domenica 7 novembre 2010

Intervista a Massimiliano Panarari

  intervista di Angelo Ricci



Intervista a Massimiliano Panarari

Massimiliano Panarari insegna Analisi del linguaggio politico all'Università di Reggio Emilia ed è l'autore di L'egemonia sottoculturale-l'Italia da Gramsci al gossip, edito da Einaudi.
Gli ho posto alcune domande, prendendo spunto dal suo saggio.

Ne è passato del tempo dalla storica sentenza n. 225 del 1974, con la quale la Corte Costituzionale accoglieva gran parte delle motivazioni del fondatore di Telebiella, aprendo così la porta all’inizio della fine del monopolio Rai e all’era della televisioni private. A quei tempi, ci si riferiva loro definendole, più che altro, tv libere. Sottintendendo, con quel termine, la loro contrapposizione alla Rai monopolista. Dagli studi televisivi improvvisati in qualche capannone, ai network nazionali. Dai pionieristici telegiornali che raccontavano le notizie dei paesi della bassa, alle corazzate come il Tg5. Quel microcosmo locale ha lasciato, in buona sostanza, il posto ad un secondo monopolio. I rivoluzionari sono diventati burocrati dell’ordine costituito, come in ogni rivoluzione che si rispetti? 
È spesso accaduto, nella storia, come ben sappiamo, che i rivoluzionari si siano tramutati in fedeli tutori e immarcescibili burocrati del nuovo ordine da essi edificato. Sembra una legge di tendenza, che darebbe ragione a quel filone di pensiero, ovviamente disomogeneo e disorganico, che è stato chiamato con l’etichetta di “impolitico” (da Simone Weil a Elias Canetti, partendo da Max Weber), e che ci dice sempre molto sulla natura intrinseca del potere (anche senza voler essere a tutti i costi degli apocalittici). La ventata rivoluzionaria, per così dire (e, comunque, di rottura) delle prime tv libere private è stata riassorbita a causa di una tipica dinamica delle economie capitalistiche, i processi di assorbimento che conducono alla costituzione di oligopoli o monopoli. Una storia che conosciamo, bene, nel caso del Biscione Fininvest e Mediaset, non è vero? E, naturalmente, seguendo una dinamica che ha contraddistinto tutto l’Occidente all’indomani degli anni Settanta, alcuni intellettuali e analisti simbolici di sinistra si sono fatti sedurre dalle sirene della destra e hanno fatto il salto della quaglia, passando, armi e bagagli (come logico dietro lauto compenso) dall’altra parte della barricata. 

 La televisione (intendendo soprattutto la Rai) è stata, fino alla riforma del 1975, una televisione con una funzione molto pedagogica. In modo, a volte, anche pesante. Una televisione pedagogica che forse ha, in una certa misura, stancato l’italiano medio che, di fronte allo schermo, alla fin fine, voleva solo divertirsi e non assistere sempre alla riduzione televisiva dei capolavori della narrativa ottocentesca. L’attuale modello televisivo dominante può essere considerato figlio anche di quella esigenza?
Condivido. Nel paradigma di oggi c’è, in modo chiarissimo e marcato, il dna di quella che Umberto Eco aveva chiamato la neotv, ovvero la televisione commerciale vissuta come una irripetibile opportunità di libertà rispetto al pedagogismo Rai da parte di numerosi italiani, desiderosi solo di “spassarsela”, standosene beatamente seduti nel salotto di casa. Basta politica, zero pensieri, facciamola finita coi sensi di colpa (cattocomunisti): divertirsi, divertirsi, divertirsi e, soprattutto, consumare smodatamente e senza freni, ecco il mantra che, debuttato negli anni Ottanta dell’“edonismo reaganiano”, si è diffuso in maniera irresistibile, trovando la propria grancassa per eccellenza proprio nel piccolo schermo a colori rifulgente dei programmi dei canali privati. Gli anni del riflusso corrispondono difatti al periodo della penetrazione della televisione commerciale, sono gli anni di quella che potremmo chiamare la “rivoluzione di Drive In”.

