Per Kenzaburo Oe
di Massimo Rizzante - marzo 2011
Negli
Anni della nostalgia, come in quasi tutti i suoi romanzi, Kenzaburo Oe, ritorna nell’isola di Shikoku, nel villaggio in mezzo alla foresta dove, nel 1935, è nato. Qui Kei, il protagonista, sperimenta l’«eterno tempo del sogno» in cui tutto ritorna. La nonna – e poi la madre – ha trasmesso al piccolo Kei le leggende degli antenati, fondate sul mito della rigenerazione degli uomini. Ciò che le unisce è un brevissimo racconto:
All’età di quattro anni, già mi intristivo al pensiero di aver consumato quattro anni della mia esistenza. Mia nonna, con voce tranquilla e melodiosa, mi diceva per incoraggiarmi: “Non devi preoccuparti, in questa valle, anche se gli uomini muoiono, il loro spirito ritorna nella foresta danzando nell’aria e poi si ferma ai piedi di un albero. Quindi anche tu, dopo la morte, aspetterai sotto il tuo albero e un giorno rinascerai in questo mondo”.
Concepire il tempo come «un cielo sotto il quale coesistono tutti i climi» e la sensazione complementare di essere «in un circolo infinito» hanno in Kei un’origine remota: lo spirito di un morto che dopo aver danzato nell’aria si posa ai piedi del suo albero in attesa di rinascere.
Nel prologo a un altro suo romanzo,
M/T e il racconto delle meraviglie della foresta, il narratore, nel momento in cui traccia le due lettere dell’alfabeto che danno il titolo al romanzo e che rappresentano misteriosamente i due fondatori del villaggio nella foresta, afferma:
Per pensare la vita di un uomo è necessario disegnare una linea che non si accontenta di avere inizio dalla sua nascita, ma che risale nel tempo e che non si ferma neppure nel giorno della sua morte, ma si estende molto più in là. La venuta di un uomo al mondo non dovrebbe ridursi alla sua nascita e alla sua morte. Egli nasce nella grande ombra del cerchio delle persone che lo inglobano, e anche dopo la sua morte, ci dovrebbe essere qualcosa che sopravvive.
Nel villaggio dell’isola di Shikoku «l’eterno tempo del sogno» delle leggende e dei miti si mescola alla Storia, tanto che nella memoria del narratore di
M/T le vite individuali dei personaggi fondatori del villaggio si confondono, sebbene essi siano vissuti in epoche diverse. Così, negli Anni della nostalgia, la «linea» individuale di Kei si estende ed è inglobata nella «grande ombra del cerchio» di tutti coloro che, non importa in quale epoca, hanno atteso di rinascere ai piedi del loro albero.
M. R.
OE KENZABURO
Io non posso rivivere, ma noi potremo rivivere
1
Vinto il trauma della nascita,
l’esserino serra ostinatamente
gli occhi ancora incapaci di vedere.
Poi piange,
sentendo avvicinarsi il volto di chi
riconosce in lui la propria immagine...
Sono forse io, vecchio di nuovo in fasce
a emettere quegli urli?
I tempi che dovrà attraversare questo bambino
supereranno in sofferenze i miei settant’anni.
Benché non possa pormi domande,
non cessa di brancolare nel buio, divaricando
le sue dita minuscole e delicate.
2
Una delle leggende della foresta dello Shikoku
si chiama «Il nostro albero». La leggenda racconta
che ogni persona che vive e muore nella valle
possiede un suo albero.
Quando qualcuno muore la sua anima se ne vola in cielo
per posarsi ai piedi di un albero.
Poi, trascorso un certo tempo,
discende a valle
per entrare nel cuore di un nascituro,
ai piedi del suo albero.
Se un bambino lo desidera con tutte le sue forze,
può (a volte) vedere da vicino
il vecchio che un giorno diventerà.
3
Fino ai miei dieci anni,
il Giappone era in guerra.
Bambini, cantavamo:
«Al tuo fianco, Grande Principe,
moriremo senza rimpianti»
Il giorno in cui il Grande Principe
con voce umana annunciò
che la guerra era perduta,
il sindaco del nostro villaggio,
in piedi davanti alla stazione radio, esclamò:
«Noi non potremo rivivere!»
