lunedì 1 novembre 2010

Quello che per lei è brutto io lo vedo bellissimo

  Gabriella Saba

Post mortem di Pablo Larraín 

Al trentaquattrenne regista cileno Pablo Larraín non piace che i giornalisti gli facciano domande sul padre, né che gli chiedano perché i suoi film sono perversi o sordidi, i personaggi brutti, le ambientazioni cupe, e preferisca insomma le storie marginali, e destinate a finir male. “Quello che per lei è brutto io lo vedo bellissimo, quindi non capisco il senso della sua domanda e non le rispondo”, ha detto risentito a un signore che, alla presentazione del suo film a Venezia, si era azzardato a chiedergli qualcosa di simile a quanto sopra. Fine del film. Affianco a lui una sorridente Antonia Zegers, la moglie e protagonista femminile del suo film Post Mortem, in pole position fino alla fine per il Leone d’Oro. Dall’altro lato il fascinoso e assai geniale Alfredo Castro, protagonista maschile del film così come lo era stato di Tony Manero, l’opera precedente di Larraín, vincitore del Festival di Torino nel 2008 e, anche quello, molto lodato dalla critica internazionale.


Il padre di Larraín è nientemeno che Hernán, ex presidente del Senato e senatore del partito più di destra del Cile, la Unión Demócrata Independiente (Udi) che, fondato da Jaime Guzmán nel 1987, è il ricettacolo dei sentimenti politici più retrivi e più legati alla Chiesa Cattolica, nella versione più pudibonda e severa (è vero però che Larraín padre fa parte di quel settore del partito considerato più onesto e dotato di senso sociale). Pablo, invece, è uno che dice che Pinochet fu un assassino e un ladro, e ambienta i suoi film ai tempi della dittatura perché è in quell’epoca, sostiene, che affonda le radici un certo modo d’essere dei cileni, che si dovrebbe elaborare per poi liberarsene.


E infatti Tony Manero è la storia tristissima di un ballerino di periferia che si sente un John Travolta cileno, che vive come lui e sogna come quello di diventare un idolo da discoteca, ma intorno alla sua vita, desolante, si muovono figure del repertorio di quegli anni: i ballerini che provano insieme a lui sono infatti oppositori del regime che vengono arrestati grazie alla delazione dell’amante di Raúl, l’aspirante Tony Manero. Finisce che quest’ultimo (che è anche uno psicopatico che ammazza a freddo diverse persone) partecipa a un concorso per sosia di Tony Manero e, benché molto applaudito, perde. Ancora più sordida la storia di Post Mortem, in cui lo sfigatissimo protagonista si innamora di una ballerina di quarta fila che sparisce il giorno dopo il golpe. La location è, nientemeno, un obitorio in cui si vede il cadavere dell’ex presidente Allende. “C’è qualcosa di molto caratteristico, di molto particolare nei film cileni. Una sorta di carattere nazionale che ciascuno sviluppa a suo modo”, ha dichiarato Larraín. E infatti, il tema del sosia non è nuovo in Cile. A metà degli Anni Settanta, il regista Carlos Flores Delpino, che oggi ha 66 anni, aveva realizzato El Charles Bronson chileno o Identicamente igual, un film sul sosia cileno dell’attore americano che è diventato un’opera cult nella filmografia cilena, e nell’aprile scorso ha riscosso un gran successo al Bafici di Buenos Aires. “Quel film è una metafora del Paese”, spiega Flores Delpino, che attualmente è direttore dell’Istituto di Cinema e Televisione della Universidad de Chile. “Rappresenta il dramma di una società che non vuole incontrare le sua capacità e i suoi desideri e che, stanca di cercare una identità che le permetta di andare avanti con allegria, preferisce assumerne un’altra già fatta”.

Ombroso e di carattere chiuso, il giovane Pablo non è simpatico a molti. Le sue interviste hanno toni duri, e non si sa come prenderlo. Spesso inveisce contro i cileni, che accusa di provincialismo e chiusura, di non guardare oltre i propri confini e che in qualche caso ha definito huevones, insulto nazionale che vuol dire coglioni. E’ proprio a causa di quei loro pregiudizi, spiega, che gli chiedono spesso come siano, con lui così progressista, le relazioni con il padre. “Nella mia famiglia credo che mio padre sia l’unico della Udi. Pochi sanno che mio nonno paterno era un grande amico di Patricio Aylwin e il padre di mia madre, Arturo Matte, era comunista e amico di Allende”

