sabato 6 agosto 2011

Stefano Gallerani - 

recensione di             Bersaglio notturno   di 

                                  Ricardo Piglia


Come un filo rosso, la pratica del romanzo investigativo o poliziesco – il ricorso estremo ai suoi schemi, l’elusione dei suoi esiti impliciti e il superamento delle sue circoscrizioni – attraversa la storia letteraria del Novecento a tal segno da farne non solo uno dei suoi generi canonici, ma un’epitome della modernità: declinandolo rigorosamente o deformandone irrimediabilmente i paradigmi indiziario e congetturale, è tanto e tale il numero degli scrittori “maggiori” che vi si sono cimentati o dei “minori” che grazie ad esso si sono elevati – nell’immediatezza o in retrospettiva – che un elenco sarebbe superfluo e di necessità carente.

Ciò che si manifesta e si fa viepiù evidente, specie ad uno sguardo d’insieme, nel capitolo di quella stessa storia che si svolge in Sudamerica ed ha come epicentro locale l’Argentina. A stabilire prospettive e tracciare diagrammi di lettura non può essere, ancora una volta, che il genio bibliomane di Borges: ogni sua pagina, ogni racconto e tutti i romanzi mancati che ha scritto sono altrettanti misteri da svelare che contengono in sé sia la soluzione che la sua confutazione; tra le attività collaterali ma non secondarie, poi, la direzione, insieme a Bioy Casares, della collana di gialli “El Séptimo Círculo” esplora l’arcipelago inedito e imprevisto di un lettore onnivoro. Come onnivori – e perciò solo borgesiani (ma non epigoni) – sono due tra i più interessanti scrittori argentini in attività, ovvero Alberto Manguel e Ricardo Piglia, entrambi cimentatisi con il genere.


Di più, in Diario di un lettore il primo dedica uno dei dodici mesi che ne scandiscono l’andamento al Segno dei quattro, di Conan Doyle, mentre in L’ultimo lettore (Feltrinelli, 2007) il secondo stende un capitolo su Chandler che è, insieme, esperienza e manifesto d’un modo di intendere la scrittura e la lettura. A grandi linee, questa la tesi: l’investigatore, la cui origine, nella letteratura contemporanea, si deve alla rue Morgue di Poe (non a caso, risalendo nel tempo e con una tipica jonglerie, Cabrera Infante scopre l’etimo onomastico di «Eddy Poe» in Edipo, ovvero, per lui, nel «primo detective»); l’investigatore, dicevamo, in “Lettori immaginari” (questo il titolo del saggio di Piglia) è un paradigma non pretestuoso della condizione di chi legge, inscritto in una cornice che si costruisce intorno come si stagliano delle scene in un affresco: e queste scene sono, nondimeno, tutte scene primarie, che improntano il farsi della vicenda entro la quale il protagonista (che tale diventa l’investigatore, vero e proprio alter ego dell’autore) si muove ed agisce.

Ma come agisce? La risposta è in un’altra pagina di Piglia (classe 1941, e quindi sette anni più anziano di Manguel), spiccata dal suo ultimo romanzo appena pubblicato da Feltrinelli – Bersaglio notturno (traduzione di Pino Cacucci, “I Narratori”, pp. 249, € 16,00) – e la proferisce il commissario Croce: «Comprendere […] non consiste nello scoprire fatti, né trarre deduzioni logiche, e meno ancora costruire teorie, ma solo nell’adottare il punto di vista adeguato per poter percepire la realtà […] È un po’ come giocare a scacchi, bisogna aspettare la mossa dell’altro». Pure, al di là delle esemplificazioni di una qualsiasi trama, chi è davvero l’altro nel romanzo poliziesco (o nel romanzo tout court)? Se torniamo di nuovo a L’ultimo lettore, vi troviamo quest’osservazione su Poe: «Ne Gli assassini della rue Morgue, quel che Dupin legge sui giornali è il racconto frammentato del delitto. Fa una lettura molto sofisticata delle informazioni: un’analisi linguistica delle dichiarazioni dei testimoni, trascritte sui quotidiani, in relazione alle voci udite sul luogo dei fatti [..]

