mercoledì 2 giugno 2010

Roberto Bolaño (2666 )

Raul Schenardi -Pulp Libri- dicembre 2007


Roberto Bolaño (2666 )

Arrivato  in  libreria  2666,  il  romanzo  postumo  di  Roberto  Bolaño  (nella  traduzione  di  Ilide Carmignani) che Adelphi ha deciso di pubblicare in due volumi (il prossimo uscirà fra un anno). L'autore, consapevole del peggioramento delle sue condizioni di salute e preoccupato di garantire qualche introito alla famiglia, avrebbe voluto cinque volumi separati (tante sono le parti, dotate di relativa autonomia, in cui si divide 2666) e distanziati nel tempo. L'editore spagnolo però, in considerazione del carattere malgrado tutto profondamente unitario dell'opera, ha deciso di pubblicarla in un unico volume. Inevitabili le polemiche, ma molti gliene sono stati grati. (Mica bisogna sempre rispettare le ultime volontà di un autore, viceversa non potremmo leggere buona parte dell'opera di Kafka…)nota. La scelta di Adelphi di farne due volumi immagino lascerà un po' interdetti i lettori curiosi di sapere "come va a finire". Anche perché il principale nucleo tematico viene affrontato proprio nella quarta parte. Ma tant'è. Impossibile comunque parlare di questo romanzo misterioso (a cominciare dal titolo) senza fare riferimento all'opera nel suo complesso. Impossibile anche riassumerlo, o rendere conto in modo esauriente della ricchezza di situazioni, personaggi e temi. Tenterò una descrizione sommaria della struttura del romanzo, avvertendo che 2666 è la summa dell'opera letteraria di Bolaño, in cui confluiscono le sue riflessioni più profonde e che rispecchia la sua piena maturità di scrittore. Poco importa che non avesse concluso il lavoro di revisione. E lasciamo ai pedanti la caccia ai "difetti", e agli oziosi la discussione se sia più bravo come poeta, nel racconto, nella nouvelle o nel romanzo-fiume (lui ha sempre insistito sul fatto che la sua opera letteraria doveva essere vista come una totalità).

