Stefano gallerani
Ernesto Sabato-
A più di dieci anni dall’ultima ristampa per gli Editori Riuniti e a quasi quarantacinque dalla prima edizione feltrinelliana, torna nelle librerie italiane il secondo romanzo di Ernesto Sábato, e il suo più noto, Sopra eroi e tombe (prefazione di Ernesto Franco, traduzione di Jaime Riera Rehren, Einaudi, “Letture”, pp. 579, € 26,00).
Allora, nel 1965, il nome dello scrittore argentino di origini arbëreshë (classe 1911) s’aggiungeva a quelli di Cortázar e del porteño Borges infoltendo la schiera di autori sudamericani che poco a poco si lasciavano scoprire dalla nostra editoria. Nella stessa collana “I Narratori” della casa milanese erano già apparsi Corpo di ballo, del brasiliano João Guimarães Rosa, e Aura, del messicano Carlos Fuentes, che doppiava così il conterraneo Juan Rulfo, il cui Pedro Paramo era stato pubblicato tra “Le comete”; tra ’60 e ’63, poi, da Longanesi e Mondadori erano stati tradotti i cubani Alejo Carpentier e Guillermo Cabrera Infante, rispettivamente con il romanzo Il regno di questa terra e i racconti di Così in pace come in guerra.
A seguire, sarebbero arrivati, tra gli altri, Asturias, Roa Bastos, Lezama Lima e Arlt, preludio agli exploit di Garcia Marquez e Vargas Llosa. In mezzo a tanti, il profilo di Sábato si distinse pressoché da subito perché, a detta di Guido Piovene, l’irrealtà (o il “realismo magico”) che accomunava questa eterogenea pattuglia lui non la accettava «come un dato di fatto da cui si parte indifferenti per fare opera d’invenzione». Sábato, scriveva l’autore de Le furie recensendo proprio Sobre héroes y tumbas, quest’irrealtà «la sente come una tragedia pubblica e personale, si propone di storicizzarla, riferendola a cause molto precise nella storia, nella composizione, nei successivi sfaldamenti della società argentina; una malattia civile, che produce negli individui quei modi di pensare e d’essere, ma che avendo motivi storici può trovare rimedio». Una tragedia – e una malattia – che Sábato visse pubblicamente con l’allontanamento dal partito comunista, segnato dalla fuga a Parigi in occasione di un congresso internazionale a Bruxelles al quale un giovane Ernesto partecipò come delegato studentesco, e privatamente nello scrupolo di coscienza che, complice la frequentazione degli ambienti surrealisti e l’amicizia con André Breton e Oscar Domínguez, lo portò ad abbandonare la matematica e una brillante carriera di fisico al fianco di Irene Joliot-Curie per dedicarsi completamente alla scrittura ed al disegno.
«Se si arriva alla scienza per ansia di verità e conoscenza – scrive Ernesto Franco – […] si può scoprire presto che i suoi strumenti dànno accesso a verità parziali e che la totalità dell’uomo è conoscibile solo attraverso il contraddittorio percorso dell’arte». Con una recensione a L’invenzione di Morel, di Bioy Casares, nel ‘41 comincia il lento apprendistato che sette anni dopo culminerà nell’esordio romanzesco.
Circonfuso d’aria esistenzialista, anche e soprattutto perché Albert Camus volle fortemente pubblicarlo nella collana da lui diretta per Gallimard, El túnel (Il tunnel, Feltrinelli, 1967; Einaudi, 2001) anticipa, sia pure nelle sostanziali differenze di struttura e sintassi, alcuni dei motivi che torneranno tanto in Sopra eroi e tombe che in Abbadón, el exterminador (1974; L’angelo dell’abisso, 1977), a chiusura di un trittico che è, insieme, sia un dialogo serrato tra testi che si rimpallano personaggi e riflessioni che un deposito di possibilità latenti, come se da un’unica ossessione generassero e si alimentassero sensi e traiettorie imprevedibili e imprevisti.
