martedì 1 giugno 2010

recensione 2666 - un labirintico confine

  Bruno Arpaia -   il sole 24ore - 28 ottobre  2007


Un labirintico confine

Prima di morire, nel 2003, a soli 50 anni, mentre aspettava inutilmente un trapianto di fegato, Roberto Bolaño fece due cose: pubblicò Anversa, il primo romanzo che aveva scritto nel 1980, fino a quel momento  rimasto  inedito  (un  libro  sperimentale,  in  cui  la  trama  è  frantumata,  ridotta  a  visioni, immagini, ricordi, frammenti di dialoghi, abbozzi di storie e di personaggi), e soprattutto lavorò, in una corsa serrata contro il tempo, al suo "romanzo totale", che intuiva sarebbe stato l'ultimo. Le 1.120 pagine di 2666 rappresentano perciò il testamento di un autore che, dopo trent'anni di esili, vagabondaggi, spericolate acrobazie per sopravvivere, aveva finalmente raggiunto un certo successo ed era diventato quasi una leggenda, un punto di riferimento per molti dei giovani latinoamericani emergenti, tanto che Susan Sontag ne aveva addirittura parlato come di uno scrittore "destinato a occupare un posto permanente nella letteratura mondiale".
Sapendo che probabilmente non sarebbe sopravvissuto alla sua opera maestra, Bolaño aveva lasciato istruzioni perché il romanzo fosse pubblicato in cinque tomi (uno all'anno), corrispondenti alle cinque parti in cui è diviso, ritenendo così di assicurare il futuro economico dei suoi figli. Ma proprio gli eredi hanno poi scelto di contravvenire alle sue indicazioni e di pubblicarlo integro in un solo volume, come sarebbe stato logico se non fossero intervenute le tragiche circostanze che fecero prendere a Bolaño quella decisione. Non è ben chiara, perciò, la scelta dell'editore italiano di dividere il testo in due parti, non rispettando né la volontà dell'autore né quella dei suoi eredi, e costringendo i lettori a dover attendere l'autunno del 2008 per farsi un'idea complessiva del romanzo.

  Idea complessiva che, del resto, ammettiamolo, non prende forma tanto facilmente di fronte a questo quasi inesauribile intrecciarsi di minuziosi dettagli, vite parallele, scenari plurimi, descrizioni e narrazioni mescolate a sottili riflessioni sulle ossessioni dell'autore, che congiuntamente perseguono lo scopo, abbastanza esplicito, di esaurire il mondo, tutto. Lo scrittore argentino Rodrigo Fresán ha addirittura confessato che, partito con l'intenzione di tenere una sorta di diario di bordo della sua esperienza di lettura, dopo le prime trecento pagine è riuscito solo ad annotare: "Niente da dire. Difficile scrivere qualcosa su tutto" .
Sfida ambiziosissima, dunque, quella di Bolaño. Ed estremamente cosciente, come qui e là fanno trasparire i suoi personaggi: "Che triste paradosso" , pensa, per esempio, Amalfitano, il protagonista della seconda parte. "Neppure i farmacisti colti osano più cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell'ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore".
Da questa sorta di "autoritratto" del romanzo, si capiscono dunque molte cose: il titolo, innanzitutto, che evoca una specie di Anticristo del secondo millennio, un Anticristo collettivo incarnato letterariamente nella strage di centinaia di donne uccise negli ultimi anni a Ciudad Juárez, alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. In 2666 Ciudad Juárez diventa Santa Teresa , ed è attorno a quella sordida città di confine che ruotano le storie raccontate da Bolaño. Nella prima parte, infatti, quattro critici letterari di diverse nazionalità, accomunati dalla passione per un anziano scrittore prussiano svanito nel nulla, Benno von Arcimoldi, e da sotterranei legami amorosi, si ritrovano a Santa Teresa sulle orme del novello Salinger (come i due protagonisti dell'altro grande romanzo di Bolaño, I detective selvaggi, alla ricerca di Cesarea Tinarejo, autrice di un'unica fondamentale poesia e poi scomparsa senza lasciare traccia). La loro guida in quel mondo così diverso dall'Europa è Amalfitano, cileno esule ed errante, professore dell'università locale, che ha vissuto a Barcellona e poi, abbandonato dalla moglie Lola a vantaggio di un poeta ricoverato in manicomio (e siamo ormai nella seconda parte del romanzo), ha deciso di trasferirsi in Messico con la figlia Rosa. La quale, nella terza parte, incontrerà Oscar Fate, giornalista di colore di una rivista statunitense di secondo piano, capitato da quelle parti per coprire un incontro di pugilato, in sostituzione di un collega morto. Fin qui il primo volume dell'edizione.
Nella quarta parte, forse quella centrale del romanzo, Bolaño racconterà, con occhio clinico e lirico insieme, i delitti contro le donne, racconterà violenze e torture indicibili, per poi arrivare, nella parte finale, alla storia di Arcimboldi. Come si sarà capito, però, tentare la sinossi di questo libro è quasi impossibile, se non inutile.
Bisogna leggerlo. Bisogna lasciarsi trasportare dalla velocità narrativa di Bolaño, dalla sua inventiva, dal suo coraggio, dalla meraviglia dei dettagli, bisogna perdersi nel torrente di pagine e poi cercare di ritrovarsi. Non sempre accade. Non sempre, forse, se ne uscirà pienamente convinti. Ma resterà comunque un'esperienza che vale la pena attraversare.

Bruno Arpaia 28 ottobre 2007


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