sabato 31 luglio 2010

Rick Moody: Ma i libri di carta resisteranno

   Rick Moody - 17 luglio 2010  


Il Sole 24ore  

ma i libri di carta resisteranno

"L'iPad, il contributo della Apple al mercato delle tavolette digitali, è bello da vedere, non c'è che dire. Ho una bambina di sedici mesi e so che l'iPad è esattamente quel tipo di cosa per cui farebbe il diavolo a quattro, proprio come fa con lo smartphone di mia moglie o con i vari telecomandi della tv e dei marchingegni connessi. Ma un bel design è davvero un importante contributo allo sviluppo culturale del mondo? A ogni gadget che ci delizia gli occhi deve sempre corrispondere un esborso di capitale?
L'iPad è più pesante di molti libri e anche più delicato (siamo proprio sicuri di volerlo portare in spiaggia?), dev'essere ricaricato e in aereo va spento durante decollo ed atterraggio.
L'iPad è al centro del dibattito sul futuro del libro e il timore è naturalmente che i libri di carta - quegli oggetti che tappezzano le pareti di casa mia -, verranno in qualche modo rimpiazzati da prodotti equivalenti all'iPad (o al Kindle di Amazon e al Nook di Barnes and Noble). Ma finora, di fatto la percentuale di acquisti legati all'iPad direttamente correlati ai libri elettronici, è piuttosto bassa. Sono diverse le ragioni per cui molti bibliofili continuerebbero a scegliere la carta stampata. Innanzitutto l'iPad è più pesante di molti libri e anche più delicato (siamo proprio sicuri di volerlo portare in spiaggia?), dev'essere ricaricato e in aereo va spento durante decollo ed atterraggio.
Inoltre il libro è già una tecnologia flessibile e centrata sul lettore: possiamo scorrerlo, sfogliarlo, scriverci sopra, in altre parole è più facile personalizzare l'oggetto, impadronirsene che con il seducente, ma alla fin fine inutile, iPad. Per il libro è stato così da qualcosa come cinquecento anni. E nel caso della letteratura, dove il coinvolgimento al testo è più complesso e meno legato all'intreccio narrativo, il rapporto con il libro è già dinamico e creativo di per sé. E' un rapporto che si rinnova ogni giorno con l'avanzare del progresso nella storia della letteratura.
Ma, un momento, diranno i difensori dell'iPad, il testo può essere corredato da audio e video, e si potranno scegliere font, colori e immagini! E se un lettore non desiderasse tutto questo? Dopotutto sono solo ammennicoli e il testo letterario non è un film. E' il cinema che si fagocita sempre altre forme per poi sputarle dopo averle parzialmente digerite. Dall'avvento del cinema, il romanzo ha sfruttato quello che sa fare meglio (svariate angolature, interiorità, descrizione della consapevolezza) in un modo semplicissimo: attraverso le parole sulla pagina. Immagino che continuerà a farlo e poiché la carta è ancora il mezzo più stabile e affidabile per immagazzinare un testo (basta paragonarla per esempio al floppy disk che non dura più di dieci o quindici anni, mentre i volumi stampati nel 1800 sono ancora leggibili). E se il libro non è attraente come l'iPad, poco importa. Con i libri, come in amore, la bellezza esteriore non sempre conta."


©  Rick Moody - Il Sole 24 Ore Domenica", 11/07/'10
 



A. tarquini La dittatura digitale - intervista a F. Schirrmacher

  intervista di Andrea Tarquini a Frank  Schirrmacher - 1 dicembre 2009



La repubblica   - - - -

LA DITTATURA DIGITALE


Il flusso d' informazioni, il dominio dei computer, di internet, del mondo digitale, minaccia di sommergerci e renderci schiavi dell' intelligenza artificiale. Il genere umano deve difendersi, ha fretta di pensare a strategie per affrancarsi e riappropriarsi dell' emotività e dell' imprevedibilità, valori costitutivi che l' intelligenza umana ha e quella delle macchine no. Oppure soccomberà ai motori di ricerca. 

E' la tesi che Frank Schirrmacher, direttore della Frankfurter Allgemeine, espone nel suo nuovo libro, Payback, il saggio sociopolitico del momento in Germania. Ascoltiamolo.
Dottor Schirrmacher, internet e i computer dunque sono non più una conquista ma un' oppressione da cui dobbiamo liberarci? 
«Oggi comunichiamo, leggiamo e scriviamo solo con i computere la rete. Mai computer non sono solo computer, bensì gigantesche reti di dati. Da alcuni anni è possibile, grazie all' immensa mole di informazioni in rete, elaborare calcoli molto precisi sugli individui. Veniamo sempre più trasformati in formule matematiche. La domanda è chi governa chi: noi il computer, o il computer noi? Nelle nostre società il multitasking, fare le cose più diverse contemporaneamente, è diventato una religione. Sms, e-mail, più finestre aperte sul computer e sempre in rete. Adesso cominciamo a renderci conto che il cervello umano non è in grado di padroneggiare costantemente questo processo».

Con che conseguenze?
«Questa inondazione di flusso d' informazione ha effetti negativi, si vedono specie tra i giovani: smemoratezza, disturbi nella concentrazione, disturbi nella comunicazione e l'incapacità di riconoscere da soli quali informazioni sono importanti e quali no. Riceviamo passivamente tutto senza più sapere di quali informazioni abbiamo bisogno. E' un cambiamento epocale. Molti dicono che esagero, mi invitano a spegnere il cellulare. Ma la rete è così cresciuta che chiunque ci giudica con l' aiuto delle macchine. I datori di lavoro hanno accesso a talmente tanti dati personali da poter decidere con l' aiuto della rete e del computer quali dipendenti lavorano bene insieme e quali no, quali vanno promossi e quali emarginati o licenziati. E provi a ordinare un libro da Amazon: arriva subito dopo la prossima offerta mirata d'acquisto. Ben altro che non andare in libreria a scegliere da soli un libro».

E nel mondo del lavoro?
«In America appunto, con i dati personali dei dipendenti, le macchine dicono ai dirigenti aziendali quali dipendenti hanno facoltà e caratteristiche simili, suggeriscono di promuovere questo, di licenziare quest'altro che tra cinque anni sarà buono a nulla. Il dominio del calcolo matematico sugli individui e sulla mente umana si estende in ogni campo, e ciò è molto pericoloso».

