mercoledì 26 gennaio 2011

Il sitplot senza confine di Roberto Bolaño

  Tommaso Pincio

il manifesto 26/1/2011 e Minima  Moralia
recensione de Il Terzo Reich

La voce si sparse rapida nell’ottobre 2008. Fra le carte del defunto Roberto Bolaño era spuntato un dattiloscritto di cui si ignorava l’esistenza. Andrew Wylie, la cui potente agenzia aveva da poco cominciato a rappresentare l’opera dello scrittore cileno, lo stava mostrando alla fiera di Francoforte. Non era un testo incompiuto né abortito, bensì un romanzo fatto e finito, un testo completamente redatto e con tanto di correzioni, ma per qualche inspiegata ragione non aveva mai raggiunto le stampe.

Il titolo, Il terzo Reich (Aldephi, trad. Ilide Carmignani, pp. 325, euro 20), non poteva non mandare in solluchero gli appassionati, giacché nel poliedrico mondo di questo scrittore il tema del nazismo è di casa quanto lo sono vecchie usuraie e gioco d’azzardo nelle pagine di Dostoevskij. Sul momento si ipotizzò che il testo fosse una parte apocrifa di 2666, l’ultima, mastodontica fatica dell’autore, anch’essa pubblicata postuma. Ipotesi errata. Si tratta invece di una giovanile incursione nella narrativa risalente agli anni Ottanta e nella quale lo scrittore sembra rimasticare un romanzo di Philip K. Dick, Tempo fuori sesto, che ha per protagonista un pacioso individuo, campione di un gioco a premi che compare ogni mattina sulle pagine del quotidiano locale.

Un set denso di mistero
Terzo Reich è giustappunto un gioco, un wargame, che ripropone gli scenari della Seconda guerra mondiale e del quale Udo Berger, giovanotto tedesco in vacanza in un piccolo centro sulla Costa Brava in compagnia della sua bella fidanzata, è un profondo conoscitore. Come avviene nei romanzi di Dick, la cappa sonnacchiosa di questo luogo di villeggiatura si colora a poco a poco di un mistero indefinibile. Gli eventi ci vengono riferiti, in forma diaristica e non aliena da una certa pedanteria, da Udo in persona, il quale, anziché godersi il mare e l’amore, preferisce starsene chiuso in albergo a elaborare nuove strategie. L’immersione in questo mondo speculativo lo aliena dalmondo circostante rendendolo un narratore inaffidabile, per cui ci è impossibile stabilire in quale misura gli strani personaggi che entrano in scena siano reali o un parto della maniacale fantasia di Udo.



Fatto sta che nel giro di poche pagine, senza quasi capire come, l’albergo ci appare come un luogo da fare invidia al sinistro Overlook Hotel di Shining. Un amico della coppia scompare d’improvviso in mare e riappare, forse, cadavere. Ma il vero mistero è costituito dagli abitanti: giovani spagnoli perdigiorno, una direttrice d’albergo dai modi strani sposata a un uomo costretto in camera da un oscuro male e, soprattutto, un noleggiatore di pattìni dal corpo orrendamente sfigurato. Udo cade lentamente in uno stato di intontito irretimento. Senza troppa pena lascia che la fidanzata rientri da sola in Germania e mentre la cittadina si
spopola per l’approssimarsi dell’autunno, lui resta, gioca a Terzo Reich con il noleggiatore di pattìni, flirta con scarso costrutto con la gelida alberghiera, subisce con incomprensibile passività l’impalpabile quanto minacciosa morsa di ostilità che lo circonda ogni giorno di più.

Debitore di Friedrich Dürrenmatt, rievocato in esergo col racconto «La panne », il romanzo, pur non essendo un capolavoro assoluto, è di grandissima qualità. Anticipa atmosfere dimorbosa inquietudine divenutemolto popolari negli anni Novanta grazie a David Lynch nonché i temi ricorrenti delle opere più note dell’autore: l’ubiquità del male, la violenza, tanto quella realmente perpetrata che quella potenziale, l’irresistibile fascino della trasgressione, l’irreale inattualità dello scrivere, l’amicizia. È insomma possibile scovarvi i prodromi di ciò che ha reso Bolaño un cosiddetto autore di culto.