"2666 rappresenta la ricapitolazione e l'esaltazione di tutte le sue riconosciute doti di narratore: la fluidità, il ritmo, la creazione di suspense, lo sguardo obliquo di un narratore sfuggente, l'eccezionale capacità di affabulazione, pari solo alla sua capacità di captare le innumerevoli "voci" ascoltate nella sua vita di nomade"
Ci troviamo di fronte, con 2666, a un progetto ambizioso di "romanzo totale" da parte di un autore consapevole di lasciare il proprio testamento letterario, che ha avuto il coraggio di sostare in "un'oasi di orrore in mezzo a un deserto di noia " - come recita la citazione di Baudelaire in epigrafe - per "stralciare qualche foglio dal suo quaderno di dannato", alla maniera di un moderno Rimbaud. È la visione apocalittica di uno scrittore latinoamericano che ha guardato in faccia e ha meditato su uno dei fenomeni   più  rivoltanti  e   incomprensibili   che   si consuma sotto   gli   occhi  del mondo  nelle  zone desertiche al confine fra Messico e Stati Uniti, ma senza dimenticare di ricordare agli europei gli orrori del Novecento nel vecchio continente. Inoltre, nell'opera omnia - un'opera chiusa, purtroppo - di Bolaño, 2666 rappresenta la ricapitolazione e l'esaltazione di tutte le sue riconosciute doti di narratore: la fluidità, il ritmo, la creazione di suspense, lo sguardo obliquo di un narratore sfuggente, l'eccezionale capacità di affabulazione, pari solo alla sua capacità di captare le innumerevoli "voci" ascoltate nella sua vita di nomade. E di questo era ben consapevole: "Io scrivo a partire dalla mia esperienza, diciamo, personale, sia da quella libresca e culturale, che con il tempo sono diventate una cosa sola. Ma scrivo anche a partire da quella che una volta si chiamava esperienza collettiva, che, diversamente da quanto pensavano alcuni teorici, è piuttosto inafferrabile" . Infine, 2666 affronta senza mezzi termini un tema etico universale: è un romanzo sul male, e sui rapporti fra la letteratura e il male, un estremo atto di accusa contro la barbarie che avanza e contro l'inettitudine degli intellettuali.
2666 inizia con "La parte dei critici": quattro docenti universitari di diversi paesi europei, fra cui una inglese e un italiano su una sedia a rotelle, seguendo le tracce di Benno von Arcimboldi, uno scrittore tedesco del dopoguerra di cui sono cultori, traduttori ed esperti, arrivano in un paesino ai bordi del deserto di Sonora, sulla frontiera Messico-Usa.  Nel  frattempo  la  donna,  prima  di  dichiarare   il   proprio amore  all'italiano,  intreccia relazioni sessuali con gli altri due, in modo del tutto trasparente e nevrotico. Il tema della ricerca dello scrittore di culto che ha fatto perdere le sue tracce riprende il leitmotiv dell'ultima parte de I detective selvaggi, e ritroviamo l'ambientazione cosmopolita cara a Bolañ o (i   personaggi viaggiano in continuazione da un congresso all'altro o semplicemente per incontrarsi, fra Madrid, Londra, Parigi…), così come la satira del mondo accademico e del mercato editoriale con tutte le loro piccole meschinità. (Affettuoso invece l'omaggio riservato da Bolaño ad Angelo Morino, anche lui prematuramente scomparso quest'estate, che ha meritoriamente curato la pubblicazione di quasi tutte le sue opere in Italia per Sellerio). Ma la critica principale che Bolaño sembra muovere a questo mondo è quella di soffrire di amnesia: lo studioso italiano, leggendo il manifesto, viene a conoscenza della terrificante catena di omicidi di donne nel deserto di Sonora, ma si perde in una fantasticheria intorno alla giornalista che firma l'articolo e " un'ora dopo aveva già completamente dimenticato la faccenda".
Si tratta del primo di una serie di accenni al "buco nero" intorno a cui ruota il romanzo, poi impietosamente sviluppato nella quarta parte, "La parte dei crimini": il femminicidio di Ciudad Juárez link interno (che Bolaño nel romanzo chiama Santa Teresa link interno). Centinaia di donne uccise in dieci anni e ritrovate in zone desertiche, talvolta dopo molto tempo, spesso mutilate e stuprate. Assassini rimasti impuniti anche grazie al pressappochismo e alla corruzione della polizia messicana, e di cui restano sconosciuti i moventi: satanismo? compresenza di vari serial   killer? violenza endemica in una zona dove imperversano narcotraffico, la prostituzione e lo sfruttamento di una numerosa manodopera femminile? Bolaño apprezzava il lavoro del giornalista Sergio González Rodríguez (di cui Adelphi ha pubblicato Ossa nel deserto) ed era rimasto molto colpito da quella interminabile catena di delitti. Una volta, a un intervistatore link interno che gli chiedeva come vedesse l'inferno ha risposto: "Come Ciudad Juárez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri".