Teme più computere software o computer e motori di ricerca?
«Sono cresciuti insieme, in sinergia, si complementano. Ora abbiamo l' internet in tempo reale. Fino ai cellulari. Solo i motori di ricerca possono governare un simile volume d'informazioni. Ma il motore di ricerca non è un essere umano, bensì solo un software. Adesso ti aiuta a scegliere un buon ristorante o acquisti. Ma presto giudicherà quali esseri umani sono buoni e quali cattivi o pericolosi o inutili. I primi passi, pur necessari quanto vuole, li vediamo nell' uso di computer e motori di ricerca nell'analisi per la lotta al terrorismo. Vedo un pericolo: disimpariamo a vivere nella dimensione dell' imprevedibile, momento costitutivo dell' essere umano».

Il rischio è dunque perdere o atrofizzare l' imprevedibilità dell' anima e delle emozioni?
«Assolutamente. Questo è il problema, questo è il pericolo. E' un circolo chiuso. Tra qualche anno emergeranno dirigenti d' azienda o personalità dei media o politici che penseranno adeguandosi alle macchine. E improvvisamente sarà importante solo quanto rientra negli schemi di computer e motori di ricerca. In America le diagnosi elettroniche dei motori aiutano molti medici, ma il medico tradizionale ha un' esperienza diretta insostituibile per curare e guarire ogni singolo diverso paziente. Se rinunciamo all' imprevedibilità, all' elemento incalcolabile della mente umana, vivremo in un mondo in cui tutto è predestinato e deciso dalla matematica. Gli uomini si trasformeranno in realtà matematiche. Anche nel giornalismo, specie digitale, già lo vediamo: su molte testate l'inizio del pezzo deve essere scritto con certe parole-chiave secondo certi canoni, in modo che Google o gli altri motori di ricerca lo capiscano e lo captino. Cioè scriviamo per le macchine, non più per i lettori. Urge riflettere».

Quasi il pericolo di un totalitarismo digitale?
«Assolutamente. Strowger, uno dei massimi matematici americani, ha detto che la matematica negli ultimi anni ha risolto problemi di estrema complessità grazie ai computer, ma ormai conosce solo la soluzione, non il processo matematico che vi ci porta. Questo conduce a un nuovo autoritarismo delle macchine. E' pericolosissimo: può imporsi nella biologia, in ogni altra scienza, fino alla politica. Internetè importante e utile, ma sbagliamo a considerarlo un giocattolo. E' uno spazio vitale perfettamente capitalista. Google è una multinazionale per cui milioni di persone lavorano di fatto gratis. Come all' alba del capitalismo. Il mondo digitale ricorda la società industriale del 18mo secolo, con tutte le sue realtà di sfruttamento e accettazione di massa dello sfruttamento».

Ricorda un po' 1984 di Orwell o Il mondo nuovo di Huxley?
«Al tempo: non è Orwell, che in 1984 descrive una dittatura fatta di divieti, di libri proibiti. E' invece Huxley: nel suo "mondo nuovo" alla gente non è vietato leggere libri, ma nel nuovo modello di vita la gente non ne ha più voglia. Ecco la sfida: un bel mondo nuovo, seducente, in cui come nelle pagine di Huxley le emozioni di fatto sono proibite e il divieto implicito di ogni curiosità o emozione è accettato, ritenuto naturale dalla gente. Non sono contro internet ma l'aggressività che vi domina è un fenomeno della comunicazione digitale, e problemi di memoria e di concentrazione derivanti dall' uso della rete e del computer possono produrre una demenza digitale di massa. Siamo sempre più dipendenti dalle macchine. L' altro giorno ho chiesto a un collega quale musica preferisce. Non ha risposto subito, non aveva risposte spontanee pronte. Ha dovuto prima leggere sul suo Blackberry la lista dei brani scaricati. La comunicazione tra macchine e uomini può diventare come la musica. Larry Page, fondatore di Google, ha detto anni fa che la sua aspirazione è connettere Google direttamente col cervello. Quando i fratelli Wright fecero volare il primo aereo, non prevedevamo il livello tecnologico dei jet di oggi e il loro ruolo nel nostro quotidiano, invece la realtà è cambiata a fondo».


È un pericolo anche sulla scena politica?
«Cambia a fondo il modo di far politica. Angela Merkel già governa con gli sms».

Come possiamo difenderci?
«Per la prima volta nella Storia affrontiamo una nuova legittimazione di arte e creatività. Dobbiamo difendere i nostri concetti costitutivi: i computer non sono creativi né tolleranti, né hanno fantasia. Ecco i valori da difendere, che hanno un' incredibile importanza per il futuro delle nostre società. In scuolee università non dobbiamo più insegnare nozionismo su geografia e storia, ma il modo di usare il pensiero, l' emozione, le intuizioni. Così abbiamo la chance di governare noi la simbiosi con la dimensione dei computer. Prima che i computer ci dicano a quale concerto andare o quale donna sposare. Già adesso il successo dei portali che offrono la ricerca e la scelta dell' anima gemella calcolando tutto con algoritmi sui dati personali è inquietante».

Quindi dipende da quanto l' umanità saprà o vorrà difendere imprevedibilità ed emozioni?
«Esattamente. E da quanto l' umanità onorerà e retribuirà questi sentimenti-valori. Devi sapere e ricordare che quanto ti indicano i tuoi sentimenti e il tuo intuito è più importante dei calcoli di Google. E' decisivo non trasformarsi in matematica. Leggere, concentrarsi, la meditazione, saranno i nostri strumenti di difesa decisivi».

© ANDREA TARQUINI


"la mia battaglia con Internet " conversazione con Rick Moody

 Gianluigi Ricuperati: conversazione con Rick Moody  - 31 gennaio 2010  


Il sole 24ore   


«Ci sono cose, in questo mondo sfinito e tassabile, che possono essere dette solo attraverso un'interfaccia restrittiva e con il minor numero di caratteri possibile». 
Così comincia Some contemporary carachters, il racconto-twitter di Rick Moody, testo discusso, avversato, rilanciato nella rete che cinguetta senza sosta i messaggi in 160 battute. Pubblicato su «Electric Literature», rivista americana diffusa su iPhone, web e Kindle, il racconto ha dato origine a quella che forse verrà ricordata come una delle prime polemiche dell'era in cui la civiltà culturale ha davvero invertito la marcia delle proporzioni fra digitale e fisico. Da qui è chiaro: stiamo passando da un oceano di carta a un'isola di carta; ma a parlarne, stavolta, non è l'ennesimo futurologo, o un «acuto interprete dei mutamenti che viviamo ogni giorno».

