qualunque tipo di architettura che non si regga sui rozzi, tristi e monolitici concetti elaborati nelle terre paludose da cui proviene. L’immersione improvvisa in una bellezza e in una complessità che non capisce del tutto ma che riescono a toccarlo in quel profondo che appartiene al più semplice degli uomini, lo spinge a passare dall’altra parte. Il disprezzo verso i barbari (cioè in parole povere verso gli oltreconfine) e il timore di una loro invasione è un altro topos della cultura occidentale, indistricabilmente connesso al sogno-incubo di fine della civiltà di cui si è detto. Il racconto di Borges è tuttavia emblematico di come, da molto tempo a questa parte, gli intellettuali non diano per scontato che l’invasione debba arrivare da fuori: Droctulft, in fondo, decide di difendere Ravenna. Tra i tanti esempi a disposizione, basterebbe citare la nascita del jazz e la letteratura post-coloniale per capire come mai le élite culturali d’occidente – specie quelle progressiste – abbiano ridimensionato la loro paura di un cataclisma culturale proveniente dall’esterno. Il tramonto di questo timore è andato tuttavia di pari passo con l’esplosione del suo opposto: le invasioni arriveranno non da fuori ma da dentro. Sarebbe cioè proprio il capitalismo avanzato (lo stato attuale della nostra civiltà) a produrre i neo-barbari, visto che la natura del suo sogno di conquista sarebbe tale da possedere già in sé, a tutti i livelli, i presupposti di un’implosione: “pop will eat itself” recitava meno banalmente di quanto possa sembrare il nome di una band di rock alternativo. Il timore dell’“invasione dall’interno” (che ha avuto anch’esso negli scorsi decenni le proprie degne rielaborazioni romanzesche e cinematografiche: libri come Regno a venire di James Ballard, film come Il demone sotto la pelle di David Cronenberg, per fare solo qualche esempio) godeva di un’ampia e complessa letteratura critica già ai tempi della Scuola di Francoforte, ma ha subito ultimamente un’impennata di cui è difficile non rendersi conto.

L’invadenza dei mezzi di comunicazione di massa e soprattutto la continua rivoluzione tecnologica cui siamo sottoposti, alimenta la paura che un’onda di neo-barbari si stia stringendo sempre più minacciosamente intorno alla cittadella della cultura fino a che di questa non resterà più nulla (l’oggetto del timore sarebbero insomma gli analfabeti di ritorno nati in occidente, cresciuti a pane e televisione, internet e social network, in grado di spedire 50 sms al minuto quanto incapaci di comprendere un testo scritto che contenga più di una subordinata). Alla fondatezza di un tale pericolo è sensato dare qualche credito, se è vero che persino un grande della critica letteraria come Harold Bloom ha paventato – nel suo libro più noto, Canone occidentale – il possibile arrivo di una teocrazia audiovisiva capace di fare piazza pulita della civiltà e del concetto di umano così come siamo stati abituati a intenderli e praticarli dalla fine del Medioevo. Allo stesso tempo però è forte il sospetto, soprattutto in una gerontocrazia dell’intelletto com’è Italia, che tra quelli che urlano “al barbaro!” ci sia anche chi, semplicemente, è incapace di riconoscere i nuovi linguaggi (quelli che racconteranno il mondo di domani) e chi – peggio – si straccia le vesti per conservare la propria posizione di privilegio.

