Enzo Di mauro- Alias de Il Manifesto - 3 novembre 2007
Fragili e picareschi nelle arterie d' Europa
Dia, chi vuole e chi sa, una lettura iniziatica e misteriosofica del fluviale romanzo-testamento del cileno di Santiago Roberto Bolaño - scomparso a cinquant'anni nel 2003 a Barcellona, dove da parecchio tempo risiedeva e dove leggenda e morte lo raggiunsero nel pieno di una maturità creativa che lasciava presagire lampi persistenti di meraviglie letterarie - così magari cascando nella trappola irridente e sarcastica dell'autore che lo scrisse invece in vista di un trapianto di fegato per assicurare alla famiglia una qualche tranquillità economica nel caso che le cose, come poi purtroppo accadde, si sarebbero volte al peggio. Suddiviso in cinque parti, 2666, ora nell'eccellente traduzione di Ilide Carmignani ("Fabula" Adelphi, pp. 433, € 19,00), ogni singola sequenza, secondo le intenzioni a questo punto tradite di Bolaño, avrebbe dovuto vedere la luce della pubblicazione sola e abbandonata, chiusa in sé, una all'anno, dunque accompagnando e incuriosendo gli eventuali lettori per lo spazio di un intero lustro, alle maniere dei vecchi sussidiari con i bambini delle scuole elementari. Gli eredi, in Spagna, hanno piuttosto deciso di far stampare 2666 in un unico volume; qui da noi si è fatta una scelta improntata, se non ad arbitrarietà, di sicuro a una certa dose di sadismo, ovvero distribuendo il tutto in due tomi (il secondo viene annunciato per l'ottobre del 2008).
Per ora, dunque, bisogna accontentarsi delle prime tre parti, cioè "La parte dei critici", "La parte di Amalfitano" e "La parte di Fate", come a voler scongiurare per adesso ogni eventuale conclusione per un'opera che quasi certamente si vuole irrisolta, difettosa di un centro, nomade per poetica e per statuto, come già ci aveva suggerito la nutrita bibliografia italiana di questo nostro fratello e compagno irrispettoso, scrittore però tutt'altro che irrisoluto o malfermo o semmai caracollante per zelo di modernità, per implicito e ininterrotto omaggio al miglior Novecento. Bibliografia - edita da Sellerio, tranne il romanzo Amuleto (Mondadori, 2001) - che comprende titoli a loro modo indimenticabili come La letteratura nazista in America (1998), un capolavoro di sarcasmo e di risentimento politico e mappa di vite immaginarie o virtuali e tuttavia verosimili, Stella distante (1999), e, a seguire, tutti da noi mandati in libreria nei sette anni del nuovo secolo, Chiamate telefoniche, Notturno cileno, I detective selvaggi - oltre ottocento pagine imperniate sulla parabola di un gruppo di giovani poeti dediti a scoprire o, meglio, a tiranneggiare i carnali piaceri della vita piuttosto che a scrivere versi intorno all'inevitabile sconfitta che li attende - Puttane assassine, La pista di ghiaccio, Un romanzetto canaglia, Monsieur Pain, Il gaucho insostenibile, Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce (firmato con A.G. Porta) e, da ultimo, Anversa, che fu di fatto il primo libro di Bolaño.