Enrique Vila-Matas: al di la di Gutemberg

Enrique Vila-Matas - maggio  2010  


Sagarana   - - - -


– Lo scrittore spagnolo riflette in questo testo sul futuro dei manufatti stampati, cercando di difendere uno spazio ipotetico tra l’universo Gutenberg e il pianeta Google –

Al di la di Gutemberg


Sto tornando a casa dopo un giorno molto impegnativo, in cui non ho mai smesso di rispondere e rispondere – sempre con la stessa risposta, memorizzata a perfezione, pronunciata in modo meccanico – alle domande dei giornalisti sul futuro del libro stampato. Me lo merito per aver scritto un romanzo che tratta del passaggio da Gutenberg a Google. Durante il giorno, mi sono chiesto varie volte che ne sarebbe stato di Kafka se avesse dovuto rispondere a mille interviste perché aveva raccontato che Gregor Samsa un giorno si ritrovò nel suo letto trasformato in un mostruoso insetto, con una schiena dura come un guscio e un ventre bombato. Mi immagino Kafka che si sentiva fare mille volte la stessa domanda:

Hasan Atiya Al Nassar: la poesia dei migranti

  Hasan Atiya Al Nassar 2005  


casa del vino   - - - -


La poesia dei migranti vista da un poeta esule iracheno*
di Hasan Atiya Al Nassar


“Non v’è pane; né sorso d’acqua, né fuoco estremo;
due sole cose vi sono: l’esiliato e l’esilio”

Gridava Seneca nella Corsica ‘terribile’ e ‘crudele’. Mentre Dante, nel Paradiso, ricordava i passi più duri del suo cammino di fuggiasco:
“Tu lascerai ogni cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo esilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e il salir per l’altrui scale”.

Edward W. Said: riflessioni sull'esilio

  Edward W. Said -   2003  


sagarana nr 33 - 2008   - - - -

riflessioni sull'esilio


L'esilio è singolarmente stimolante da pensare ma terribile da speri­mentare. È l'insanabile frattura scavata tra un essere umano e un luogo na­tio, tra il sé e la sua vera casa: la sua intima tristezza non può mai essere sormontata. E se è vero che la letteratura e la storia riferiscono di eroici, romantici, gloriosi, perfino trionfanti episodi in una vita da esule, questi non sono altro che sforzi diretti a superare i dispiaceri invalidanti del­l'estraniamento. I successi dell'esilio sono permanentemente inficiati dalla perdita di qualcosa che ci si è lasciati per sempre alle spalle.

Ilaria Vitali: il mancato ritorno

   Ilaria Vitali   

Sagarana nr 13 - 2003   - - - -

Il mito dell’esilio e le sue demistificazioni nell’opera
di Milan Kundera 

Topografia dell’emigrazione
 
Avvicinandosi ad un autore come Milan Kundera è legittimo porsi delle domande: domande sulla sua “doppia” appartenenza, sulla delicata questione dell’esilio, sulla sua condizione di émigré proveniente da un paese occupato, stabilitosi in Francia verso la metà degli anni settanta. A queste questioni se ne aggiungono altre, questioni filologiche: l’abbandono della lingua madre, il ceco, e la scelta del francese, questioni ancora più sentite nell’opera di un autore che ha sempre mostrato un grande interesse nei confronti della “parola” e che ha fatto della riflessione sulla lingua non solo una tecnica narrativa, ma il punto di partenza della riflessione e dell’interrogazione esistenziale. In cosa consiste dunque la vita di un émigré, soprattutto quando si tratta di uno scrittore? Che cosa s’intende con il termine “esilio” al di là del mito o dell’accezione comune? È possibile tracciare una topografia del romanzo legata all’emigrazione di grandi autori come Nabokov, Rushdie e altri, che con le loro opere hanno ampliato orizzonti e confini di letterature e culture diverse da quelle di origine?

Vera Linhartová: PER UNA ONTOLOGIA DELL’ESILIO

  Vera Linhartová - 10 dicembre 1993  

SUD nr 8   - - - -

PER UNA ONTOLOGIA DELL’ESILIO

traduzione di
Francesco Forlani e Paolo Trama

Per venticinque anni, finché la questione sembrava d’attualità, mi sono sempre astenuta dall’affrontare l’argomento dell’‘esilio’. Non soltanto mi pareva secondario rispetto alla mia situazione, ma per di più ero da sempre convinta che si trattasse di una nozione inadeguata e superata. 

La mia convinzione è del resto immutata. Se, nonostante tutto, ho accettato di rifl ettere oggi sulla questione, è innanzitutto perché presumo che, nel pensiero umano, non ci siano argomenti proibiti, ma, sopra ogni altra cosa, perché considero che una messa a fuoco potrebbe tornare utile. A mio avviso, si interpreta troppo spesso il termine ‘esilio’ con sentimento o passione, senza tentare di analizzarlo in modo critico. 

Milan Kundera: la terra degli scrittori

  Milan Kundera  

Sagarana nr 22 - 2006   - - - -

La terra degli scrittori

Vera Linhartova era negli anni '60 una delle scrittrici più ammirate in Cecoslovacchia, poetessa di una prosa meditativa, ermetica, inclassificabile. Dopo il 1968, avendo lasciato il proprio paese per Parigi, ha cominciato a scrivere e a pubblicare in lingua francese. Conosciuta per la sua natura solitaria, ha sorpreso tutti i suoi amici quando, recentemente, ha accettato l'invito dell'Istituto francese di Praga e al colloquio consacrato alla problematica dell'esilio ha pronunciato la sua comunicazione. E' quanto di più non conformista e di più lucido io abbia mai letto su questo tema.

Massimo Rizzante: dopo l'esilio - 1. primavera del 1994

Massimo Rizzante -   

2008
Dopo l'esilio

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1. Primavera 1994


     Era la primavera del 1994.  e la rivista letteraria francese  L’Atelier du roman,  aveva appena pubblicato uno dei più bei saggi che avessi mai letto: Pour une ontologie de l’exil di Vera Linhartová.

     Da qualche tempo mi trovavo a Parigi. Avevo scelto di lasciare l’Italia. Nessuna dittatura mi aveva costretto a questo passo. Il mio era un esilio volontario. Un affare privato, che non interessava a nessuno e che soprattutto non prevedeva condanne in contumacia, confisca dei beni o perdita di nazionalità. Mi trovavo, insomma, dal lato più banale dell’esilio.

Wikinotizie intervista Umberto Eco

   intervista a Umberto Eco -  11 maggio 2010


Wikinotizie   - - - -

Wiki@Home è lieta di presentarvi un'intervista a Umberto Eco. Il professore ha accolto il nostro inviato Aubrey nella sua casa milanese per una chiacchierata su Wikipedia, Internet, collaborazione e, ovviamente, libri. L'intervista si è svolta a Milano il 24 aprile 2010.

