venerdì 18 giugno 2010

A proposito di Bartleby e dei bartlebys

Ornela Vorpsi -  nazione indiana - 28 febbraio 2008


Estratto del saggio

Riflessioni su “La vita degli animali” di J. M. Coetzee e su “Bartleby e compagnia” di E. Vila-Matas


A proposito di Bartleby e dei bartlebys

Tutti possono scrivere, ma ciò non fa di tutti degli scrittori. Ecco, cosa si può immediatamente dedurre dalla lettura di Bartleby e compagnia di Enrique Vila-Matas: l’accesso di qualsiasi persona alla scrittura, per quanto dotata dei fondamentali tecnici (la stessa cosa si può dire dell’analfabeta: tutti possono raccontare una storia, ma ciò non fa di tutti dei narratori), non significa affatto che una relazione essenziale con la scrittura sia all’opera. Come si riconosce questa relazione che impegna intimamente un essere a scrivere? Forse, dal fatto che essa è prima di tutto una non relazione con la scrittura, una «non scrittura» avvitata al cuore, una perforazione della scatola cranica, una piaga non suturabile, una pagina che ridiventa continuamente bianca, alla stregua dell’onda che inghiotte l’onda che è giunta un attimo prima a impregnare la sabbia.

All’inizio nello scrittore c’è una cancellazione che prelude alla memoria, che precede e allo stesso tempo apre e chiude la possibilità di raccontare qualcosa, una cancellazione attiva che egli scrivendo giunge miracolosamente a scongiurare, quasi si trattasse di saltare un muro altissimo, o di dividere le acque di un oceano, quasi gli fosse richiesto l’impossibile!
Quanto allo scrittore che concretamente non scrive – nel senso che non produce parole visibili sulla carta o sullo schermo di un computer, che è incapace cioè di partorire un prodotto verificabile della sua attività –, egli si trova troppo vicino alla fonte, troppo vicino al vuoto, troppo sull’orlo dell’abisso per poter saltare, per poter andare al di là dell’abisso che possiede, del resto, soltanto un’estremità! Come si può saltare al di là di un abisso che possiede una sola estremità? Eppure questo significa cominciare a scrivere: essere d’improvviso catapultati nel mezzo della scrittura senza esserci entrati, senza aver saltato, senza essersi spostati da un luogo a un altro, senza aver avuto uno stimolo esteriore a scrivere. Lo scrittore che non scrive continua a scrivere: è la situazione che Vila-Matas descrive nel suo romanzo. Lo scrittore che non scrive – che egli viva ciò con crudele voluttà, nel terrore o nella follia (Hölderlin, Robert Walser) – scrive in modo più essenziale di colui che traccia delle parole su un quaderno o attraverso la tastiera di un computer: scrive in bianco, afferma che all’inizio e alla fine di ogni esperienza non c’è nulla da dire, confonde il suo gesto con la perpetua cancellazione che è il segno distintivo del presente. Qualcosa giunge, qualcosa senza tregua se ne va. E da questo perpetuo recupero dell’antico attraverso il nuovo, da questa caduta di tutto ciò che viene a essere, nascono la scrittura, la storia, le forme. Lo scrittore che non scrive non possiede questo tempo. Tutto ciò che potrebbe venirgli dalle parole si perde. Egli è da sempre sprofondato nella notte. Scrive, ma ciò che scrive non prende corpo, non giunge alla vita.