Droctulft passò a difendere Ravenna e Shakespeare era considerato ai suoi tempi un mezzo barbaro assetato di sangue. Siamo sicuri insomma che il pericolo arrivi dalle periferie oceaniche dei supposti analfabeti di ritorno (tra i quali – nascosti com’è fisiologico in una folla di reali analfabeti per vocazione – si muovono i nuovi Céline e i nuovi Stravinskij e i nuovi Carmelo Bene, quest’ultimo a suo tempo percepito come barbarico massacratore del già barbarico Shakespeare) più di quanto non provenga dalle centralissime stanze dei bottoni che forgiano ogni giorno l’immaginario mainstream? Presentarsi sulle scene parlando una nuova lingua – anche una lingua in apparenza rozza e brutale rispetto a ciò che fino a quel momento è considerata la lingua ufficiale della civiltà – non ha niente di incivile se la neo-lingua in questione è in grado di restituire la complessità del mondo. Mi sembra questa la vera chiave di volta ed è qui, insomma, che si gioca la partita. Non è forse rozza e brutale la lingua del Cantico delle creature se la leggiamo dal punto di vista della latinità agonizzante? Eppure sarà proprio questa lingua barbarica (volgare) a raccontare la ricchezza e la meravigliosa complessità di un mondo che ha semplicemente cambiato pelle e codice d’accesso. E d’accordo, le sinfonie psichedeliche dei Pink Floyd potevano suonare barbariche se confrontate con la tetralogia wagneriana, ma per raccontare musicalmente – in tutta la loro ricchezza e confusione – gli anni sessanta e settanta del Novecento The piper at the gates of dawn e Atom Heart Mother sono probabilmente più efficaci del Sigfrido o del Crepuscolo degli dei.

Il problema è che la lingua ufficiale coincide spesso con quella del potere, e la lingua del potere (politico, giornalistico, culturale eccetera) è esattamente l’antitesi di una lingua in grado di restituire complessità, e dunque bellezza, sia che la lingua del potere si esprima attraverso l’idiozia monolitica dello slogan, sia che baratti la reale complessità del mondo con i vuoti a rendere del bizantinismo o dell’estetica spettacolare. Chi è in definitiva il vero barbaro? È un barbaro chi fa scempio di ogni complessità parlando dal pulpito del proprio potere ufficiale (di solito, proprio in nome della cultura e della molteplicità) o chi, ridotto il proprio mondo in macerie grazie alla distruttività culturale di quel potere, ne tira fuori una nuova lingua, rozza e volgare e clandestina quanto vogliamo, ma spesso più ricca e vitale di chi fatica a comprenderla e ad accettarla? Sono più barbarici i nuovi rap di Fabri Fibra o le prolusioni di un ministro della cultura? Era più distruttivo American Psycho o i “pedagogici” editoriali contro Bret Easton Ellis pubblicati a proprio tempo su quotidiani che fanno della pornografia e dell’ultraviolenza la propria fonte d’ispirazione neanche troppo occulta? È più blasfemo Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco o il macabro esercizio collettivo di sciacallaggio e pedofilia mediatica (da parte di intellettuali, psicologi, sociologi, giornalisti…) andato in scena recentemente in Italia intorno all’omicidio di Sarah Scazzi?

Se si vuole trovare la vera Apocalisse del mondo in cui viviamo, sarebbe meglio così guardare ai luoghi, centralissimi e ufficiali, da cui promana la nostra lingua ufficiale – e si scoprirà che il cuore della nostra Apocalisse quotidiana è come l’occhio di un ciclone: non un luogo violento ma un luogo morto, disabitato, dove non accade assolutamente niente, ed è quel niente che governa o pretende di governare il movimento che si espande verso lo spazio circostante. A ben guardare, però, si tratta di una contro-Apocalisse, un’Apocalisse rovesciata rispetto a quella evocata da Artaud (lì entrava la peste in città sovvertendo follemente ogni ordine; qui regna una stasi e un ordine che assomiglia all’assenza di vita, per cui la famosa “rivelazione di senso” non è semplicemente impedita fino a prova contraria, ma resa impossibile in via definitiva). Contrastare l’espandersi di questo niente è di conseguenza la vera battaglia culturale a cui siamo chiamati. Fino a quando si riuscirà a evitare che l’occhio del ciclone diventi il ciclone stesso, tra i nuovi barbari in marcia dalle periferie ci sarà sempre un Droctulft o (ancora meglio) un Charlie Parker. La presenza di ognuno di essi impedisce al crollo nel vuoto di essere compiuto e definitivo, dunque scongiura la possibilità che sia reale in maniera assoluta.

Per ultimo. Tra le conseguenze delle invasioni barbariche ci fu la fondazione di Venezia.

Questo articolo è uscito sul numero di Novembre della rivista Lo Straniero.
Minima & Moralia   novembre 2009
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