W@G - Grazie davvero per la possibilità accordataci. La comunità era da tempo molto interessata a intervistarla, anche perché lei, fra i più importanti esponenti del mondo culturale italiano, è stato tra i pochi a mettersi di fronte ad un'esperienza come Wikipedia senza pregiudizi, sperimentandola, criticandola, comunque utilizzandola. Ha scritto vari articoli a riguardo, l'ultimo se non erro nel 2009. Potrebbe provare a rispiegarci la sua opinione in merito?
 
Eco: - Sono un utente compulsivo di Wikipedia, anche per ragioni artrosiche: quanto più mi fa male alla schiena, quanto più mi costa alzarmi ed andare a cercare la Treccani, e quindi, se posso trovare la data di nascita di qualcuno su Wikipedia, faccio prima.
Sono un utente dell'automobile, non riuscirei a vivere senza, ma questo non mi impedisce di dire quali sono tutti i difetti e tutti i guai dell'automobile.
Io ho fatto una volta una distinzione fra le cose che fan bene ai poveri e le cose che fan bene ai ricchi, dove poveri e ricchi non ha una immediata connotazione in termini di danaro, ma in termini, diciamo, di evoluzione culturale... Diciamo, un laureato è un ricco, un analfabeta è un povero. Ci può essere ovviamente un costruttore edile che è un povero e un impiegatuccio che è un ricco.
Allora, la televisione fa bene ai poveri e fa male ai ricchi: ai poveri ha insegnato a parlare italiano, fa bene alle vecchiette che son sole in casa. E fa male ai ricchi perché gli impedisce di andare fuori a vedere altre cose più belle al cinema, gli restringe le idee.
Il computer in generale, e Internet, fa bene ai ricchi e fa male ai poveri. Cioè, a me Wikipedia fa bene, perché trovo le informazioni che mi sono necessarie, ma siccome non mi fido, perché si sa benissimo che, come cresce Wikipedia, crescono anche gli errori. Io ho trovato su di me delle follie inesistenti, e se qualcuno non me le segnalava, avrebbero continuato a restare lì.

Per Gabriel Ferrater (tradurre poesia di Massimo Rizzante)

 Massimo Rizzante

7 giugno 2010


Da quando nel 2002 ho scoperto l’opera di Gabriel Ferrater, il poeta catalano è diventato un fiume alle cui rive, come affermava una volta Milosz, «quando la vita fa male» ritorno spesso.

In Italia non è molto noto. Anzi, credo sia poco conosciuto perfino dai poeti. In Francia Ferrater è stato presentato e tradotto (Les femmes et les Jours, Editions Du Rocher, 2004) da William Cliff (1940), un altro poeta poco frequentato qui da noi (esiste, credo solo una sua antologia dal titolo Il pane quotidiano, a cura di Fabrizio Bajec, Edizioni Torino Poesia, 2008).

Artista belga francofono (di lui, nel 2002, Gallimard ha ripubblicato le prime due raccolte, Homo sum del 1973 e Ecrasez-le del 1976 e, più recentemente, nel 2007, la raccolta Immense Existence), Cliff fu iniziato alla poesia proprio da Ferrater. In Gran Bretagna la traduzione delle poesie dell’autore catalano si deve ad Arthur Terry (1927-2004). Studioso di letteratura spagnola del XVI e XVII secolo, negli anni Sessanta, in piena repressione franchista della cultura catalana, aveva vissuto un periodo a Barcellona, diventando amico di molti poeti della sua generazione. L’antologia delle poesie di Ferrater, uscita nel 2004 con il titolo Women and days (Arc Publications), possiede un’introduzione di Seamus Heaney che sempre negli anni Sessanta, a Belfast, grazie al professor Terry, aveva avuto modo di conoscere la situazione catalana (per certi versi simile a quella irlandese) e la poesia dell’autore di In memoriam.

In Catalogna e in Spagna Ferrater è un poeta di culto, tanto da essere diventato, a causa della sua vita, diciamo così “dissipata”, e del suo suicidio “programmato” (a 50 anni, in un café di Plaza Prim, a Reus, aveva confidato a un amico, Jaime Salinas, che si sarebbe ucciso prima di compiere 50 anni: «Non voglio puzzare di vecchio. Quel tanfo mi ha sempre ripugnato»), persino un personaggio romanzesco (si veda, ad esempio, Beatriz Miami di José Antonio Masoliver, Anagramma 1991 o Momentos decisivos di Félix de Azúla, Anagramma 2000).

Il fratello Joan, anch’egli uomo di lettere e curatore delle opere di Gabriel, ne traccia con discrezione un profilo: la nascita a Reus nel 1922; l’educazione solitaria; gli anni della guerra civile e l’emigrazione (1938-1941) in Francia, a Bordeaux; le letture in originale degli scrittori e dei poeti francesi; il suo interesse per le lingue (legge in inglese e tedesco) che sfocerà più tardi nella passione per gli studi di linguistica (tradurrà Chomsky e Bloomfield); il servizio militare (venticinque mesi tra il 1943 eil 1946); l’amore per la filosofia (Ortega y Gasset, Husserl, Scheler, Heidegger), la logica (Hilbert, Godel, Russel, Wittgenstein, Carnap, Ayer), la matematica (nel 1947 si iscrive alla Facoltà di Scienze Esatte di Barcellona, ma non terminerà mai gli studi) e per la pittura (alla fine degli anni Quaranta si mette a dipingere e negli anni Cinquanta scrive diversi articoli di critica d’arte); la morte del padre nel 1951; le amicizie con Carlos Barral (poeta e fondatore della casa editrice in cui Gabriel lavorerà come traduttore, fra gli altri di Kafka, e redattore cosmopolita. E’ soprattutto grazie a lui se Gombrowicz riceverà, di ritorno dall’Argentina, il Prix Formentor nel 1967) e Jaime Gil de Biedma; l’incontro con uno dei suoi maestri, Carles Riba; le donne (quasi sempre più giovani); il gin; le letture di Catullo, della poesia medievale (March), di Shakespeare e della poesia di lingua inglese (Donne, Hardy, Frost, Ransom, Graves, Auden), ma anche di Brecht (Gabriel dirà che se Shakespeare gli aveva fatto capire che in poesia «si può dire tutto», Brecht è stato colui che per primo gli aveva fatto comprendere che «la poesia può fare a meno di molti lussi»); le donne (sempre più giovani); il gin; la crisi sentimentale del 1958; l’inizio della creazione poetica; i tre libri di poesia: Da nucis pueris (1960), Menja’t una cama (1962) e Teoria dels cossos (1966), poi riuniti nel 1968 in Les dones i els dies; un serio tentativo di fuga ad Amburgo, come lettore presso la casa editrice Rowohlt; il ritorno dopo un anno a Barcellona; il matrimonio nel 1967 a Gibilterra con la giovane e bellissima Jill Jarrell (che durerà due anni); l’appartamento di Sant Cugat del Vallès (dove si suiciderà); le conferenze e gli scritti di linguistica (Sapir, il più amato, Bally, Kurylowicz, Meillet, Benveniste); la redazione di una grammatica catalana…