 Diciamo una parola impegnativa: “sinistra”. Mi pare che dietro le quinte di molta televisione privata e locale della fine degli anni Settanta, ci fosse un gran lavoro, anche con risvolti sperimentali, (svolto egregiamente) da parte di molti nomi riconducibili a quello schieramento politico (un riferimento che varrà per tutti gli altri: Gino&Michele per Antenna 3). Tuttavia quelle tv locali, a ben guardare, interpretavano proprio quel comune sentire che avremmo ritrovato anni dopo come collante, per esempio, di ideologie e forze politiche schierate sul fronte opposto a quello della sinistra. Miopia? Incapacità di comprendere il presente e di utilizzare il mezzo?
Credo che uno dei temi decisivi afferisca al problema dell’aggregazione di grandi quantità e numeri elevati di individui: lo si chiami consenso democratico, audience tv, populismo plebiscitario, sotto forme diverse, la finalità rimane, però, di fatto la medesima. E quando la tv cerca di fare grandi numeri (ovvero pressoché sempre, con l’eccezione dei casi in cui si fa davvero servizio pubblico, e qui emerge l’ennesima anomalia italiana) utilizza linguaggi e contenuti molto basic che solleticano gli istinti. Come dicono, con l’usuale e neanche troppo esecrabile cinismo, autori e programmisti del piccolo schermo, se si vuole fare impennare l’audience bisogna inserire dosi abbondanti di violenza, sesso e scherno nei confronti dei potenti, i tre ingredienti che producono miracoli sulle percentuali dell’ascolto televisivo. Sono gli elementi di base, davvero “istintuali”, per molti versi, che ritroviamo ogni qual volta qualcuno punta a ottenere score elevati di audience. Così fu, in taluni casi, per certe tv locali, infatti, destinate a confluire, una dopo l’altra, nel nascente Biscione catodico berlusconiano, ma anche, sia pure più in fase iniziale e in misura meno massiva, per altre televisioni le cui proprietà guardavano con maggiore simpatia a sinistra. È proprio questa logica che, se non viene spezzata, riduce la televisione a puro strumento di promozione commerciale di prodotti e, sulla base degli stessi principi, a potentissimo instrumentum regni di chi ha, come primo obiettivo, quello di allargare imperi economici che sono in contrasto con le stessi leggi della concorrenza e del mercato.      

 Nell’accezione classica, il politico conservatore tendeva ad una visione moraleggiante e moralista del mezzo televisivo. Mi viene in mente Bernabei che ordinava di far coprire, con una pesante calzamaglia nera, le gambe delle Kessler. Oggi il politico conservatore non ha nessuna remora ad apparire in televisione in contesti molto simili a certo avanspettacolo postbellico. Ci è sfuggito qualcosa o questo fa parte del più generalizzato superamento degli schemi ideologici?
Quello a cui fai riferimento è, per l’appunto, il politico classicamente conservatore, la destra classica, moraleggiante. Dagli anni Ottanta il potere è stato conquistato da destre radicalconservatrici o neocon (a cominciare da Reagan negli Usa) che all’adesione formale a una visione moralistica affiancano molti distinguo e tante eccezioni, sul piano della condotta personale, come sempre, ma anche del livello di riorientamento dell’immaginario. La mercificazione del corpo femminile, dalle tv berlusconiane alla stampa tabloid popolare inglese o tedesca, diventa un pilastro, per la sua capacità di attrazione (già ampiamente sfruttata in termini commerciali e di vendita dei prodotti), e quindi dilaga, contravvenendo a quelli che erano i principi (quanto meno formali…) delle destre di matrice cristiana o liberale tradizionali. Siamo nel mondo postmoderno, del relativismo valoriale, e questa nuova destra, che è stata una delle responsabili di questo mutamento epocale, ci sguazza perfettamente a proprio agio e con una formidabile strumentalità. Vogliamo citare, solo per venire a un caso recentissimo e di cui tutti stanno parlando, il cosiddetto “bunga bunga”, espressione che già nella sonorità e dal punto di vista semiotico ci restituisce un’idea di quanto la corruzione linguistica si sia strettamente intrecciata con il degrado politico e morale in cui è scivolato questo nostro Paese?  

