mercoledì 16 giugno 2010

Le frontiere del romanzo nel XXI secolo

   Miguel Gallego Roca nazione indiana - 2008


Le frontiere del romanzo nel XXI secolo ovvero l’Europa reinventata dall’America

di Miguel Gallego Roca
Nel gennaio 2007 è uscito un numero monografico di «Nuova prosa» (46), rivista letteraria diretta da Luigi Grazioli, consacrato alla nuova narrativa latinoamericana. Pubblico qui un estratto di uno scrittore e critico letterario spagnolo che ne indica alcune problematiche (Massimo Rizzante)


La frontiera fantasma dell’Europa

Hans Castorp, «il bambino viziato dalla vita», l’ingegnere navale, l’uomo concreto promesso alla tecnica, affronta all’inizio del XX secolo un percorso di formazione abbandonandosi con passione alla stretta della «malattia» dell’esilio. La sua iniziazione si svolge su tre fronti sotto l’egida di tre maestri: Settembrini, l’umanista massone, l’homo humans; Naphta, il gesuita terrorista, homo dei; e Peeperkorn, il vitalista, l’uomo che sa ridere ma conosce la tragedia.

Tutto questo avvenne all’alba del XX secolo in Europa. Oggi, all’inizio del XXI secolo, mi pongo la seguente domanda: che nuovo Peeperkorn è quello che ha trionfato? Di quale natura è il suo riso? Fino a che punto conosce la tragedia?
Una sera, a Parigi, in un bistrot nei pressi dell’Odéon, espongo a Lakis Proguidis la necessità per la sua rivista, L’Atelier du roman , di affrontare l’attuale romanzo latinoamericano. Sono convinto che il romanzo europeo del futuro si costruirà a partire dalle opere di quei maestri. Penso, inoltre, che l’America Latina è un continente in cui avvengono fatti importanti – di cui nessuno può trascurare la spiegazione storica e la prospettiva futura –, in cui si continua a conoscere e a esplorare la realtà attraverso l’arte del romanzo. Laggiù sembra perpetuarsi una tradizione letteraria che in Europa agonizza o è stata del tutto sperperata. Più si parla della storia del romanzo latinoamericano, maggiore è la mia percezione del vuoto europeo, un vuoto che si concretizza sulla vetrata del bistrot punteggiata di gocce di pioggia dalla quale si intravede il carrefour dell’Odéon. Carmen, seduta con noi, aveva appena sette anni quando è caduto il muro di Berlino. S’interessa al modo in cui i greci di oggi considerano il presunto passato che li lega alla Grecia classica. «Come un fantasma – risponde Lakis –, considerano il loro passato come si considera un fantasma, probabilmente come gli attuali europei considerano l’Europa moderna, l’Europa del XIX e del XX secolo». Sì, è proprio di questo che si tratta, lo avverto ogni giorno di più. Lo percepisco nei modi di vestire e di muoversi dei passanti, in ciò che interessa e non interessa alle persone. Lo noto soprattutto in quel che di meccanico hanno le conversazioni che capto ogni giorno per strada; lo avverto nel mio esilio storico e geografico, anche in questo preciso istante, in questo bistrot dell’Odéon, vicino al posto in cui, un certo giorno di maggio, qualcuno scrisse su un muro: «Attenzione, i coglioni ci circondano». Chi sono, oggi, i coglioni?

L’Europa è un giorno lontano, un fantasma, un’illusione di passaporti, di treni, di bistrot, una grande festa dell’intelligenza e della politica che non sa più come reinventare se stessa. Le due principali tentazioni sono la resistenza o la liquidazione, cioè la soluzione etico-estetica della torre d’avorio, o la soluzione politica che consiste nel farsi carico della contemporaneità con tutte le conseguenze che questo implica. Il disertore o il cinico. Sembrerebbe che una sola via non sia sufficiente per passare da una soluzione all’altra senza subire un certo logoramento, un logoramento vitale, si potrebbe dire.

Il paradosso nasce quando si pensa che coloro che stanno davvero reinventando l’Europa sono gli abitanti dell’America Latina e, in particolare, alcuni romanzieri.