Il ritratto più fedele di Ferrater, è tuttavia quello che si trova nelle pagine di F., un memoir romanzesco uscito nel 2003 (Anagramma), scritto da uno degli autori più profondi della Spagna contemporanea, Justo Navarro (1953). Più fedele perché costruito come un’interrogazione su un enigma. Una sorta di rapporto investigativo sulla vita e la morte di quell’enigma longilineo dagli immancabili occhiali neri, grammatico della lingua catalana e straniero in patria, sarcastico e «partigiano della felicità», timido fino alla balbuzie e insolente fino al cinismo, disciplinato come un benedettino in letteratura e autodistruttivo come un adolescente nella vita, nemico in poesia di ogni romanticismo e smisurato nel dilapidare le sue energie nei caffè di Barcellona di nome Ferrater, il quale diceva di conoscere, senza nessuna falsa modestia (questo cane ferito sempre pronto a guaire in ogni scrittore) da dove veniva e come era giunto dove si trovava e che forse proprio per questo affermava che una poesia doveva essere costruita come una lettera commerciale: chiara, lucida, sensata, appassionata (la passione etica che caratterizza chi compie il proprio dovere immaginativo) ed anche divertente, concreta, impersonale (nel senso di storica, non confessionale), ordinaria, fisica, colloquiale, discorsiva (come gli antichi pensava che il contenuto fosse più importante o almeno tanto importante quanto la forma), critica, ironica, avversaria di ogni ideologia, foss’anche quella dell’amore, frutto, insomma, come qualsiasi altra azione umana, di un’operazione intelligente: «Si può perdonare a un poeta di mancare di qualche strumento, ma non riesco a perdonare molti poeti di oggi che riservano alla poesia i loro stupori, tanto che i loro versi offrono un’immagine tanto sciocca degli autori che non può essere quella di nessuna persona viva, poiché una vita non si conserva se non è ben attenta alle leggi del denaro e ai movimenti degli uomini e delle donne».



Post scriptum In Italia non c’è ancora un’antologia di Ferrater. Ci sarà fra un mese. Nella collana  Biblioteca di poesia   (Il Metauro),  uscirà a cura di Pietro U. Dini e con uno scritto di Jaime Salinas il volume Gabriel Ferrater, Curriculum vitae. Poesie 1960-1968.

Pietro U. Dini, forse il più importante traduttore e conoscitore della lingua e della cultura lituane – a lui si deve, ad esempio, la sola antologia poetica (Cinquantuno poesie e una lettera, In forma di parole, 2003) di Tomas Venclova (1937), un poeta che già Brodskij riconobbe come uno dei più importanti della sua generazione – da un po’ si è messo a coltivare altre lingue europee. Lingue apparentemente periferiche, come il catalano. Tuttavia, Pietro, come me, pensa che una cultura davvero universale non può fare a meno di nessuna cultura nazionale (che cosa sarebbe la storia del romanzo mondiale senza le saghe composte tra il XII e il XIV secolo in Islanda, un paese che ancora oggi conta meno di trecentomila abitanti?).

Basta che all’appello manchi un solo nome, Ferrater, ad esempio, e la poesia mondiale non è più la stessa.

Tre poesie di Gabriel Ferrater da
Curriculum vitae. Poesie 1960-1968 a cura di Pietro U. Dini

LITERATURA
Tan vehement, va dir-se un calamar,
faig el ridícul: un raig fi de tinta
ja desvia aquests monstres, ben poc crítics.
Perduda l’abundància del cor,
va descobrir la voluptat formal:
mentir-se objectivat en l’arabesc
i fer-s’hi encara veure, subjectiu.
De l’urc de no amagar-se gaire, en deia
sinceritat: de la por de trobar-se
massa exposat, sentiment de l’estil.
Lliurat a l’esperança que els espasmes
de l’aigua li anirien a favor,
deia fe en el llenguatge. Va morir
devorat: l’inefable el va temptar.

LETTERATURA
Così aggressivo, si disse un calamaro,
sono ridicolo: un fine raggio d’inchiostro
già depista questi mostri, assai poco critici.
Perduta l’abbondanza del cuore,
scoprì la voluttà formale:
mentirsi oggettività nell’arabesco
e con tutto ciò mostrarsi ancora soggettivo.
La posa orgogliosa per non celarsi troppo, la chiamò
sincerità: il timore di trovarsi
troppo esposto, sentimento dello stile.
Consegnato alla speranza che le convulsioni
dell’acqua lo favorissero,
ripose fede nel linguaggio. Morì
divorato: l’ineffabile lo tentò.


FI DEL MÓN v
Puc repetir la frase que s’ha endut
el teu record. No sé res més de tu.
Aquesta insistent aigua de paraules,
sempre creixent, va ensulsiant els marges
de la vida que vaig creure real.
La terra pedregosa i fatigosa
de caminar, i els arbres que em ferien
els ulls amb una branca delicada,
tan vivament maligna, convincent
amb la prova millor, la de les llàgrimes,
sembla que no són res. Es van donant
a l’amplària grisa, jaspiada
d’esperma pàl.lid, embafós. Tot cau
amb una fressa lenta i molla, i flota
sense figura, o s’enfonsa per sempre.
Tot fa sentit, només sentit, tot és
tal com ho he dit. Ja no sé res de tu.

FINE DEL MONDO
Posso ripetere la frase che s’è portata via
il tuo ricordo. Non so più nulla di te.
Questa insistente acqua di parole,
sempre crescente, va sgretolando i margini
della vita che credetti reale.
La terra pietrosa e faticosa
per il camminare, e gli alberi che mi ferivano
gli occhi con un ramo delicato,
tanto vivacemente maligno e convincente
grazie alla prova migliore, quella delle lacrime,
pare non siano nulla. Si arrendono
all’ampio grigiore screziato
di sperma pallido, stomachevole. Tutto cade
con un rumore lento e molle, e fluttua
informe, o s’inabissa per sempre.
Tutto ha senso, soltanto senso, tutto è
così come ho detto. Non so già nulla di te.