«Il problema, nella letteratura come nella vita, è che uno finisce sempre per diventare uno stronzo». Recita all’incirca così una delle sue massime più ricordate. Assurgere allo stato di scrittore di culto non è forse la stessa cosama determina comunque una cortina fumogena che, quantunque benevola, rende disagevole cogliere la poetica di un autore rimasto per molto tempo lontano dalle luminarie del successo. Per buona parte della sua breve esistenza fatta di povertà, esilio costante e malattia, Bolaño scrisse con abnegazione quasi furiosa nella frustrante convinzione che soltanto l’oblio lo attendesse al di là dell’estremo cancello. E invece, nel volgere di pochi anni, per Bolaño il vento è cambiato.

Si dice spesso che ha aperto nuove strade alla narrativa ma in cosa esattamente consista questa novità rimane in parte offuscato proprio dall’ingombrante aureola del culto che tanto repentinamente lo ha avvolto. Un primo motivo salta evidente da uno sguardo, anche solo fugacissimo, alla biografia. Cileno, classe 1953, figlio di un pugile dilettante e di un’insegnante che lo ha sempre incoraggiato nella sua vocazione letteraria, si ritrova, ancora adolescente, in Messico dove trascorre intere giornate in biblioteca. Torna in patria quasi ventenne, giusto in tempo per godersi il golpe di Pinochet. Incarcerato per attività sediziose, viene liberato da uno dei poliziotti che avrebbero dovuto sorvegliarlo. Ripara nuovamente in Messico e insieme a una masnada di poeti e artisti, tutti anarchici irredimibili, fonda il movimento dell’Infrarealismo animato dal nobile intendimento di «far saltare in aria il cervello della cultura ufficiale». Emigra poi in Spagna dove si adopera in ogni sorta di lavori, molti dei quali umilissimi, allo scopo, forse non altrettanto elevato ma comunque primario, di sbarcare il lunario. Varcata la soglia della mezza età, proprio quando il suo nome comincia a udirsi nei circoli letterari, fa una tremenda scoperta: alcuni perniciosi eccessi di gioventù, su tutti il consumo di eroina ,  lo hanno minato seriamente nel corpo. Una malattia degenerativa del fegato gli concede pochi anni di vita, tempo che egli sfrutta al massimogettandosi a capofitto in una maratona scrittoria, matta e disperatissima, che ha allo stesso tempo il senso alto di consegnare un segno significativo al ricordo dei posteri e quello più pratico ma non certo indecoroso di lasciare una qualche rendita alla prole.

Emerge dunque l’immagine di un uomo a cavallo tra due mondi e, soprattutto, due epoche. La giovinezza avventurosa, anarchica, fatta di lotte e fughe da dittature che strangolano il popolo dell’America latina, è un tipo di vita già noto, novecentesco, simile a quello di tanti altri poeti e artisti. Di primo acchito anche la fase della maturità parrebbe ricalcare, col suo trasferimento in Europa, un percorso mutuato dalla lunga tradizione modernista, quello dell’esule. Tuttavia, soppesando più da vicino il Bolaño di fine millennio, quello che fa il lavapiatti, il netturbino, il guardiano di campeggio, il fattorino d’albergo, quello che a quarant’anni pubblica il suo primo romanzo, quello che d’improvviso si ritrova con una spada di Damocle sopra la testa e scrive con foga per i propri figli, scopriamoun uomo più contemporaneo; un uomo ossessionato dal tempo che corre e dal denaro che manca, un uomo da villaggio globale, più migrante che esule. E infatti, in un’intervista rilasciata poco primadi morire, affermò che non riconosceva altra madrepatria se non i suoi figli e «forse», sullo sfondo, «certi momenti, certe strade, qualche faccia, una scena, un determinato libro...».