 La figura del rivoluzionario, magari trotzkista, che si trasforma in ricco produttore televisivo è una caratteristica di certo film d’oltralpe. Credo sia un esempio che ben si collega a quella mutazione (nei fini ma non nei mezzi) di certo situazionismo che citi nel tuo L’egemonia sottoculturale. Nei cupi “anni di piombo” uno dei proclami del gruppo Baader-Meinhof era: “battere la borghesia utilizzandone i mezzi”, con riferimento soprattutto alla stampa. Mi pare che oggi si possa dire che è stata la borghesia a sconfiggere il proletariato utilizzandone l’immaginario e i desideri. Al punto che, forse, non ci sono più né l’una né l’altro. Il punto d’incontro è forse quella Italia neorealitista e coatta ci cui parli nel tuo libro? Un tatuaggio e un piercing hanno “fatto” gli italiani più di Cavour e di Garibaldi?
Sono d’accordo, penso che siano cambiate radicalmente e in profondità le strutture sociali, al punto che della borghesia nell’accezione otto-novecentesca non rimane granché (e figuriamoci del proletariato…). Mentre la divisione della società tra i privilegiati (sempre più forti e ricchi, e numericamente sempre di meno) e i deboli non solo permane, per l’appunto, ma si è postmodernisticamente molto ampliata e allargata rispetto ai decenni dei “Trenta gloriosi” (1945-1975) del capitalismo fordista e keynesiano e del “compromesso socialdemocratico”. Rapporti di forza sbilanciatissimi, ristrutturazione castale, per molti versi, della società, ma un trasversalismo (anche anagrafico) dei supposti stili di vita e soprattutto di quelli di vestirsi – l’ideologia della moda ha cominciato a diffondersi a partire dagli anni Ottanta, l’epoca d’oro degli stilisti italiani, ricordate? Fino alla pretesa “democratizzazione” delle marche acquistabili negli outlet… L’Italia diventa così una sorta di “Repubblica (del televoto) fondata sulle canotte di Dolce e Gabbana”, ed elegge a maestri di stile e ad arbitri di eleganza (per tutti quanti, dai 16 ai 60 anni) i tronisti dei programmi di Maria De Filippi. A essere moralisti, verrebbe proprio da commentare o tempora, o mores… E, dunque, nel Paese neorealitista, un tatuaggio o un piercing “fanno” i neoitaliani più di quanto siano riusciti a fare, esattamente 150 anni fa, Cavour e Garibaldi. Non è molto consolante, non trovi?

 L’Italia, come tu dici, è un paese perennemente in bilico tra arcaismi e postmodernismi. In bilico fra un’idea vaga del proprio passato ed un’idea altrettanto evanescente del proprio futuro. Siamo, in buona sostanza, un paese in perenne fuga dalla concretezza.
E così, come una volta si sognava “il paradiso dei lavoratori”, oggi si sogna  un posto da “tronista” o da “velina”. Riusciremo mai a focalizzare i nostri destini di nazione sulla concretezza del presente, uscendo finalmente dal circolo vizioso arcaico/postmoderno? 
È un tema davvero epocale per questo Paese dall’unificazione fragile e incerta, di cui si dovrebbe festeggiare proprio in questo periodo la ricorrenza (e la polemica politica pretestuosa che contraddistingue persino il 150esimo dell’Unità mi pare assai indicativa di un Paese irrisolto, per usare un eufemismo…). Ed è, soprattutto, un tema inaggirabile per una sinistra (o un mondo progressista) che intenda “fare il suo mestiere” e svolgere la sua funzione storica di “incivilimento” di una nazione e di una popolazione. Ecco perché penso che dare vita a una comunicazione “di tipo pedagogico”, ovvero che, senza autoritarismi, insegni a sviluppare strumenti critici rispetto allo stato delle cose che ci circonda, debba costituire uno dei nuclei essenziali di una politica progressista, in assenza del quale rischia di ritrovarsi troppo depotenziata, se non, tout court, priva di senso e di una missione. Recuperare il gap che ci divide e allontana dalle nazioni normali, quelle che hanno esperito fino in fondo, assorbendola e facendone tesoro, la lezione della modernità (fondamentalmente figlia dell’Illuminismo) appare, ogni giorno che passa, in questo nostro Paese, sempre più complicato. E questo, ritengo, dovrebbe rappresentare un altro dei compiti essenziali e costitutivi del lavoro politico della sinistra.        


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