DIUMENGE
Els ocells de la llum se’n van a jóc
i ens deixen a les branques un subtil
tremolor de petites veritats.
Cal perdre l’ànima d’arbust. Un altre
sentiment transitori s’ha gastat.
Ens aixequem, i amb por de no saber
retrobar a temps qui som i què volem,
anem tornant ben poc a poc. La tarda,
la brasa imatge nostra, nerviosa
però abnegada mare de la cendra,
s’apaga, i es respira la pudor
del tabac refredat. Hem estat sols,
però ara embussem els colls d’embut
(colzes amb colzes, passos que es fan nosa)
per vessar dins el poble l’imprecís
record d’uns camps trencats, al.luvials
deixes de camions, d’uns camins curts
com un alè cansat, i uns arbres vius
que ja se n’ha fet llenya. Ens confonem
amb els que s’han quedat, i que ara surten
dels balls i de las coves de penombra
gelatinosa, i tots trepitgem besos
que la tarda ha endurit, i ara es parteixen
en dues valves, com un musclo, i cauen.
Un nen que se li ha rebentat el globus
llança un plor viperí. Tots ens mirem
i riem satisfets. Cap de nosaltres
no es veu amunt per l’escala dels éssers.

DOMENICA
Gli uccelli della luce se ne vanno a dormire
e ci lasciano sui rami un sottile
tremito di piccole verità.
Bisogna perdere l’anima d’arbusto. Un altro
sentimento transitorio si è sciupato.
Ci alziamo e, con il timore di non saper
ritrovare in tempo chi siamo e che cosa vogliamo,
ce ne torniamo molto lentamente. A sera,
la brace a nostra immagine, nervosa,
ma coscienziosa madre della cenere,
si spegne, e si respira un cattivo odore
di tabacco stantio. Siamo stati soli,
ma ora ingorghiamo i colli d’imbuto
(gomito a gomito, passi che si ostacolano)
per riversare dentro al paese l’impreciso
ricordo di campi spezzati, di alluvionali
resti di camion, di sentieri corti
come un respiro stanco e di alberi vivi
già diventati legna. Ci confondiamo
con quelli che son rimasti e che ora escono
dai balli e dalle tane di penombra
gelatinosa, e tutti calpestiamo baci
che la sera ha indurito, e che ora si aprono
in due come le valve di un mollusco, e cadono.
Un bambino al quale è scoppiato il palloncino
lancia un pianto viperino. Tutti ci guardiamo
e ridiamo soddisfatti. Nessuno di noi
si vede in alto nella scala degli esseri.



pubblicato su Absolute Ville nella rubrica tradurre poesia   - - - -

© Massimo Rizzante - "tradurre poesia" 


Massimo Rizzante (1963) è poeta, saggista e traduttore. Ha fatto parte dal 1992 al 1997 del Seminario sul Romanzo Europeo diretto da Milan Kundera.
Dal 1993 al 1996 è stato redattore della rivista letteraria Baldus. Dal 1994 è redattore della rivista L’Atelier du roman. Nel 1999 ha pubblicato la raccolta di poesie Lettere d’amore e altre rovine, Biblioteca cominiana. Dal 2004 dirige la collana Biblioteca di poesia, Il Metauro. Nel 2005 ha tradotto Il sipario di Milan Kundera, Adelphi. Nel 2007 è uscito il saggio L’albero, Marsilio e ha pubblciato la seconda raccolta poetica, Nessuno, Manni. Nel 2008 ha tradotto Un incontro di Milan Kundera, Adelphi e curato l’antologia poetica di O. V. de L. Milosz, Sinfonia di novembre e altre poesie, Adelphi. Nel 2009 è uscito il saggio Non siamo gli ultimi, Effigie. Nel 2010 ha curato la raccolta poetica di M. Crnjanski, Lamento per Belgrado, Ponte del Sale e ha pubblicato la novella Ricordi della natura umana, La Camera Verde.
Insegna all’Università di Trento.

le  opere di Massimo Rizzante



curriculum vitae di Gabriel Ferrater (Massimo Rizzante)

Massimo Rizzante -

22 aprile 2010

curriculum vitae di Gabriel Ferrater

Gabriel Ferrater (Reus, 1922-San Cugat, 1972) non è solo il più importante poeta catalano della seconda metà del XX secolo, ma uno dei più grandi poeti europei del suo tempo. Traduttore, linguista e poliglotta, critico letterario e critico d’arte, Ferrater, giunse relativamente tardi alla poesia; pubblicò la sua intera opera in versi nel giro di pochissimi anni, tra il 1960 e il 1968. Di un’intelligenza folgorante e di una personalità allo stesso tempo anarchica e disciplinata, tenera e narcisistica, spirito antiromantico, amante della poesia medievale (Ausiàs March) e di Shakespeare, fondò la sua poetica sul dato autobiografico e la radiografia storica, sul desiderio, l’amore, il sesso, la memoria e l’oblio. Aveva sempre detto che è immorale oltrepassare i cinquant’anni. E mantenne fede alla parola, suicidandosi il 27 aprile del 1972 nel suo appartamento di San Cugat del Vallès. Un atto, quindi, tutt’altro che disperato, quanto piuttosto morale, di una moralità priva di ogni lusso contemplativo. Un po’ come la sua poesia che, come lui stesso ha affermato, deve sempre «essere chiara, sensata, lucida e appassionata», attenta al movimento degli uomini e delle donne, capace di elevare al massimo grado l’energia emotiva della lingua, senza per questo corrompere con un eccesso di partecipazione il centro dell’immaginazione.



LA PLATJA
El sol se l’ha menjat. Anava sola,
descalça com la mar, vestida com
la mar, amb brusa blanca i slacks verds,
i era rossa com l’aire, lluminosa
com el lleó de fúria total.
Se’ns l’ha menjat. Fem-nos canilla d’ira.
Tallem el vent de llauna amb la cisalla
dels udols llargs. Esgarrapem la sorra.
Lladruquegem la mar, la disfressada.

LA SPIAGGIA
Il sole se l’è mangiata. Andava sola,
scalza come il mare, vestita come
il mare, camicetta bianca e slacks verdi,
era bionda come l’aria, luminosa
come un leone preso da una furia totale.
Ce l’ha mangiata. Diventiamo ira di muta canina.
Tagliamo il vento di latta con cesoie
dai lunghi ululati. Graffiamo la sabbia.
Latriamo al mare, questo travestito.


