Achille - Tabard - 20 dicembre 20007
2666: qualche impressione di lettura
Difficile parlare di un romanzo di cui si è letta solo la prima parte (anzi, tre delle cinque parti, ma le ultime due saranno pubblicate in Italia solo tra un anno). Magari si può iniziare con i pensieri confusi di Amalfitano, uno dei molti protagonisti, che si lascia tentare dalla follia, dalle voci, dopo aver appeso un trattato di geometria al filo per stendere i panni (secondo le istruzioni di Duchamp): «Queste idee o queste sensazioni o questi vaneggiamenti, d’altra parte, avevano per lui un loro lato gratificante. Si trasformava il dolore di molti nel ricordo di uno solo. Si trasformava il dolore, che è lungo e naturale e vince sempre, nel ricordo personale, che è umano e breve e sfugge sempre. Si trasformava un racconto barbaro di ingiustizie e di abusi, un ululato incoerente senza principio né fine, in una storia ben articolata dove c’era sempre la possibilità di suicidarsi. La fuga si trasformava in libertà, anche se la libertà serviva soltanto a continuare a fuggire. Il caos si trasformava in ordine, sia pure a spese di quello che è comunemente noto come senno».
Queste parole potrebbero riferirsi al meccanismo narrativo, quanto alla costruzione della “Storia”, o anche al processo della memoria individuale. Eppure ci ingannano. Quello che avviene nel romanzo di Roberto Bolaño è l’esatto contrario di ciò che pensa Amalfitano la notte in cui definitivamente si avvicina alla follia: il sistema narrativo di 2666 si fonda proprio sulla decostruzione di una sequenza “storica” (storia, ricordo, narrazione). Mi sembra che la scrittura di Bolaño si muova in una sorta di inconsapevolezza autoprovocata: come una persona appena sveglia che si mettesse ad annotare i propri sogni. In altri termini, questo romanzo è un tentativo di sottrarsi al processo narrativo propriamente detto, mediante un lavoro duro e faticoso: provare in ogni parola ad eludere se stessi ed il proprio “io” narrante.
Tentativo fallito, peraltro. Al di sotto delle trame decostruite dell’io scrivente si cela un’ulteriore identità nella non-identità. Ed è il male, sotto forma di follia, non senso, e soprattutto stupidità. Come se, anche al culmine etico della “Storia” che si estranea per liberarsi dalle tensioni autoritarie che le sono implicite, affiorasse alla superficie un mostro oscuro contro cui nessuno scrittore può vincere.
E forse è proprio questo il senso di un romanzo come questo. Perché nonostante tutto resta l’aver stanato il mostro, aver costretto l’occhio che scavalca il torrente dei caratteri a posare sui corpi inermi delle donne assassinate e abbandonate nel deserto. Aver costretto il lettore a fermarsi in una assurda città di frontiera, ormai definitiva città dell’uomo consacrata al vuoto che la circonda; dove non è possibile fidarsi di alcun essere umano; soprattutto non di se stessi, né delle “voci”: «così tutto ci tradisce, compresa la curiosità e l’onestà e quello che abbiamo molto amato. Sì, disse la voce, ma consolati, in fondo è divertente».
Queste parole potrebbero riferirsi al meccanismo narrativo, quanto alla costruzione della “Storia”, o anche al processo della memoria individuale. Eppure ci ingannano. Quello che avviene nel romanzo di Roberto Bolaño è l’esatto contrario di ciò che pensa Amalfitano la notte in cui definitivamente si avvicina alla follia: il sistema narrativo di 2666 si fonda proprio sulla decostruzione di una sequenza “storica” (storia, ricordo, narrazione). Mi sembra che la scrittura di Bolaño si muova in una sorta di inconsapevolezza autoprovocata: come una persona appena sveglia che si mettesse ad annotare i propri sogni. In altri termini, questo romanzo è un tentativo di sottrarsi al processo narrativo propriamente detto, mediante un lavoro duro e faticoso: provare in ogni parola ad eludere se stessi ed il proprio “io” narrante.
Tentativo fallito, peraltro. Al di sotto delle trame decostruite dell’io scrivente si cela un’ulteriore identità nella non-identità. Ed è il male, sotto forma di follia, non senso, e soprattutto stupidità. Come se, anche al culmine etico della “Storia” che si estranea per liberarsi dalle tensioni autoritarie che le sono implicite, affiorasse alla superficie un mostro oscuro contro cui nessuno scrittore può vincere.
E forse è proprio questo il senso di un romanzo come questo. Perché nonostante tutto resta l’aver stanato il mostro, aver costretto l’occhio che scavalca il torrente dei caratteri a posare sui corpi inermi delle donne assassinate e abbandonate nel deserto. Aver costretto il lettore a fermarsi in una assurda città di frontiera, ormai definitiva città dell’uomo consacrata al vuoto che la circonda; dove non è possibile fidarsi di alcun essere umano; soprattutto non di se stessi, né delle “voci”: «così tutto ci tradisce, compresa la curiosità e l’onestà e quello che abbiamo molto amato. Sì, disse la voce, ma consolati, in fondo è divertente».
La mia breve nota ovviamente non esaurisce nemmeno in minima parte la discussione su questo romanzo, e soprattutto su quest’autore. Naturalmente, ci sarebbe anche molto da dire sull’ottima traduzione di Ilide Carmignani. Noi di Tabard speriamo di poter riprendere il discorso sul prossimo numero, sempre che il nostro Hispanista sopravviva ai suoi rave e si decida a riaprire i libri.
Achille
Nessun commento:
Posta un commento