A volerne ridurre il numero, l’elemento ricorrente di quest’affresco narrativo è, come già notato da Cesare Segre, nella retta che congiunge due termini antitetici quali la partecipazione e la solitudine, cui si deve aggiungere il filo costantemente teso da Sábato tra memoria passata e esperienza presente. E se quest’ultima irrora ed allucina L’angelo, la prima impronta di sé tutta la narrazione di Sopra eroi , che difatti comincia, spacciata per un frammento di nera del giornale “La Razón”, con una nota che vale un epilogo.
Da qui, a ritroso, si intrecciano le due vicende principali del romanzo: ossia, l’educazione sentimentale del giovane Martin De Castillo, diciassettenne malinconico e innamorato della stregonesca Alejandra, figlia di Fernando Vidal Olmos, e la storia della famiglia di lei, ricostruita per oltre centocinquanta anni. Perdita dell’amore, follia e decadenza di una famiglia imparentata con l’aristocrazia creola di Buenos Aires sono le metafore che Sábato sceglie per meglio illustrare quella discesa all’Averno che sembra contraddistinguere la sua intera visione della vita. Una visione cupa e sotterranea che esplode in quell’ascesso del libro, romanzo nel romanzo, che è la sua terza parte, ovvero il “Rapporto sui ciechi” stilato dal faustiano Fernando: mélange filosofica e paranoide su cui poggia la gran parte della fama visionaria dell’anarcocristiano (così si è più volte definito Sábato) di Rojas. Per Fernando (oltre Martin, l’altro personaggio in cui Ernesto Sábato, sulle piste del rapporto padre/figlio dell’Ulisse joyciano, si sdoppia fino ad attribuirgli la sua stessa data di nascita, e cioè il 24 giugno) il mondo sarebbe governato da una loggia di ciechi che tirano le fila della sorte degli uomini: «Se, come dicono, Dio ha il potere sul cielo, la Setta ha il dominio sulla terra e sulla carne». Potenza luminosa, quella dei Ciechi e dei suoi Gerarchi, che si irraggia da un labirinto di ridotti ed antri, forte di un «potere di vita o di morte che esercita mediante la peste o la rivoluzione, la malattia o la tortura, l’inganno o la falsa compassione, la mistificazione o l’anonimato, le maestrine o gli inquisitori». Quale che sia la diversa interpretazione che è stata data del “Rapporto”, nella sua aperçu cardine e negli eccessi Sopra eroi e tombe elegge e tradisce le sue origini moderniste, situandosi d’un colpo fuori di qualsiasi bagarre letteraria, oggi come allora, e attestandosi su un crinale impervio dell’esperienza artistica del secolo scorso accanto al Circolo di Stratis Tsirkas o all’Uomo senza qualità di Robert Musil, con i quali condivide l’anelito alla totalità e la rassegnazione all’incompiutezza. Valgono tuttora le parole di Witold Gombrowicz, che vide in quella di Sábato «un’opera davvero straordinaria in cui il romanticismo, la tradizione, la Storia, una sorta di anacronismo tellurico e la patologia sudamericana si combinano in uno strano modo con un medesimo tutto avanguardistico che esprime L’Argentina attuale». Una breve postilla: sulla quarta di copertina, il libro Einaudi si fregia di presentare «per la prima volta tradotto integralmente» Sopra eroi e tombe. Il che è tanto vero quanto inesatto perché il testo di riferimento è, in effetti, esemplato sull’originale apparso in Argentina per l’editore Fabril nel 1961, ma quello presentato da Feltrinelli nella versione di Fausta Leoni quattro anni dopo era, stando a ciò che vi è riportato, lo stesso che Sábato licenziò per la traduzione che sarebbe stata la prima europea del romanzo. In ogni caso, di tutto ciò non v’è traccia nel nuovo volume, orfano, fuorché per la prefazione, di apparati. E però, in un paese in cui sempre più sconfortanti sono i dati di vendita, un lettore disposto a pagare quasi trenta euro per allocare nella sua libreria un capolavoro assoluto della Weltliteratur del novecento avrebbe meritato, forse, un servizio migliore.
Alias del manifesto ---- - - -
© Stefano Gallerani
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