A TRAVÉS DELS TEMPERAMENTS
Uns pins massa sensibles es revinclen
deixant sentir com se saben patètics
mentre compleixen aquest deure líric
d’expressió del vent, que arriba net.
Les arrels cruixen sordes, i les branques
exulten de dolor, per proclamar
que és greu que bufi l’esperit. El vent,
quan surt del bosc, va tot podrit de queixes.
 
ATTRAVERSO I TEMPERAMENTI
Alcuni pini troppo sensibili si contorcono
lasciando intendere come si sentano patetici
mentre compiono questo dovere lirico
di esprimere il vento, che pure giunge limpido.
Le radici scricchiolano sorde, e i rami
esultano di dolore per proclamare
che è grave che soffi lo spirito. Il vento,
quando esce dal bosco, è tutto marcio di lamenti.


MECÀNICA TERRESTRE
Veus, és aixi que tot pot començar.
Després, el més profund. Ara projecta
les figures senzilles, els acords
i els contrasts, les anades cauteloses
i les vingudes ràpides, els gestos
que no s’amaguen a ningú. Ja ho veus,
ara tan bé com qualsevol moment.
Ets a una plaça amb cases a mig fer,
com magranes badades, que deslliuren
granets de cel envidreït. Els vells
recullen llum com ningú, a les mans
de cera que no es fon, plàcida. Els joves
surten embriagats del cine heroic
i llencen cigarrets a terra, durs
com la pedra que vol clavar un ocell.
Al cafè no del tot luxós, un home
que va pels cinquanta anys i és moll però
vehement, com un drap de barberia,
no sap si prefereix d’oferir foc
ell mateix, a la noia que ho espera,
o d’enviar-hi, humiliant-lo, el mosso
sorneguer, que li espia l’avidesa.
Un aneguet femení, amb una ratlla
de mercromina al turmell dolç on no
trobaràs cap ferida, va corrent
per nua passió, car no té pressa
i vol que ho sapiguem, i riu als vidres
de cada aparador. Ja ho veus. Un món.
Un instant d’un capvespre, has vist els cossos
i les distàncies. Ara calcula
les masses, les libracions dels cors—

MECCANICA TERRESTRE
Vedi, è così che tutto può cominciare.
Quel che è più profondo verrà dopo. Ora proietta
le figure semplici, gli accordi
e i contrasti, le andate prudenti
e le rapide venute, i gesti
che non si nascondono a nessuno. Lo vedi
tanto bene ora come in qualsiasi altro momento.
Sei in una piazza con case costruite per metà,
come melograne spaccate che dispensano
granelli di cielo invetrato. Come nessuno
i vecchi raccolgono luce nelle loro mani
di cera docile che non si fonde. I giovani
escono ebbri da un film eroico
e gettano a terra sigarette dure
come la pietra che vuol colpire un uccello.
In un bar non proprio di lusso, un uomo
sulla cinquantina, tenero ma
violento come un panno da barbiere,
non sa se preferisce offrire lui stesso del fuoco
alla ragazza che se lo aspetta,
o inviarle, umiliandolo, il garzone beffardo
che spia il suo desiderio.
Un anatroccolo femmina, con una striscia
di mercromina alla caviglia dolce,
dove non troverai nessuna ferita, razzola
per nuda passione, poiché non ha fretta
e vuole che lo sappiamo, e ride ai cristalli
di ogni vetrina. Già lo vedi. Un mondo.
In un solo istante all’imbrunire hai visto corpi
e distanze. Ora calcola
le masse, le oscillazioni dei cuori…


ÍDOLS
Aleshores, quan jèiem
abraçats davant la finestra
oberta al pendís d’oliveres (dues
llavors nues dins un fruit que l’estiu
ha badat violent, i que s’omple
d’aire) no teníem records. Érem
el record que tenim ara. Érem
aquesta imatge. Els ídols de nosaltres,
per la submisa fe de després.

IDOLI
Allora, quando stavamo distesi e
abbracciati davanti alla finestra
aperta sul pendio degli ulivi (due
semi nudi dentro un frutto che l’estate
ha spaccato con violenza e che si riempie
di aria) non avevamo ricordi. Eravamo
il ricordo che abbiamo ora. Eravamo
questa immagine. Gli idoli di noi stessi,
per la sottomessa fede del dopo.


[Poetica]
Sono nato a Reus il 20 maggio del ’22. Gli altri fatti della mia vita non sono così facili da descrivere e più difficili da datare. Mi piace il gin con ghiaccio, la pittura di Rembrandt, le caviglie giovani e il silenzio. Detesto le case dove fa freddo e le ideologie.
La poesia medievale ha in me un buon lettore e non le costa alcuna fatica persuadermi. In Bertran de Born, Chaucer, Villon, Skelton trovo un’abbondanza di verità asciutta e agile, vista con occhi tersi e sentita con cordialità, che non mi fa venire nostalgia delle grandi masse di liquido verbale che il Rinascimento ha messo in circolazione. Catullo è l’unico poeta antico che sono riuscito a conoscere, e di quelli recenti, ho provato a crearmi un angolo all’ombra di un ramo della poesia inglese che, nato da Thomas Hardy, è cresciuto con Frost, Ransom, Graves, Auden. Tuttavia, Bertolt Brecht è colui che per primo mi ha fatto comprendere che la poesia può far a meno di molti lussi. I poeti catalani che più spesso ricordo sono March e Carner: e anche Jaume Roig, che ogni volta mi rimprovero di non aver ancora letto …
Concepisco la poesia come la descrizione, momento per momento, della vita morale di un uomo ordinario, quale io sono. Nessuna delle cose che la mie poesie consegnano ha un valore eminente, ed è semmai la complicazione e l’equilibrio dei temi che può dare all’insieme un interesse di verità. Il fatto è che a me, in un paio d’anni, passano per la testa poche cose e, benché la memoria sia andata accumulando ricordi e io abbia fatto in modo che ogni poesia giocasse il proprio ruolo senza interferire con le altre, il risultato è certamente parziale e non proprio veritiero. Ora, non mi faccio troppe illusioni e so che, per quante immagini e sentimenti possano aver riempito la mia vita, ce ne sono stati molti altri possibili. Il mondo non è abbastanza suggestivo per nessuno, e tutta la vita è parziale, anche quando la cogliamo nella sua massima latitudine.
Faccio in modo che le idee teoriche non mi distraggano troppo, ma posso dire di esser riuscito ad allontanarmi non poco dall’estetica romantica della quale è imbevuto il mio tempo. Oggi vedo che è del tutto legittimo distinguere il contenuto dalla forma di una poesia, e non capisco perché dovrei sentirmi obbligato a confondere un viaggio all’inferno con il padre della terza rima. Penso che sia il contenuto che fa la poesia, e che, come asseriva Goethe, le questioni di stile inquietano soltanto le signorine per bene. Di stile dobbiamo averne poco: dobbiamo realizzare soltanto ciò che la nostra educazione ci ha donato e che è impersonale, e dobbiamo guardarci dal giocare con il senso delle parole della tribù. Ben poca cosa è un poeta se non è in grado di comporre senza angosce, passo dopo passo, in qualsiasi momento e con sicura efficacia stilistica qualsiasi motivo che sia riuscito a concepire con chiarezza. Ogni poesia dovrebbe essere chiara, sensata, lucida e appassionata, vale a dire in una parola, divertente. Si può perdonare a un poeta di mancare di qualche strumento, ma non riesco a perdonare molti poeti di oggi che riservano alla poesia i loro stupori, tanto che i loro versi offrono un’immagine tanto sciocca degli autori che non può essere quella di nessuna persona viva, poiché una vita non si conserva se non è ben attenta alle leggi del denaro e ai movimenti degli uomini e delle donne.
Quando scrivo una poesia, l’unica cosa che mi preoccupa e che mi costa sacrificio è quella di definire bene il mio atteggiamento morale, ovvero la distanza che c’è tra il sentimento che la poesia esprime e ciò che potremmo chiamare il centro della mia immaginazione. Uno dei motivi per cui scriviamo poesia è il desiderio di vedere fin dove possiamo elevare l’energia emotiva della nostra lingua, e ciò ci conduce a scegliere temi insidiosi, molto adatti a corromperci e a ottenere dai noi stessi un eccesso di partecipazione. Ma non dobbiamo consentirlo, e il dovere primario del poeta davanti a un tema è di collocarlo al suo posto, senza contemplazioni…
I testi poetici qui presentati fanno parte di Curriculum vitae Poesie 1960-1968, traduzione, nota e cura di Pietro U. Dini con una Evocazione di Jaime Salinas. Il volume, in uscita a maggio nella collana  Biblioteca di poesia   (Il Metauro), è la prima antologia in italiano di Gabriel Ferrater.
 © Massimo Rizzante