Se dico: tutti possono scrivere, ma questo non fa di tutti degli scrittori, voglio dire questo: uno scrittore è colui che sa che scrivere è veder compiersi il miracolo del passaggio all’atto di ciò che per definizione non può passare all’atto perché è necessario già esserci. Bisogna già scrivere per scrivere, bisogna già essere dentro la scrittura senza essere stati invitati, come un ospite che, con grande stupore degli altri commensali, si è introdotto senza attraversare la soglia di casa. Perché uno scrittore dovrebbe essere simile a quell’ospite? Colui che scrive senza aver sentito che stava per compiere un salto nell’impossibile, scrive soltanto qualcosa di precotto, di già detto, di già fatto. La grande maggioranza dei libri che si pubblicano sono scritti da non scrittori che potrebbero essere comparati a dei pranoterapeuti della morte, a dei becchini, a degli affossatori della vita. Il loro lavoro è la gestione dei cadaveri. Dissotterrano i morti, li fanno a pezzi, li fanno parlare e li depongono qua e là. Sebbene facciano esattamente ciò che desiderano, sono alle prese con una materia inerte e perfettamente estranea al loro lavoro. Tale materia – forse intrisa dei loro ricordi – è formata dal tema che hanno scelto, dagli strumenti sintattici e stilistici di cui dispongono. Tuttavia, ciascuno di loro sta allo scrittore come il muratore allo scultore. Ciò non significa che uno scultore non possa essere anche un bravo muratore: ogni scrittore, infatti, è qualcuno che si interessa alla tecnica, che prende dalla tecnica ciò di cui ha bisogno, ma non è la tecnica che definisce essenzialmente la sua pratica. Lo scrittore è prima di tutto colui che non scrive. Colui che consustanzialmente non scrive. Egli è colui che non scrive perché possiede una storia intima con il modo in cui il mondo nasce e muore e che talvolta, non sempre, a volte mai (come nei casi estremi descritti da Vila-Matas di scrittori, di veri scrittori, che non hanno lasciato ai posteri neppure una frase), fa l’esperienza miracolosa dell’iscrizione, del movimento della vita che prende corpo, che dura, così come la costa riceve l’onda dal mare, così come prende forma un essere vivente. Questo dare la vita che determina la potenza («potentia») dello scrittore, non è dato a tutti. È raro, possiede i tratti dell’immacolata concezione. È una nascita senza genitori. Senza procreazione. Senza un prima. Non si è (scrivendo all’infinito frasi vuote con l’inchiostro simpatico del presente privo di durata) e, improvvisamente, si è. Allora si scrive sperando di arrivare alla fine. Non si è. Si è. Tra i due momenti, nient’altro che un salto che non c’è stato, che non ha superato alcun abisso. Per descrivere questa aporia, penso al movimento delle particelle che tormentano la fisica contemporanea, ma il cui impossibile comportamento è stato dimostrato: particelle che giungono prima di partire o che esistono allo stesso tempo in due luoghi diversi. Penso alle esperienze paradossali a cui i maestri zen ci invitano per mezzo dei loro koans: qual è il suono di un applauso operato con una sola mano?

Eppure l’esperienza più concreta, la più intima che uno scrittore possa fare, è data proprio da questo «improvvisamente». Improvvisamente ci sono. Ho riempito interi quaderni di frasi preparatorie, scritto migliaia di abbozzi. Sono andata ripetendomi e ripetendomi, prima di giungere alle soglie del passaggio magico, del passo-muraglia. Ho perfino pubblicato libri pieni di cadaveri. Forse anche ora sono nel mezzo di un simulacro di libro, e improvvisamente… scrivo. C’è vita, e la vita può illuminare tutto ciò che l’ha preceduta, dando linfa alle parole morte, animandole. Questo evento, in ogni caso, è necessario.

Norman Mailer : «Look, novels don’t always come your way: It’s like falling in love. You can’t say: «Oh, gee, I think I’m ready to fall in love, and then meet some woman who’d be perfect. When a novel comes, it’s a grace. Something in the cosmos has forgiven long enough so that you can start» («Sentite, i romanzi non sempre si trovano sul vostro cammino. È come innamorarsi. Non puoi dire: “Ecco adesso è tempo di innamorarsi” e poi incontrare la donna perfetta. Quando un romanzo arriva è una grazia. Qualcosa nel cosmo ha perdonato abbastanza a lungo perché tu possa cominciare»).

Mailer si guarda bene dallo specificare chi ha perdonato, o cosa. Non sono io, la mia persona, che è stata perdonata. Non è interessante quando questo capiti: c’è perdono del tempo stesso, perdono del presente, perdono del presente da parte del presente. Così una vita sorge, si incolla al tempo, alla pagina. Si tratta di un evento così misterioso che è difficile e perfino inutile cercare di descriverlo. Quando lo si sperimenta, ci si ritrova a usare stranamente un linguaggio prossimo a quello della teologia negativa. Si afferma: non è né questo né quello… Ricominciamo. Siamo vicini a Meister Eckart che scriveva: «Soltanto il NO brucia all’inferno». Tutto il resto è, tutto è. Tutto è e tutto muore. Il miracolo, il passaggio all’atto consiste nel trionfare su questa realtà, su questo stato, su questa uniformità e su questa universalità, su questa assoluta pienezza dell’essere che viene e che va (the Fullness of being!) … per dire l’essere, per affermare questa pienezza, per inscriverla in un modo o in un altro, per trarne pensiero, storia! Ciò concerne Kafka come la povera Maria Lima Mendes del romanzo di Enrique Vila-Matas che dopo poche frasi rinuncia a scrivere il suo romanzo e che trascorsi alcuni anni, sulla scorta di Barthes, lancia all’autore di Bartleby e compagnia la seguente constatazione: «Il fendente dell’impossibile inizio mi ha diviso l’anima, che vuoi farci». E questo fa di lei una scrittrice.
(traduzione dal francese di Massimo Rizzante)
Il saggio di Ornela Vorpsi fa parte del volume Finzione e documento nel romanzo che raccoglie gli interventi degli autori italiani e stranieri che hanno partecipato al “Seminario Internazionale sul Romanzo” che si è tenuto all’Università di Trento tra il novembre del 2006 e il maggio 2007. Il volume è di prossima uscita presso Editrice Università degli Studi di Trento.
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