Questa condizione di migrante, di reduce da una gioventù scapestrata che costruisce un centro di gravità tutto suo, composto di affetti e di ricordi, è un aspetto che non va sottovalutato perché va dritto al cuore della condizione tipica di un’epoca in cui il disincanto, seguito al tramonto di troppe fedi e utopie e segnato da emergenze tutte materiali, obbliga le persone in perimetri sempre più ristretti e immediati. Tutto ciò non è affatto in contraddizione con l’universo spesso estremo e visionario che lo scrittore mette in scena

Le scorribande dei suoi personaggi, quasi sempre impegnati nella ricerca di poeti scomparsi o misteriosi, reliquie di una avanguardia che non c’è più, inciampano fatalmente in una prostituta da salvare o in qualche altra distrazione pulp. «Questa sarà una storia del terrore. Sarà una storia poliziesca, un noir un racconto dell’orrore. Ma non sembrerà... Sono io a parlare e quindi non sembrerà». È l’incipit di Amuleto. Parole fulminanti che condensano lo stile Bolaño, uno stile dove sono presenti per l’appunto il noir, il thriller e non di rado il porno, ma anche digressioni di ordine estetico ed etico, sulla natura della poesia e del vivere da poeti. E se i suoi libri non sembrano mai davvero digressivi né davvero contaminati dai bassifondi della cultura pop, se alla fine sembrano altro, qualcosa di misteriosamente nuovo e diverso, è proprio perché a raccontare è lui, o meglio i vari e scombinati narratori cui lui, Bolaño, presta la propria voce. Nelle sue pagine salta sempre fuori un ricordo, un aneddoto, un sogno, un dettaglio qualsiasi che sa prepotentemente di verità, anzi no, d’intimità; pezzi di sé che lo scrittore si strappa dalla storia della sua vita come a dire: «Attenti, tutto ciò non è soltanto un capriccio, un’invenzione, un romanzo. Qui ci sono io». E questo io è percepito come un limite estremo, quasi che i ricordi e gli effetti personali siano l’estremo baluardo, un’ancora di salvezza dalla precarietà, tanto economica che sociale, dell’umano esistere al tempo della devastazione globale.

L’altro aspetto che rende attuale l’opera di Bolaño è lamancanza di una dimensione precisa. I suoi libri paiono privi di un confine, e non tanto perché alcuni – vedi I detective selvaggi e 2666 – sono particolarmente lunghi, quanto perché nel procedere della lettura la prospettiva che la storia punti a una conclusione, a una fine di qualche tipo, ci appare sempre più remota, indistinta, irreale, insignificante. Le trame dei suoi romanzi si evolvono, si complicano, scoppiettano, non lesinano i colpi di scena. Eppure restano sospese in una sorta di strana staticità, come in una frenetica corsa su un tapis roulant.


Intrecci inchiodati al loro vortice Si potrebbe coniare un neologismo per rendere meglio l’idea: il sitplot, il situation plot. Un particolare tipo di narrazione dove la trama, anziché costituire il motore della storia, serve a definirne lo sfondo, l’umore, il termometro culturale ed emotivo. Alla maniera delle sitcom, dove i personaggi vivono in uno spazio unico e immutabile, gli intrecci di Bolaño appaiono inchiodati al loro vorticare. Non è più dunque importante quante pagine si siano lette o quante ne manchino alla conclusione, giacché ogni pagina assorbe in sé ciò che abbiamo già letto e ciò che leggeremo. La suamodernità consiste nella stretta somiglianza con la lettura allo schermo, cui diveniamo ogni giorno più avvezzi, lettura nella quale il testo diventa uno scorrere fluido e la cui lunghezza non è più un fatto fisico immediatamente percepibile, determinato dalla pesantezza e dal numero di pagine di un volume, bensì un’esperienza in continuo divenire, simile allo scorrere del tempo nell’eternamutazione del presente. Un presente che divoriamo incessantemente, spinti da una foga cognitiva non molto diversa da quella che tiene ancorato Udo Berger ai suoi giochi di guerra: «come se volessimo sapere tutto quello che venne fatto, per cambiare quello che venne fatto male».

NDR
l'affermazione riprende in modo superficiale una notizia falsa circolata per qualche anno nella stampa USA e ampiamente smentita (per chi vuole approfondire puo' leggere questo articolo )
  
 

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