Dal momento che il romanzo europeo si limita alla contemplazione del proprio ombelico e all’analisi dei propri escrementi, proliferano l’autobiografia, il diario intimo, le memorie, le testimonianze, i pettegolezzi dei nevrotici, degli psicotici, dei paranoici, il flusso claustrofobico del tempo senza storia. Per dirlo a chiare lettere: la notte dei fantasmi. Cogito ergo sum. Quod cogito sum. Quod scribo sum. Dum scribo sum, scriveva Lawrence Sterne facendosi beffe del razionalismo benpensante del XVIII secolo. Privati del comico siamo perduti: ecco ciò che ci insegna la storia del romanzo. Da qui deriva l’inquietante regno dell’agelastia, quell’allarmante incapacità di ridere tante volte denunciata da Milan Kundera. Da qui l’inflazione di confessioni che non giungono ad articolare una forma letteraria nella quale l’immaginazione sia in grado di esplorare la realtà. Soltanto alcuni in Europa, i cui maestri riconosciuti sono per altro l’argentino Borges e il messicano Sergio Pitol, sono in grado di dare forma a un’autobiografia nella quale l’elemento artistico è talmente raffinato da perturbare alle radici ogni veridicità delle fonti. È il caso, ad esempio, dello spagnolo Vila-Matas, uno dei rari scrittori capaci di trasformare la propria vita in romanzo. Pochissimi sono anche coloro che, come l’argentino Ricardo Piglia, costruiscono un romanzo compiendo allo stesso tempo un’opera di critica letteraria, Piglia, i cui maestri riconosciuti sono Arlt, Borges e Gombrowicz, l’assurdo esule polacco in Argentina.

Così stanno le cose, e l’Europa del XXI secolo sembra volersi preservare spogliata della dimensione tragica e comica, deglutendo il dolore della Storia sotto le molli specie del mercato, delle terapie psicosomatiche e dei narcisismi lunatici. Tutti modi di dimenticare il passato e il futuro. Abracadabra. Carlos Fuentes, in un saggio ormai classico sulla storia del romanzo in America Latina, La nueva novela hispanoamericana (Il nuovo romanzo latinoamericano), pubblicato nel 1969, concludeva affermando che la tradizione cervantesca si fondava sull’immaginazione del passato e il ricordo del futuro. Immaginare il passato e ricordare il futuro: scriverò questa frase su una bandiera e appenderò la bandiera a una parete della mia camera in modo da poterla ricordare ogni mattina.

La frontiera romanzesca dell’America

Cent’anni di solitudine apparve nel 1967; un anno dopo, nel 1968, anno in cui, un giorno di maggio, qualcuno scrisse su un muro a Odéon qualcosa che ancora si può leggere, veniva pubblicata la traduzione francese del romanzo. García Márquez apriva un nuovo dialogo con l’Europa. Cortázar, Vargas Llosa, Fuentes, Onetti, Donoso, Borges nella sua biblioteca, e tanti altri tornavano a insegnare ai lettori europei la lezione di Cervantes, il riso di Rabelais, la composizione di Boccaccio.

Oggi, sia pure in altro modo, è necessario rivolgere di nuovo il nostro sguardo all’America Latina, a un continente romanzesco in cui, se non c’è più nulla di «magico», esiste tuttavia una realtà incomprensibile e un brusio altrettanto incomprensibile, un rumore di fondo che ci costringe a dare ascolto al nonsenso del nostro tempo.

Qualcosa accade nel romanzo latinoamericano, soprattutto grazie ad autori come Roberto Bolaño e alla sua comunità di lettori fedeli; grazie all’allargamento e alla critica dei modelli anteriori; grazie alla feroce parodia del realismo magico; grazie alla rilettura dei grandi maestri del romanzo europeo. Qualcosa accade per davvero, se dei romanzieri adottano strategie d’avanguardia, si riuniscono in antologie e redigono manifesti, se i migliori lettori di Kafka, di Broch, di Musil, di Gombrowicz sono oggi scrittori latinoamericani.

La ricchezza del romanzo in America Latina fa a pugni con il vuoto estetico che avvolge, in Europa, il romanzo. I lettori latinoamericani, così come quelli europei del resto, sono coscienti della situazione, e del fatto che è molto probabile che tale ricchezza del romanzo latinoamericano dipenda dal suo continuo dialogo con la realtà e la storia dell’Europa, tanto che oggi i migliori interlocutori dei maestri europei della tradizione modernista sono i romanzieri latinoamericani. Così come è molto probabile che siano rimasti soltanto gli abitanti dell’America Latina a immaginare il passato dell’Europa e a ricordarsi del suo futuro.

In America Latina, inoltre, persiste un dibattito intergenerazionale che si appoggia sulla dialettica delle élites intellettuali e artistiche, dibattito che in Europa sembra essersi esaurito fra le rovine dello strutturalismo e la gestione culturale degli organismi ufficiali. In un contesto del genere, il romanzo può ancora essere concepito come totalità dotata di potere utopico. Nella nostra epoca della fine dell’umanesimo, la proliferazione teorica e tecnica si scontra con la prerogativa tutta latinoamericana a riconoscersi nei maestri, tanto che si potrebbe stilare un lungo elenco di scrittori latinoamericani indicandoli come i veri eredi dell’alta modernità europea.