Detto questo, la vita di Pablo è sempre stata dorata. La madre Magdalena Matte è la ministra dell’Abitazione nell’attuale governo, e lui ha frequentato le migliori scuole come il Saint George, il liceo inglese della classe alta. In altre parole, è quel che si dice un cuico, un termine locale che indica gli appartenenti alle famiglie ricche, bianche e di origine europea. Da ragazzino se ne andò in giro per il mondo, dove trascorse otto mesi visitando sedici Paesi e imparò, disse, che esistevano altre maniere di vedere la vita. Tornato in patria, fondò la casa di produzione Fábula insieme al fratello Juan de Dios, un altro dei sei figli della prolifica coppia Larraín-Matte. Qualche anno fa si è sposato con Antonia Zegers, di quattro anni più grande, da cui ha avuto una figlia che ha oggi due anni, e un altro è in arrivo. Anche Antonia è un tipo sui generis. Attrice di cinema e di teatro, figlia di un ginecologo e di una fotografa giramondo e buddista, aveva dichiarato, qualche anno fa, che non le importava affatto di avere un compagno e una famiglia, affermazione che in Cile è in genere riprovevole. Nel primo film, Fuga, che realizzò quando aveva appena 28 anni, si delineavano le caratteristiche delle sue opere successive. Era la storia di un musicista il cui obiettivo era quello di riscattare un’opera, ma anche di rubarne l’anima. Il luogo in cui si svolgeva era cupo e ostile. Si tratta del Cile? “Naturalmente. Nessun regista racconterebbe un mondo totalmente immaginario, ognuno di noi ripete le storie che conosce”. La casa di produzione è, anche quella, progressista. Per esempio ha appena finanziato il film El año del tigre, l’ultima opera di Sebastian Leilo, 35enne regista che l’anno scorso ha partecipato a Cannes nella selezione Quinzaine des Realisateurs con La Sagrada Familia, un film rovente che dissacra il mito della famiglia cilena e della religione come valore fondante della società ed è stato messo all’indice da alcuni vescovi del suo Paese.

Anche Leilo è un regista di successo, e uno di quelli che stanno cominciando a esportare un made in Cile molto diverso sia dallo scontato prodotto ideologico sia da quello di imitazione nordamericana in voga negli anni Ottanta. Le opere di oggi hanno un “sano e onesto” sapore locale e raccontano l’uomo globale attraverso la cilenità delle storie. Da qualche tempo, la produzione di film cileni è aumentata grazie alla nascita delle scuole del cinema e all’avvento del digitale che permette di abbassare i costi. Molti registi girano con metodi low coast e anticonvenzionali come filmare in tempo reale e lasciare che gli attori recitino senza copione, improvvisando su una traccia iniziale. Flores Delpino li ha definiti “astuti ed eccentrici” e ha dedicato loro un libro, pubblicato qualche anno fa. Astuti ed eccentrici sarebbero i cineasti che lavorano con regole nuove, inventate di volta in volta e che permettono di improvvisare e sperimentare. Attualmente sono qualche decina, molti hanno vinto premi importanti in rassegne internazionali. Uno di questi è Sebastian Silva, 33enne vincitore del penultimo Sundance Festival con La Nana, uscito in Italia qualche mese fa. Un altro è Matias Bize, trentenne enfant prodige che ha partecipato all’ultimo festival di Venezia, Venice days Giornate degli autori, con La vida de los peces. Pablo Larraín non ha vinto, questa volta. Eppure il suo film si è accreditato come uno dei film migliori della rassegna. Un’opera scarna e dura, che a giorni sarà nelle sale italiane. Alfredo Castro, che in Cile è l’attore per antonomasia, un mostro sacro nel cinema e nel teatro e fondatore di una importante scuola teatrale, è stato elogiato dalla critica di molti Paesi. Eppure, nemmeno lui ha vinto. Ammesso che conti, il film cileno non ha portato a casa nemmeno un premio.

Larraín è contento comunque. Probabilmente, avrà pensato, per un regista giovane che arriva da un Paese di nicchia, il successo veneziano non è stato comunque roba da poco. Eppure, non sono pochi in Cile a essersi rallegrati per il mancato trionfo. Dicono che Pablo sia presuntuoso, e un po’ arrogante. C’è chi lo accusa di criticare la Udi, e di approfittare della posizione del padre. Qualche anno fa, ha rilasciato al quotidiano La Tercera un’intervista in cui dichiarava che la destra, in Cile e nel mondo, è responsabile della decrescita culturale, ma alla presentazione del suo Fuga c’era lo Stato maggiore della Udi. Di certo, c’è che i suoi film sono bellissimi, e più di un critico ne ha segnalato l’incredibile originalità. Occhi autorevoli tengono d’occhio il regista e aspettano, prima o poi, il suo ingresso tra i grandi.


©   Gabriella Saba

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