martedì 1 giugno 2010

recensione 2666 - Quel cuore semplice di Arcimboldi (2666 - secondo volume)

Dario Voltolini - La Stampa - 25 ottobre 2008


Quel cuore semplice di Arcimboldi (2666 - secondo volume) 

Finalmente i lettori italiani stregati dal primo volume di 2666 possono tuffarsi nell'inesauribile materia narrativa di quest'opera di cui Adelphi completa la pubblicazione dando alle stampe il meraviglioso secondo volume, che comprende, delle cinque storie di cui si compone il tutto, le ultime due, intitolate "La parte dei delitti" e "La parte di Arcimboldi".
Tuttavia vorremmo che queste poche righe di commento a uno dei più importanti capolavori della letteratura contemporanea raggiungessero i lettori che non conoscono ancora Bolaño. Quelli che l'hanno conosciuto, e se ne sono innamorati, l'hanno fatto senza riserve. Si tratta di uno zoccolo duro, di un fan club. Non sono certo loro quelli a cui ha senso comunicare che il libro è ora in libreria.
Siccome un altro libro eccezionale di questo grande scrittore, I detective selvaggi (pubblicato da Sellerio cinque anni fa), non ha certo sconvolto le classifiche, confessiamo il timore che anche il maestoso progetto di scrittura che è 2666 possa non giungere a tutto il pubblico che si merita.
Per ciò che riguarda il primo volume rimandiamo alla recensione di Paolo Collo (tuttolibri 03/11/2007 ). Qui diciamo che la narrazione riparte puntando direttamente al centro magnetico dell'opera, cioè la tremenda città di Santa Teresa, nel deserto di Sonora, in Messico, al confine con gli USA. Si snoda lungo la spina dorsale di un racconto cadenzato, biblico, in cui una per una vengono raccontate alcune delle donne assassinate nella città. D'altra parte, tutto il megaromanzo 2666 punta verso l'abisso cieco di Santa Teresa, come in un maelström a volte lentissimo a volte accelerato: ma nelle pagine della "Parte dei delitti" siamo posti a tu per tu con la voragine che inghiotte, senza peraltro sprofondarci mai, come è nelle corde più profonde della poetica dello scrittore cileno.
La "Parte di Arcimboldi" chiude l'opera riandando all'origine del misterioso scrittore tedesco: fatato, toccante racconto di metamorfosi personale che prende il piccolo Hans Reiter dalla sua natia Prussia e ne sconvolge i tratti sottoponendolo a ogni tipo di pressione, tra cui la Seconda Guerra Mondiale, producendo in extremis il personaggio di Benno von Arcimboldi, nome d'arte composto anche da un richiamo al nostro pittore Arcimboldo, che faceva teste umane con frutti e verdure; cioè forme a partire da altre forme, come la narrativa di Bolaño fa. Benno von Arcimboldi resta però un cuore semplice, originatosi nel sogno di un mondo d'acqua e destinato al deserto di Sonora, di cui appena sappiamo qualcosa, cessiamo di sapere (come nel finale di Martin Eden). D'altronde un Arcimboldi compariva anche nei Detective selvaggi, come autore francese del libro La rosa illimitata, in una delle infinite tracce che solcano tutta l'opera di Bolaño (che è una rosa illimitata!). Una frase lasciata cadere quasi a caso nel testo rende il senso di questa grande narrazione: "e, in effetti, era tutto vero, almeno in apparenza".
Le centinaia di personaggi creati da Bolaño sono tutti al tempo stesso reali e irreali, come nota James Wood (in How Fiction Works) a proposito dei personaggi dei romanzi postmoderni: ma Bolaño porta alle estreme conseguenze e a maturazione molte intuizioni narrative finora solo abbozzate ed è per questo che non lo si può classificare se non tra gli inclassificabili. Come Kundera ha ribadito (Il sipario), il romanzo ha da giocare ancora innumerevoli carte. Bolaño in 2666 dimostra questa tesi con una forza e una chiarezza esemplari.
Non si riesce a credere che 2666 sia l'ultima parola detta da Bolaño. Resta la speranza che ci abbia fatto un tiro strano, dei suoi, e abbia lasciato da qualche parte un tesoro da disseppellire (come Benno von Arcimboldi fa per la sorellina). Ma se così non fosse, resterà la torsione impressionante che ha saputo dare, con una prosa dall'eleganza smisurata e con una maestria completa nell'uso delle voci, a una letteratura che appariva stanca e terminale. E resterà anche l'esempio di uno scrittore che il fato ha dotato di moltissimi talenti e che li ha giocati tutti senza risparmio facendoli fruttare al massimo. Non si possono ancora valutare gli effetti di questa opera di rilancio e di riapertura, e nemmeno di altre opere dello stesso tipo di altri autori, ma certo l'impressione è che una potente forza creativa sta di nuovo rianimando la narrativa, sta riaprendo ciò che appariva chiuso, calcificato e pronto per il museo.
L'ultima frase di 2666 chiude ciò che non si può chiudere, e non la citiamo apposta per giocare anche noi una piccola carta, quella della curiosità. 

Dario Voltolini ottobre 2008

Di recente Dario Voltolini è stato intervistato da fahrenheit (radio tre);ascolta:




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