Anche nel suo ultimo romanzo, i personaggi di questo autore conservano indole e caratteristiche che ci pare di ricordare come in un ritorno infinito. Sono pur'essi spavaldi e strambi, tristi solitari, infaticabili (quand'è il caso) perdigiorno, eroi picareschi, fragili e narcisisti. Questo eterno vagare fin nei meandri (o nei bordelli) di alcune grandi città del vecchio continente ci indicano un'autentica idolatria per l'Europa, per le sue arterie, per il suo cuore che qui non è vecchio per nulla, anzi appare condannato a una felicità da perenne o da nuovo inizio. Anche il parigino Jean-Claude Pelletier, il madrileno Manuel Espinoza, l'italiano Piero Morini, la londinese Liz Norton - i quattro germanisti e accademici che si ritrovano all'insegna e sulle tracce del misterioso (come Salinger o come Thomas Pinchon) scrittore tedesco Benno von Arcimboldi - e poi il professore (e guida) Amalfitano, sua moglie Lola, donna di sentimenti estremi innamorata di un poeta altrettanto radicale, la loro diciassettenne figlia Rosa, in perenne e gravissimo rischio in una zona dove decine di ragazze vengono assassinate e sepolte nel deserto, o il giornalista di colore Oscar Fate, ecco, anche loro sono militanti alteri e mai riconciliati, anarchici e caritatevoli, rivoltosi più che rivoluzionari. Se qualche formula combinatoria li riassume e raggruppa e li induce a mirabolanti scorribande, il lettore pensi pure, se vuole, a Borges, ma passi subito oltre e creda che semmai si tratta di un Borges che si sia nutrito al desco di un beatnik pieno di rabbia giovane, magari assieme a Roberto Artl. Non sono, questi personaggi, nemmeno diversi da Arturo Belano, altrettanto celebre alter ego dello scrittore, figlio, fratello, testimone, combattente (aveva conosciuto le carceri di Pinochet), clochard solo in apparenza indifeso e in realtà armato di memoria sovversiva, come Auxilio Lacouture, la protagonista di Amuleto, che andava ripetendo come una minaccia "io non riesco a dimenticare niente".
In altri termini, molti personaggi di Bolaño hanno molti tratti in comune, a tal punto che tutti si mostrano votati per sempre a un assoluto relativo che li lascia liberi e, insieme, non li rende incolumi. Esperti in contatti e contrasti pericolosi, legittimati da un sentimento adolescenziale (ossia supponente, rapace, perverso e però antiutilitaristico) e mitologico della gioventù, nella loro generosa e svergognata e disperata iattanza, non riescono a cambiare la loro vita e il mondo e tuttavia non smettono di pro- varci. Ad esempio, alla donna-medusa di 2666, all'inglese Liz Norton l'espressione " 'conseguire un fine', riferita a qualcosa di personale, le sembrava un imbroglio meschino. A 'conseguire un fine' anteponeva la parola 'felicità'. Se la volontà è connessa a un'esigenza sociale, come riteneva William James, e pertanto è più facile andare in guerra che smettere di fumare, di Liz Norton si poteva dire era una donna per cui era più facile smettere di fumare che andare in guerra".
E, allora, Benno von Arcimboldi? A cosa porta l'inseguimento, il seguirne la traccia fino a Ciudad Juárez , desolata località nel deserto, alla frontiera tra Messico e Stati Uniti (paese dove fioccano, tra l'altro, le leggende sulle leggende degli scrittori scomparsi e pronte per l'esportazione)? A modo di avvertimento, lo scrittore ci suggerisce che, da sola, "la ricerca di Arcimboldi non avrebbe mai potuto riempire le loro vite" , né riunirle. Sì, certo, i quattro avrebbero potuto leggerlo,"potevano studiarlo, potevano anatomizzarlo, ma non potevano morire dal ridere con lui né deprimersi con lui, in parte perché Arcimboldi era sempre lontano, in parte perché la sua opera, man mano che uno vi si addentrava, divorava i suoi esploratori", anche se fossero stati boyscout o adoratori di Peter Pan (e i quattro accademici, in uno dei tanti vagabondaggi londinesi, si ritrovano a Kensington Gardens, ai piedi della statua dell'eterno fanciullino, mentre da un cespuglio spunta strisciando un serpente). Formidabile e vividissima è, qui più che altrove, l'intelligenza letteraria del ribelle Roberto Bolaño. E, veramente e oltre a tutto, egli ci dà un'immagine felice e che credevamo perduta per sempre dell'Europa. Ma tale immagine - non ci si inganni - sta interamente riposta nella felicità stessa del narrare, nel calore consolante con cui vengono abbracciate e salutate le strade, le piazze, i bar, le librerie, gli uomini, le donne, la polvere, il fango. Quanta nostalgia del mondo già c'è in queste pagine ancora palpitanti di gioia.
Enzo di Mauro - 3 novembre 2007
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