Con "La parte di Amalfitano" il quartetto dei critici esce di scena e il lettore entra invece nella vita di un solitario, il professore cileno Amalfitano, finito a insegnare nell'università locale, che ai quattro aveva fatto da guida e che funziona come cerniera fra le prime due parti (così come sua figlia Rosa farà da cerniera fra la seconda e la terza). La moglie lo ha abbandonato molti anni prima per raggiungere, insieme a un'amica lesbica, un poeta rinchiuso in un manicomio spagnolo, e da quel momento lui vive solo con la giovane figlia, visitato da presenze spettrali e immerso nell'atmosfera oppressiva del luogo. Potente l'immagine del libro (Il testamento geometrico) appeso da Amalfitano con le mollette a una corda, "in modo che il vento potesse sfogliare il libro, scegliere i problemi, voltare le pagine e strapparle", seguendo le istruzioni di Duchamp per creare un ready-made. Qui ritroviamo tutta l'ammirazione di Bolaño per le avanguardie artistiche, e la sua viscerale preferenza per la sperimentazione: "Neppure i farmacisti colti osano cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell'ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. In altre parole, vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore".
"La parte di Fate" ci introduce anche "fisicamente" nell'inferno di Santa Teresa, e a guidarci in questa discesa è Oscar Fate (un nome fittizio), afroamericano, giornalista di cronaca sociale. Mandato a sostituire un collega per coprire un incontro di boxe, Fate entra in contatto con i sordidi ambienti dove maturano i crimini contro le donne, salva Rosa Amalfitano da una sgradevole situazione e l'accompagna dall'altra parte della frontiera. È l'antieroe tipico dell'hard boiled, e in tutta questa parte sfilano personaggi che appartengono a un immaginario cinematografico amato dall'autore: un predicatore religioso ex Pantera nera, il militante di Brooklyn del Partito Comunista degli Stati Uniti d'America, giornalisti sportivi, pugili, narcotrafficanti, ragazze facili messicane… Fate ha abbastanza cervello e fegato da capire che il reportage da realizzare sarebbe quello sui crimini, e non sull'incontro di boxe, ma al suo giornale non la pensano allo stesso modo. Riesce comunque a unirsi a una giornalista messicana che ha ottenuto un'intervista in carcere con un detenuto accusato di una serie di omicidi. E qui si chiude il volume di Adelphi.
Seguono le due parti più lunghe del romanzo, "La parte dei crimini", cui ho già accennato: un'intollerabile, dolorosa sequenza di orrori resa nello stile dei reperti giudiziari, un materiale quasi intrattabile in letteratura, e infatti non siamo nel romanzesco, ma nella realtà brutale del Messico odierno. Dell'ultima parte anticiperò soltanto che torna il personaggio di Arcimboldi, di cui ci viene raccontata la vita avventurosa nell'Europa degli opposti totalitarismi, e si scioglie l'enigma sul motivo che lo aveva portato a Santa Teresa.
A proposito del nome fittizio scelto da Roberto Bolaño per indicare Ciudad Juárez, un critico vi ha letto un riferimento alla Macondo di Garcia Márquez, per concludere che se Macondo era la città mitica che narrava l'origine dell'America latina, Santa Teresa è la città fin troppo reale che ne racconta la fine. Ma se l'immagine mitica del sogno latinoamericano proposta da Garcia Márquez si è fissata sulla nostra retina di lettori sovrapponendosi spesso alla visione e alla percezione della realtà di quel continente, la lettura di 2666 di Roberto Bolaño equivale a un intervento di rimozione della cataratta.
Nel maggio del 2003, pochi mesi prima di morire, Roberto Bolaño venne al Salone del libro di Torino per presentare I detective selvaggi, da poco uscito da Sellerio. In quella occasione lo intervistai per "Pulp" (vedi nº 44) e approfittando della sua squisita disponibilità, proseguii poi una lunga chiacchierata a registratore spento. Per ovvi motivi di spazio a suo tempo dovetti tagliare ampie parti dell'intervista, e ora, un po' malinconicamente, mi sembra interessante recuperarne un paio di brani.
Mi presentai a lui come un fan, chiedendogli di firmarmi una copia maltrattata dell'edizione spagnola, e credo che la cosa lo abbia ben disposto nei miei confronti. E nonostante la confusione imperante nello stand, le interruzioni di lettori che chiedevano autografi (ricordo lo staff di minimum fax, religiosamente in coda), e l'evidente stanchezza di Roberto, assillato dalla sete (una delle prime cose che mi disse fu che non stava bene, ma io pensai a un malessere passeggero, allo stress del viaggio e della fiera), riuscì a trovare la concentrazione per rispondere alle domande e la voglia di aprire ampie digressioni, quando l'argomento gli sembrava abbastanza coinvolgente. Perché il Bolaño conversatore, come lo scrittore, era torrenziale, ellittico, reciso nelle affermazioni e nelle negazioni.
All'inizio dell'intervista, parlando del parallelo stabilito da molti critici fra I detective selvaggi e Il gioco del mondo di Cortázar, e di quanti contrapponevano il Cortázar scrittore di racconti all'autore dei romanzi, presuntamente inferiore, Bolaño ha sviluppato un'acuta analisi del celeberrimo racconto di Borges, L'Aleph:
 