Un grande scrittore portoghese ha scritto una volta:

«Una letteratura la più vicina possibile alla clandestinità, ma pur sempre pubblicabile, è la sola speranza di salvezza che resta all’artista. In guerra con il suo tempo, ma ciononostante edita nel suo tempo, l’opera attingerà forse a qualche grandezza. Anche se non sarà coronata dall’alloro riservato ai combattenti – che una volta incoronati vengono disarmati – potrà pretendere di conquistare la simpatia di coloro che, senza negare il presente, rifiutano di venderlo all’avvenire”.
Penso che Ferrater sarebbe stato d’accordo.
[Massimo Rizzante, commento su nazione indiana]


pubblicato su Nazione Indiana   - - - -

© Massimo Rizzante - "su Nazione Indiana" 

Massimo Rizzante (1963) è poeta, saggista e traduttore. Ha fatto parte dal 1992 al 1997 del Seminario sul Romanzo Europeo diretto da Milan Kundera.
Dal 1993 al 1996 è stato redattore della rivista letteraria Baldus. Dal 1994 è redattore della rivista L’Atelier du roman. Nel 1999 ha pubblicato la raccolta di poesie Lettere d’amore e altre rovine, Biblioteca cominiana. Dal 2004 dirige la collana Biblioteca di poesia, Il Metauro. Nel 2005 ha tradotto Il sipario di Milan Kundera, Adelphi. Nel 2007 è uscito il saggio L’albero, Marsilio e ha pubblciato la seconda raccolta poetica, Nessuno, Manni. Nel 2008 ha tradotto Un incontro di Milan Kundera, Adelphi e curato l’antologia poetica di O. V. de L. Milosz, Sinfonia di novembre e altre poesie, Adelphi. Nel 2009 è uscito il saggio Non siamo gli ultimi, Effigie. Nel 2010 ha curato la raccolta poetica di M. Crnjanski, Lamento per Belgrado, Ponte del Sale e ha pubblicato la novella Ricordi della natura umana, La Camera Verde.
Insegna all’Università di Trento.

le  opere di Massimo Rizzante

Roger Chartier: leggere digitale

Roger Chartier - 22 luglio 2010  

La Repubblica  


                                                                   Leggere digitale                     
Perché è rischioso che decida Google
 
Come cambieranno le abitudini dei lettori se il supporto dei libri non sarà più la carta, ma un video. Che cosa ne sarà dell'integrità di un'opera, che non è solo una banca dati. Le riflessioni di un grande storico della lettura.

Provate a digitare la parola "google" su Google ricerche in www.google.fr e sullo schermo del vostro computer apparirà che il termine cercato è presente in "circa 2.090.000.000" documenti. Se l'irriverenza non vi preoccupa, ripetete l'operazione cercando sempre su Google ricerche la parola "Dio" e otterrete 33.000.000 di documenti. (Su www.google.it il risultato dà rispettivamente 2.150.000.000 e 72.200.000, NdT).

Questo semplice raffronto è sufficiente a comprendere perché, negli ultimi mesi, tutti i dibattiti concernenti la costituzione di raccolte digitali siano stati seguiti da presso da continue iniziative dell'azienda californiana.

venerdì 30 luglio 2010

ebook:: 'Alla fine ci abitueremo guadagneremo lettori salvando le foreste'

    intervista a Nicola La Gioia di Dario Pappalardo 21 luglio 2010


La repubblica

Lo scrittore: Alla fine ci abitueremo guadagneremo lettori salvando le foreste

Nicola Lagioia ha appena ricevuto da Einaudi la proposta d' integrazione del suo contratto. Perché da "autore cartaceo" si prepara, assieme ad altri colleghi, a diventare anche "scrittore digitale". Il suo ultimo romanzo Riportando tutto a casa, infatti, sta per essere convertito in ebook.

Lagioia, qual è il suo rapporto col libro digitale? 
«Non sono tra gli apocalittici. Credo che, dal punto di vista della letteratura, nulla cambi. Tranne il fatto che dovrò abituarmi. Ho già letto parecchi romanzi sullo schermo, anche se mi sembra un po' scomodo. Questo perché sono abituato a sottolineare, fare le orecchie. I libri li massacro. Detto questo, se venissero sostituiti con gli e-book, non ne farei un dramma. Mi spiace per la libreria. Dovrei buttare la mia Billy».