Per spiegare questa realtà Ricardo Piglia ricorda in «La novela polaca», un capitolo di Formas breves (Forme brevi), un saggio pubblicato nel 1997, alcune parole di Borges tratte da Lo scrittore argentino e la tradizione. Ciò che Borges afferma è che le letterature secondarie e periferiche, quelle che vivono ai margini delle grandi correnti europee, hanno la possibilità di interpretare le grandi tradizioni in un modo del tutto particolare, «irriverente». Inutile dire che le tradizioni sono tali soltanto se permangono vive, se non restano mummificate nei musei. Ciò può avere dei punti in comune con l’apertura intellettuale presupposta dall’esilio, condizione nella quale viene rimessa in questione la presunta unità di una cultura nazionale. Piglia ricorda anche «la cultura nazionale frammentata e sbriciolata, in tensione con una tradizione dominante di alta cultura straniera» che caratterizzava Witold Gombrowicz, l’esule.

I maestri degli attuali romanzieri formano una specie di tradizione occulta del romanzo latinoamericano in cui il radicalismo estetico cospira con il romanzo popolare, la cronaca nera e i miti urbani del XX secolo. Di tale ibrido, tra ciò che ha diritto di cittadinanza e impostura, Borges è il centro di gravità. Ma non tanto il Borges che è stato sacralizzato dalla critica accademica europea n negli anni Ottanta, quanto piuttosto un Borges «archeologico», l’autore che scrive nelle riviste popolari catturando il gusto letterario dell’immaginazione creola; il Borges riscoperto da Alan Pauls nel suo El factor Borges (Il fattore Borges), un saggio uscito nel 2000, e che, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, è molto vicino a Roberto Arlt, a Macedonio Fernández e a Manuel Puig.

Ho già detto che alcuni fra i nuovi romanzieri latinoamericani utilizzano tecniche d’avanguardia. In Colombia esiste un gruppo chiamato Nueva Literatura Urbana. In Perù è la rivista Etiqueta Negra a guidare le danze. In Argentina, c’è il supplemento letterario di Página doce. Delle strategie d’avanguardia fanno parte anche le antologie. Le due antologie più importanti che a metà degli anni Novanta del secolo scorso hanno tentato di smentire i cliché sul romanziere latinoamericano e di mettere alla berlina gli epigoni del realismo magico sono rispettivamente intitolate McOndo e Crack. McOndo (1996) è un’antologia di racconti che si apre con un manifesto, intitolato «Presentación del país McOndo» (Presentazione del paese di McOndo), firmato dai cileni Alberto Fuguet e Sergio Gómez, nel quale i due autori irridono «l’esame di stato» che lo scrittore deve sostenere in materia di culture indigene, folklore e «gauchismo» per essere ritenuto un vero scrittore latinoamericano.

L’altra antologia è messicana e s’intitola Crack. Instrucciones de uso (2004). Include il «Manifiesto del Crack», pubblicato originariamente nel 1996, nel quale il romanziere Ignacio Padilla difende il «cronotopo zero» e definisce «l’estetica della dislocazione»: «La dislocazione dei romanzi del Crack – sostiene – non sarà in fin dei conti che l’imitazione di una realtà demente e dislocata, prodotta da un mondo che la mass-mediatizzazione trascina verso un fin de siècle frammentato in tempi e luoghi, privo di legami per eccesso di legami». Ma ciò che è realmente avanguardista in questo manifesto è il gesto tutto europeo di percorrere di nuovo la strada della storia del romanzo, la strada dei giganti del romanzo «integrale»: «È meglio parlare dei romanzi supremi e di nomi come quelli di Cervantes, Sterne, Rabelais, Dante [...] Si tratta di organismi che, pur giganteschi, non dovrebbero spaventarci, e dei quali, per quanto mostruosi siano, non dovremmo privarci». Si tratta di un atteggiamento avanguardista, ma costruttivo: la rottura nella continuità. È penoso dover pensare che un tale atteggiamento avanguardista in Europa oggi manchi del tutto. Ciò ricorda, inoltre, il modo in cui i modernisti elaborarono la tradizione e le loro sfide formali all’arte del XX secolo. Per Pedro Ángel Palou – secondo quanto scrive nel suo «Pequeño diccionario del Crack» (Piccolo dizionario del Crack), compreso nel volume citato – il «realismo magico» è la «tomba della letteratura latinoamericana», la «scrittura dei falsi epigoni», mentre il ritorno alla tradizione europea è rivoluzionario e permette di stabilire un rapporto personale con la letteratura. «Ogni generazione – afferma – riscrive la propria tradizione, la rimodella. Il filo che ci permette di scegliere in letteratura la nostra famiglia è elastico: padri, nonni, fratelli, sono sempre diversi». La famiglia scelta non parla sempre la tua lingua, non sempre conosce gli dei protettori della tua casa, così come, la maggior parte delle volte, non venera i tuoi morti.