Sotto un cielo azzurro senza nuvole,
la sola eco alle sue parole fu un grande silenzio.
Quando ci s’inoltra nella foresta, attraversata la zona
dei cedri e dei cipressi,
si scorgono alcuni alberi dalle ampie foglie che formano una lucida fustaia.
Qui si erge un gruppo di abeti.
Sono i «nostri alberi», gli alberi della mia famiglia.
Ho atteso ai piedi di un giovane albero.
Desideravo chiedere
al vecchio che sarei diventato:
«Potrò rivivere?»
Ma quando al tramonto sentii dei passi nel sottobosco,
corsi impaurito verso una scarpata di sorbi.
Saltando qua e là, scivolai e caddi.
Spogliando il mio corpo coperto di ferite
per ungerlo con un olio di radici che aveva raccolto,
mia madre brontolò arrabbiata:
«Come si fa a dire a dei bambini
“Noi non potremo rivivere?”»
E aggiunse queste parole, che per me sarebbero rimaste
a lungo un mistero:
«Io non posso rivivere,
ma noi potremo rivivere».
4
Un amico, che combatteva una difficile lotta contro la leucemia,
e che condivideva allo stesso tempo l’incertezza
del suo popolo senza patria,
scelse come argomento di riflessione finale
lo stile di vita e d’espressione che certi artisti adottano di fronte alla morte.
Quegli artisti che non raggiungono mai una serena maturità,
che rifiutano la tradizione, che non si conciliano con la società,
che si ergono solitari nel loro rifiuto,
alcuni dei quali pervengono a un’originalità senza pari...
Nel suo ultimo fax, inviatomi da una stanza
d’ospedale di New York, scriveva:
«Non temere le contraddizioni che tormentano l’anima della vecchiaia,
esamina bene le difficoltà e, anche se le tue gambe vacillano,
tendi le braccia al di là».
Oggi che erro nel vicolo cieco degli anni,
sono perfettamente consapevole della mia scontrosa solitudine:
il sentimento del rifiuto mi è fin troppo famigliare.
Che io dica no alle macchine di distruzione planetaria
accumulatesi nel corso del mio secolo, non ha niente di straordinario.
Ma oggi dubito perfino dei molti tentativi
che si fanno per smantellarle.
Mi rannicchio sul pavimento che trema, domandandomi:
«Che valore hanno tutte queste opere, frutto della mia semplice immaginazione?»
Il vecchio che avevo atteso quel giorno
ai piedi del «mio albero»,
oggi sono io, ma non ho ancora trovato
le parole per rispondere alla domanda di quel ragazzo...
5
Un anno dopo la sua nascita, non ritrovo più in mio nipote
alcun riflesso della mia vecchiaia
che credevo di avervi intravisto.
La pelle liscia e lucente, mi guarda.
Ed io, errando nel vicolo cieco degli anni,
mi rannicchio al suo fianco.
Nel suo libro incompiuto il mio amico scriveva:
«La vecchiaia non si può né spezzare né vincere,
si può soltanto percorrere fino in fondo».
Se vado in fondo al mio sentimento di rifiuto,
la mano tesa verso il cielo, le gambe vacillanti,
finirò per cogliere
qualcosa?
Rinsaldare il proprio sentimento di rifiuto
significa non cedere né alla facile speranza né alla disperazione...
Questo esserino innocente di appena un anno per il quale tutto è nuovo
continua
ostinatamente
davanti ai miei occhi
a brancolare.
6
Per la prima volta, in fondo a me stesso,
le parole di mia madre
hanno perduto il loro mistero.
Un vecchio desidera rispondere a tutti i piccoli esseri:
«Io non posso rivivere,
ma noi potremo rivivere».
© Oe Kenzaburo
(traduzione di Massimo Rizzante e Mokichi Ohiro)
Nota
La traduzione del testo poetico di Kenzaburo Oe (con l’originale giapponese) è apparsa nell’ultimo numero della rivista
Il primo amore, Effigie edizioni.
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