La lettura finisce per identificare con estrema nitidezza quella che potremmo chiamare la voce dell’altro: la voce dell’immigrato, del non francese (in un racconto scritto in inglese»; e ancora: «l’idea che il sospetto si costruisce sul pregiudizio è elaborata con estrema efficacia dal genere. Il sospettato numero uno è l’altro sociale, colui che appartiene alla minoranza che circonda il mondo bianco, al cui interno si generano versioni paranoiche di ciò che potrebbe costituire una minaccia».

Tuttavia, in Bersaglio notturno (che in originale porta il titolo, ben più espressivo, di Blanco nocturno) l’alterità è duplice rispetto all’ambientazione pampera del romanzo: risiede tanto nel sospettato, Yoshio Dazai, un giovane portiere di notte di origini giapponesi, che nella vittima, il dandy mulatto Tony Durán, un americano dai natali portoricani estraneo tanto alla cultura statunitense che a quella sudamericana. Con un’aggiunta, per capire la quale si deve proseguire nello scritto chandleriano di Piglia, laddove l’autore di Soldi bruciati e Respirazione artificiale rinviene nella nuova posizione delle donne il passaggio del genere dalla sua forma classica tardo-ottocentesca (quella di Dupin e Holmes, insomma) a quella contemporanea e iper-novecentesca (Marlowe  e Spade, per intenderci). Il motivo che spinge Durán da Atlantic City a uno sperduto paesino a trecento chilometri da Buenos Aires (immaginario e reale come Santa María in Onetti o Macondo in Garcia Marquez) sono le gemelle Belladonna. Come in Chandler, la loro presenza è quella di un doppio attenuato e s’accompagna, inevitabilmente, al denaro – altro confine che «marca la differenza essenziale tra il racconto di mistero e il thriller»:  Ada e Sofía (così si chiamano le sorelle, figlie di una delle più facoltose famiglie del paese) conoscono Tony tra casinò e alberghi, in un estenuato e ambiguo gioco di ruolo in cui  nessuno recita la parte che gli sembra assegnata dal caso. Ricostruito in questo modo, l’intreccio di Bersaglio mobile potrebbe leggersi come una dimostrazione degli assunti di “Lettori immaginari”, in cui allo schema di partenza s’aggiungono le digressioni sulle origini del piccolo paese argentino, la presenza d’un narratore testimone (il giornalista Emilio Renzi che porta, nel cognome, una traccia autobiografica dello stesso Piglia) e lo sfondo della Storia (siamo, infatti, nel 1972, alla vigilia del ritorno di Perón in patria e dieci anni prima della guerra delle Falkland/Malvinas).

E però, Piglia è non per niente uno scrittore borgesiano: la sua qualità, così più pregiata perché sapientemente intessuta tra uno e centomila fili diversi, sta tutta nell’invertire i rapporti e cambiare i nessi: alle gemelle si sovrappone la coppia di fratelli Belladonna, Croce monologa con la sua spalla, Saldías, e dialoga con la sua nemesi, il procuratore Cueto; Renzi prende nota degli avvenimenti come si appuntasse spunti per un romanzo da farsi e le postille a piè di pagina non chiudono o esplicano concetti, ma aprono vie di fuga.

Tutto, dunque, sembra ossequiare un’idea e contemporaneamente tradirla, prestando fede, si direbbe, solo ad una delle regole codificate ne L’ultimo lettore, ovverosia l’elaborazione costante del contrasto fra due concetti, due ossessioni: «L’enigma: ciò che non si comprende, ciò che è chiuso; il recondito allo stato puro» e «il mostro: colui che viene da fuori, dall’altra parte della frontiera e la cui voce è straniera: l’altro allo stato puro». Per Ricardo Piglia, che apre la sua raccolta di saggi con un lungo racconto-interpretazione di Kafka, «all’interno di una cultura, dice il genere, esiste un doppio confine delimitato dall’enigma e dal mostro». La letteratura, aggiungiamo noi chiudendo Bersaglio notturno, non fa che vedere, e perciò spostare, questo doppio confine.




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