Queste strategie d’avanguardia hanno avuto una considerevole ripercussione sul mercato. Scagliarsi contro il realismo magico in America Latina è senza dubbio uno scoop. Riviste come Newsweek e giornali come The New York Timesne hanno parlato più volte. Nel numero del 6 maggio 2002 di Newsweek, Mac Margolis ha firmato un articolo intitolato «Is Magical Realism Dead?», in cui riprende le dichiarazioni contro il realismo magico del cileno Alberto Fuguet, per il quale il mondo dei villaggi fantasma di molti romanzi latinoamericani è, agli occhi dei nuovi scrittori, simile alla «cryptonite». Nello stesso numero, come contraltare, il romanziere nordamericano William Kennedy rivendica la forza del realismo magico in un articolo il cui titolo è «Remedios the Beauty is Alive and Well». Un anno dopo, sulle pagine del New York Times, precisamente il 4 giugno 2003, Nicole LaPorte sanciva un cambio generazionale dei grandi romanzieri del boom, annunciando già nel titolo del suo articolo, «New Era Succeeds Years of Solitude», una nuova epoca per il romanzo latinoamericano.

I romanzieri di McOndo e del Crack, quelli del romanzo urbano colombiano, i peruviani che ruotano attorno a Etiqueta negra sono autori che si definiscono come ibridi culturali e geografici, come fiori artificiali della globalizzazione. Molti di loro, proprio per questa ragione, vengono considerati non sufficientemente latinoamericani dalla critica dei loro paesi d’origine. Alcune delle loro opere sono un luogo di incontro e di dialogo tra l’Europa e l’America, tra il XX secolo e il XXI secolo.

La frontiera tra due secoli: non si può negare che le tensioni tra futuro e passato sono sempre state eccellenti levatrici del romanzo moderno. Le epoche in cui vivono a stretto contatto il misticismo e il nichilismo, il decoroso e lo spudorato, la TV satellitare e i racconti della nonna, l’elmo e il bacile sono epoche propizie ai grandi romanzi.

L’America Latina è oggi uno di quei tempi geografici in cui si può ancora avvertire la pulsione storica della contraddizione, una pulsione bifronte, utopica e distopica, che germoglia nel romanzo. Gli impedimenti a riconoscerlo sono l’accademismo e il «politicamente corretto», sempre così ben intenzionati e così spesso ciechi rispetto al potere illuminante dell’arte.

Tuttavia, non si può far finta di non rilevare che in qualsiasi paese situato a sud del Rio Grande, persiste la tentazione del terzomondismo, il quale concepisce il sistema culturale e politico di una nazione in simbiosi con le tecnologie più avanzate, cosa che suppone un autentico filone per le analisi neomarxiste e postmoderne (che parola triste!). La crisi argentina dell’inizio del XXI secolo, l’ombra del generale Pinochet sulla paradossale solidità della democrazia cilena, il neocaudillismo di Hugo Chávez in Venezuela, la simpatica coppia di amici formata da Chávez e Castro, i labirinti giapponesi dell’era di Fujimori in Perù, il linguaggio delicato e severo del subcomandante Marcos, l’arrivo dell’indigeno Evo Morales alla presidenza della Bolivia e, per finire, la sfida alle istituzioni di López Obrador in occasione delle ultime elezioni presidenziali in Messico: tutto ciò assomiglia troppo all’immagine del nostro tempo, come gli assomiglia Bush stesso.

Diversi studi sociologici affermano che il futuro potrebbe avere i contorni di un mondo fatto di crimini e impunità, come quello che si estende lungo la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Migliaia di donne vi sono uccise senza che gli assassini vengano puniti. Una valanga di impunità che, iniziate nel 1994, sono giunte sino ai nostri giorni. Ma poco importa il luogo, ciò che è certo è che il futuro assomiglierà a una frontiera.

Alcuni romanzieri latinoamericani della nostra epoca provengono dalla frontiera storica che divide il territorio delle utopie e degli orrori del troppo umano XX secolo da quello delle incertezze di questo XXI secolo postumano.


un estratto dello stesso saggio è pubblicao anche s Archivio Bolaño

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