Giuseppe Quaranta - 2 giugno 2010
Stella distante - Roberto Bolaño
La lettura di Bolaño è stata multipla e parallela fin dall’inizio. Non posso di dire di aver iniziato a leggerlo partendo da un solo suo libro. Mi hanno sempre circondato numerose sue pagine, e la sua lettura è venuta sotto assedio per un motivo ben preciso: la sua profonda, pur se dispiegata nei dialetti più impensabili della sua coscienza, dicevo, la sua profonda unitarietà.
Bolaño è un campione del travestimento e se devo pensare a un’immagine che renda giustizia al nostro incontro, ripenso alla famosa leggenda sulla nascita del Buddha che, sotto forma di elefante a sei zanne, con il corpo del colore della neve, entrò in sogno dentro la madre, la regina Maya, trapassandole il fianco. Destatasi dal sogno la regina non ebbe né dolori né peso, ma si sentì leggera. La mostruosità dell’immagine religiosa può essere attenuata dalla sua valenza simbolica, ma io non voglio attenuare nulla. La carica di Bolaño, impetuosa e sanguigna, desolatamente e poeticamente latinoamericana, è paragonabile alla forza di un elefante maestoso che ti entra nel fianco. Ma il dettaglio onirico e la levità e parimenti la dolcezza sono caratteristiche che non si possono ignorare leggendo il cileno.
Ho scelto, come i tipi della Sellerio, di commentare “Estrella distante”, perché oltre che essere un bell’esempio della sua scrittura, di quelli nitidi e atroci che fecero la sua fama entro breve tempo, è anche un invito alle generazioni, è romanzo peregrino selvaggio puberale. E’ fatto, per riprendere un’immagine danzante del glorioso bardo, della stessa fattura e stoffa dei sogni, così come lo sono i versi che vengono vergati nei cieli dal protagonista diabolico di queste pagine, Carlos Wieder (Wieder significa “di nuovo” perché il personaggio è ripreso da un precedente libro di Bolano, “La letteratura nazista in America”, di cui Stella distante è il fratello siamese, quello più rapido, quello meno grasso e che non ha mole ingombrante, come ha detto lo stesso autore).
Poeta, assassino, macabro fotografo, regista di film hard core e snuff movie, e appunto aviatore e sky-writer. Personaggio decisamente impensabile per un gioco come quello delle identità di Frizzi, Wieder è generato da un incubo e come tutti gli incubi è generatore di altri incubi che scendono giù, martellanti come una grandine, sul nostro inconscio collettivo. Wieder è sulla bocca di tutti, tutti lo ammirano lo cercano lo acclamano, ma egli è avventato, vola alto nei cieli, è artefice di giochi crudeli, incurante del pericolo e dei comandi della torre di controllo, cerca di assottigliare il baratro che esiste tra noi e la poesia. Si lascia trasportare nei cieli dalle brezze che animano la scrittura di Bolaño. E mai come prima sono risuonati i versi che Hölderlin scrisse facendo risplendere una della nostre sere:
Oh bevi brezze d’Oriente ( si riferisce alla terra e in tedesco è ancora più bello, O trinke Morgenlüfte…, quell’Oriente che Bolaño amava e si auspicava),
finché tu sia schiusa e nomina ciò che ti sta innanzi.
Non può più a lungo restare
Segreto l’impronunciato.
Ma dove più traboccante che limpide fonti
l’oro e più grave s’è fatta l’ira del cielo
deve tra giorno e notte
infine apparire il vero.
Tre volte trascrivilo, ma pure non detto com’è ora
deve, oh innocente, restare.
La ricerca di Wieder è davvero straniante.
Nessuno sa dove sia non perché manchino i testimoni, ma perché manca l’accusa. Nessuno si cura di lui, il Cile lo dimentica, la sua storia diventa marginale, periferica e crepuscolare. Proprio quando il plauso mondano sembra averlo tradito, ecco che la vera letteratura sembra interessarsi a lui. E il taglio poliziesco degli ultimi capitoli, omaggio a quel b-side che Bolaño ha scrupolosamente indagato nella sua carriera ahinoi decennale, acquista una sua collocazione estremamente fisica e dirompente. Bolaño ridona al giallo la sfumatura metafisica con cui è entrato nel regno letterario; gustiamo il prodotto, ci viene l’acquolina, ci mettiamo inconsapevoli alla ricerca del male, quello assoluto, l’antagonista. Colui che si oppone alla copula e all’amore. Che fa gravare sulla terra mistificazione e abbandono, che moltiplica con convinzione l’infelicità. Dice la grande Szymborska, in una splendida lirica, che l’amore felice non ha mai popolato la terra, che è uno scandalo nelle alte sfere della vita.
Leggendo Stella distante, con la claustrofobia che ci perseguita, perché il confine tra la vita e la morte non è la gioia ma il terrore, la Szymborska sembra avere ragione, ogni tentativo di felicità è solo fallimentare. Cercando e tentando tuttavia di scovare tra i monti, le geografie, i mari, il poeta-aviatore, simbolo del male sfuggente, Bolaño ci suggerisce forse un percorso contrario, meno clamoroso, ma più appagante: la ricerca della felicità, o meglio, della serenità, o meglio ancora della quiete, laida e dispersa nei monti della solitudine e della paura.
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