"Come tutti i racconti di Borges, è costruito in una maniera esemplare. Vale a dire che racconta una storia, o due storie, ma racconta anche come si costruisce una storia o qualsiasi storia. Nell'Aleph abbiamo la storia d'amore fra Borges e Beatriz Viterbo, poi c'è la morte di Beatriz, nel fiore della gioventù,
Insomma, in un racconto di dieci pagine ci sono già dieci storie, mi dici come cazzo si fa a scrivere un romanzo di oltre seicento pagine con una sola storia?
appassionata, superba, affascinante, che oltretutto muore lasciando Borges con un palmo di naso perché lui non riesce mai ad averla in nessun modo. La prima parte è purissima, nella seconda c'è frustrazione, morte, agonia, e c'è un amore non corrisposto. Poi c'è la terza storia: come Borges cerca di far rivivere nei gesti quotidiani il ricordo di Beatriz, e ci riesce andando a visitare una volta l'anno la sua casa. Quarta storia: l'apparizione di Carlos Argentino Daneri, cugino di Beatriz e la sua successiva amicizia con Borges. Poi viene la quinta storia, e ormai non è più questione di Borges né di Beatriz Viterbo, ma di Daneri e dei suoi tentativi poetici. Sesta storia segreta soggiacente: Carlos Daneri come una satira di Pablo Neruda e del suo tentativo di creare un'opera d'arte totalizzante (in quel periodo Neruda stava scrivendo il canto generale). Daneri è, diciamo, ritratto speculare e assolutamente infernale di Neruda. Settima storia: la realizzazione di Daneri nell'Aleph. Borges scende e contempla L'Aleph, e diciamo che questa storia è il nucleo principale del racconto. Ottava storia: vendetta dell'innamorato rifiutato, ergo Borges, sul cugino, che probabilmente aveva avuto una relazione carnale con Beatriz Viterbo. Ultima storia: distruzione della casa, che porta con sé la distruzione dell'Aleph, e una nota finale sui destini letterari di Borges e di Carlos Daneri: Daneri vince un secondo premio a un concorso di poesia e Borges resta a bocca asciutta. Insomma, in un racconto di dieci pagine ci sono già dieci storie, mi dici come cazzo si fa a scrivere un romanzo di oltre seicento pagine con una sola storia? È assolutamente impossibile, chi pensa una cosa del genere è un idiota. Ogni romanzo è una successione di storie che si vanno intrecciando. Stendhal l'aveva già visto con una chiarezza solare: la letteratura, un libro, è uno specchio, uno specchio che non se ne sta quieto però, ma si muove su una strada, e sullo specchio si riflettono via via le cose che succedono durante il percorso, e ogni cosa può restare in sospeso, con un punto interrogativo, oppure può finire. In questo senso Il gioco del mondo di Cortázar, che racconta moltissime storie, non fa che seguire la legge naturale del romanzo. Nemmeno lo scrittore più monotono potrebbe scrivere un romanzo dove vi sia una sola storia. Il romanzo, in questo senso, sarebbe una successione di racconti, perché la vita è una successione di racconti. Di fatto, un anno è la successione di quattro stagioni, un anno in realtà non è un anno, sono quattro stagioni, e un giorno non è un giorno, c'è il mattino, il pomeriggio, il tramonto, la notte. E cosa fa un romanziere? Una successione di racconti... Certo, poi possiamo discutere della struttura, della forma che si dà a questa successione, ma su un piano assoluto non si tratta di nient'altro che di una successione di racconti".
Quando gli chiesi degli scrittori latinoamericani che sentiva affini o di cui apprezzava comunque il lavoro, Bolaño rispose:
"L'argentino Rodrigo Fresán , che è mio amico, sta scrivendo cose interessanti, lo sento molto vicino, un altro argentino che si chiama Alan Pauls, poi ci sono i messicani Daniel Sada, Carmen Boullosa, il guatemalteco Rodrigo Rey Rosa, forse attualmente il migliore autore di racconti, lo stilista più raffinato della mia generazione. Il Guatemala è un paese estremo, c'è una miseria… una violenza che fa rizzare i capelli in testa… nessuno dovrebbe scrivere, dovrebbero essere tutti analfabeti… sembra una situazione senza vie d'uscita. Eppure ogni trenta o quarant'anni tira fuori uno scrittore straordinario: prima Miguel Ángel Asturias. Poi Arturo Monterroso, oggi c'è Rodrigo Rey Rosa".

I testi di Raul Schenardi qui pubblicati
 •  Profilo di Roberto Bolaño link interno
 •  I detective selvaggi link interno (recensione)
 •  2666 link interno
 •  Io non ho paura della morte link interno (intervista a Bolaño del 2003)



NOTE
In una recente intervista link esterno , Ignacio Echevarría sostiene che Bolaño
"sapeva che stava lottando contro la morte, durante 'ultimazione di un progetto molto ambizioso che forse non sarebbe riuscito a terminare in tempo; e d'altra parte lo preoccupava la sicurezza economica della sua famiglia. Quando Bolaño muore aveva una figlia di un anno e mezzo e un figlio adolescente. Allora, non avendo nessuna chiara certezza se l'opera sarebbe stato un successo, penso' che avrebbe guadagnato più soldi se la vendeva in cinque parti. Però nessuno che abbia letto il romanzo, può dubitare che si tratti di un solo corpo, e non credo che qualcuno si lamenti per non essere stata pubblicata divisa in cinque parti. Per tutto il tempo che ho conosciuto Bolaño, lui mi parlo sempre del "suo romanzo" e non dei "suoi romanzi". Pubblicarla insieme, fu una decisione abbastanza evidente e legittima, malgrado la sua espressa volonta' di segno opposto."



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